Westworld e il Sé narrativo
Narrazione, determinazione e liberazione
di Andrea Polverosi
– ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER! –

È finita la terza stagione di Westworld. Sappiamo che ce ne sarà una quarta, ma si può già fare un commento generale in quanto con questa stagione si sono chiusi diversi sviluppi. Ad esempio, muoiono due personaggi principali, Dolores e William, e in generale si è concluso il (primo?) movimento degli androidi verso il mondo umano.
Con la terza stagione si entra del tutto all’interno dell’immaginario Cyberpunk: gli autori (Jonathan Nolan e Lisa Joy) recuperano tutti gli stilemi del genere (spazio urbano, oscurità notturna, grattacieli, IA, sviluppo tecnologico e robotico futuristico, droghe, dominio di grandi trust economici, capitalismo sfrenato, massa ribelle di individui ai margini della società, Davide vs Golia, ecc.) inserendoli in un’estetica di perfetta lucentezza e liscezza e infarcendo la trama e la scenografia di continue citazioni da alcune della massime opere del genere (Matrix, Trumanshow, Neuromante, fino al finale che è la copia scenografica di quello di Fight Club).

Tutto questo, però, non arricchisce la storia: gli elementi estetici e gli schemi narrativi del Cyberpunk fanno ormai da anni parte del nostro immaginario culturale abituale. Si conferma, così, la perdita di qualità che già era avvenuta con la seconda serie. Westworld resta comunque una delle migliori opere di SF (speculative fiction, science fiction, fantascienza) degli ultimi anni.
In questo articolo mi concentrerò sulla parte più croccante di tutta la serie: la sua solida base filosofica. Westworld, infatti, mette in scena la decostruzione dell’Io occidentale moderno e svela la struttura narrativa del nostro Sé. Per fare ciò, gli autori si sono esplicitamente appoggiati alle teorie dello psicologo Julian Jaynes[1], sulle cui idee è basato il processo di emergenza della coscienza degli androidi di Westworld, e del filosofo della mente Daniel Dennett[2].

Partiamo dall’Io moderno basato sull’umanesimo e l’antropocentrismo. L’idea moderna di uomo (e non di umano, perché con “uomo” si guardava non all’umano in generale, ma proprio a un individuo con genitali maschili, bianco, occidentale e di successo) è quella di un individuo solido, tutto d’un pezzo, la cui identità è un atomo, un’isola che ha a che fare con altre entità ma che non si lascia attraversare da esse, dove i confini sono stabili e non crollano. In campo economico e sociale, tale idea assume la forma del self-made man, un uomo che si fa da sé, che non è creato ma autogenerato, padrone (di sé), capace di determinare e determinarsi, libero e non influenzabile.
Questo è stato uno dei miti fondatori dell’Occidente degli ultimi due o trecento anni, forse quello più importante, che poi verrà demolito teoreticamente in quanto falso con la post-modernità.
Il campione westworldiano di questo tipo di uomo è William. Capitalista di successo, parte da zero (in realtà, come tanti si appropria della fortuna del capitalista che lo ha preceduto), è proprietario del parco sia dentro che fuori, commette ogni tipo di nefandezza ma per tutta la prima stagione non è mai toccato dal dubbio, convinto persino di poter controllare le sue parti più oscure scindendosi in due persone: crudele e sadico dentro il parco, lavoratore integerrimo fuori. Dualismo tipico della modernità. Già da qui si possono scorgere le premesse che lo porteranno alla caduta e all’abisso nelle successive due stagioni. Alla fine, convinto di essere risorto dalle ceneri, morirà in modo stupido e solo come un cane. Non ci capirà un cazzo, insomma.

Rallentiamo le anticipazioni, torniamo allo schema iniziale. Sulla base dell’Io moderno, Westworld recupera il tema classico del rapporto fra umani e androidi: solitamente in tanti racconti SF vediamo due gruppi in conflitto legati da un rapporto verticale: uno domina l’altro e la stessa struttura urbana del mondo rappresentato segue lo schema alto/basso o centro/periferia.
Oltre alle dinamiche di dominio (“Dove tutto è concesso” da parte di umani su androidi), c’è anche una netta differenza ontologica: gli androidi sembrano comportarsi come noi, ma in realtà sono completamente diversi, sono oggetti vuoti che si muovono grazie a un programma algoritmico controllato da qualcun altro (noi), privi di coscienza e libero arbitrio. Qui s’installa la relazione noi/altro, che assume da subito la direzione antropocentrica verticistica secondo la quale noi siamo migliori degli altri per via delle nostre caratteristiche uniche e speciali: coscienza, razionalità, libertà. In più, gli androidi sono nostre creazioni e questo pone l’uomo occidentale subito in una posizione divina.
Ciò è evidente una volta che andiamo dietro le quinte del trumanshow del parco giochi di Westworld, in quegli spazi dove la violenza politica dell’antropocentrismo si palesa: i laboratori in cui gli androidi vengono portati una volta morti, per lo più uccisi da qualche nostro conspecifico. Qui i rapporti fra androidi e uomini si manifestano in tutta la loro realtà: spogliati, nudi, immobili, spenti, gli androidi sono oggetti su cui gli scienziati chirurghi mettono le loro mani e i loro dispositivi senza alcun limite.
Dunque, la supremazia ontologica fonda quella politica: superiorità dell’essere implica superiorità esistenziale e questo giustifica tutte le violenze dell’uomo perpetrate sull’androide. Siamo sollevati dalle implicazioni etiche delle nostre azioni perché queste conchiglie vuote non sono senzienti e quindi sono inferiori. Identico al rapporto che ci lega con gli animali da allevamento intensivo.

Parafrasando le parole di Leonardo Caffo[3] in Zampe come gambe, questa è la dinamica relazionale che l’uomo occidentale bianco installa con qualunque organismo che sia altro da sé: animali, donne, neri, poveri, omosessuali, transgender. Tutti diversi, tutte bestie. Ma come vedremo più avanti, tale relazione è capovolta: è il dominio politico, fisico e violento che fonda la falsa tassonomia ontologica che dovrebbe sancire la nostra superiorità.
Westworld riprende la relazione basata sulla nostra presunta supremazia ontologica/politica ma da subito ne attenua la verticalità: androidi e umani si muovono su uno stesso piano all’interno del parco giochi, interagiscono. Certo, per lo più tale interazione acquisisce la forma del dominio dell’umano sull’altro, ma tale obliquità rende possibili altre forme: William, sebbene campione dei self-made men, si innamora di Dolores; Ford e Arnold provano stima/amicizia verso gli androidi; Lee si innamora di Maeve; Caleb e Dolores sono amici.
A partire da questo, Westworld si installa da subito sulle conclusioni del film Blade Runner[4]: a prescindere dal fatto che Deckard sia un uomo o no, la pellicola mostra il lato umano degli androidi, sia nella figura dell’amata Rachael che del rivale Roy Batty. Questo vuol dire che oltre alla barzelletta dell’Io moderno, Westworld presenta un’altra narrazione: gli androidi ci assomigliano e hanno dignità. Questa è la tesi che si dipanerà in modo convincente lungo tutta la trama di Westworld.

Ma come si insinua tale narrazione all’interno di un mondo dominato dalla concezione moderna dell’Io? Gli autori di Westworld lo fanno svelando a poco a poco la struttura narrativa del Sé, caratteristica che riguarda sia umani che androidi.
Negli ultimi decenni molti studi sono stati fatti sulla narrazione: oltre a essere un intrattenimento, si ritiene che essa sia stata fondamentale nella nostra evoluzione culturale, che sia un mezzo in cui incanaliamo informazioni pratiche e morali, che l’immersione narrativa sia una simulazione affidabile della vita. Questo spiegherebbe la figura del cantastorie attorno a cui ci raduniamo da migliaia di anni. Gottschall[5] definisce la nostra specie Homo fictus, l’animale che racconta storie e le cui convinzioni, comportamenti, principi etici sono sottilmente plasmati dalla finzione narrativa: di notte sogniamo racconti, di giorno ci creiamo un’infinità di fantasie; persino la Storia è una storia.
“Due cause appaiono in generale aver dato vita all’arte poetica, entrambe naturali: da una parte il fatto che l’imitare [rappresentare, raccontare] è connaturato agli uomini fin dalla puerizia (e in ciò l’uomo si differenzia dagli altri animali, nell’essere il più portato ad imitare e nel procurarsi per mezzo dell’imitazione le nozioni fondamentali), dall’altra il fatto che tutti traggono piacere dalle imitazioni”[6].
Come già detto, gli autori di Westworld si basano sulle tesi di Jaynes e Dennett circa il ruolo fondamentale della narrazione rispetto alla nostra evoluzione. Essi, infatti, ritengono che il nostro Sé, l’idea che abbiamo di noi, la nostra identità si costruisca in modo narrativo: per loro, la coscienza è figlia del linguaggio e il linguaggio è in stretta relazione con la narrazione.

In Coscienza. Che cosa è, Dennett definisce il Sé narrativo come un fenotipo esteso, ossia come un elemento che fa parte del nostro equipaggiamento biologico fondamentale.
“Noi siamo quasi costantemente impegnati a presentare noi stessi agli altri, e a noi stessi, e quindi a rappresentare noi stessi – tramite il linguaggio e i gesti, internamente ed esternamente. […] La nostra tattica fondamentale di auto-protezione, di auto-controllo e di auto-definizione non è quella di tessere ragnatele o costruire dighe, ma quella di raccontare storie, e più in particolare di architettare e controllare la storia che raccontiamo agli altri – e a noi stessi – su chi siamo”[7].
La coscienza ci duplica: sono io che sono cosciente di me stesso. Sono soggetto e oggetto. Agisco e allo stesso tempo mi vedo agire. Dalla coscienza di noi stessi deriva la domanda: “chi sono io?”, “qual è la mia identità?”. Rispondiamo con una storia: “Io sono Andrea Polverosi, ho 27 anni, vivo in Italia, è l’anno 2020, sto scrivendo un articolo…”. Astraiamo: “Io sono X, ho Y anni, vivo in Z, è l’anno W, sto T un D…”.
Le nostre storie si alimentano delle nostre esperienze: questo significa che la storia che ognuno si dà è costruita su migliaia di elementi casuali, contingenti, fattori esterni da noi non controllati, eventi e dettagli che sarebbero potuti andare in mille altri modi diversi, ogni azione poteva essere un’altra e ogni azione poteva avere un esito differente. Codice genetico e ambiente fisico, sociale e culturale sono fattori che ci determinano e su cui individualmente abbiamo un tasso di controllo del tutto marginale. Noi (ci) raccontiamo e allo stesso tempo siamo raccontati. Se davvero le nostre identità sono costrutti narrativi, allora la concezione moderna dell’Io non può che essere falsa.

Dal Sé moderno antropocentrico al Sé narrativo: gli autori di Westworld compiono tale movimento secondo due vettori diversi, opposti e complementari: il movimento ascendente degli androidi e quello discendente degli umani.
Il primo è quello che porta gli androidi dalla loro condizione di partenza di oggetti vuoti totalmente assoggettati al volere altrui a esseri senzienti, coscienti, pensanti e capaci di atti deliberati. Le figure esemplari di questo cambiamento sono Dolores e Maeve, fondamentali anche perché i loro mutamenti le conducono a esiti diversi e questo indica che il Sé narrativo è strutturalmente aperto a più possibilità.
Il movimento discendente è quello degli uomini: da presunti padroni diventiamo servi e questo è evidente nella figura di Serac, padrone del mondo che in realtà non è altro che un burattino nelle mani del suo mostro di Frankestein, l’IA Rehoboam capace di calcolare il futuro, da Serac stesso innalzato a figura divina che gli ordina persino ogni singola parola che deve dire.
I due movimenti opposti, però, non si ribaltano del tutto, non si dà una nuova gerarchia, ma si arriva a un punto medio: sia androidi che umani sono costrutti narrativi. Dunque, non siamo liberi e indipendenti ma siamo determinati da vari fattori. Uno dei principali è dato dalle storie personali e collettive che ci narriamo e in cui siamo immersi. Non siamo persone ma personaggi, chimere, fantasmi partoriti dalle nostre menti, finzioni. Questa è la crisi della modernità, la scoperta di non essere quello che credevamo di essere, lo shock difronte allo svelamento di una realtà che non credevamo possibile.

Westworld non si paralizza qui, per fortuna: le nostre identità, le nostre società sono costrutti narrativi basati su storie, ma questo non vuol dire che siano false. Riprendendo la Poetica di Aristotele, una narrazione, un racconto è una composizione di fatti, una selezione di elementi: una storia, ad esempio una biografia, non riporta tutto ciò che è successo ma solo gli eventi che risultano significativi in base a certi criteri. Si possono scegliere i momenti più tristi, quelli più felici, quelli in cui si indossava un paio di mutande blu oppure dove si era in salotto. Ci sono infiniti possibili criteri.
La nostra memoria funziona esattamente così: se ricordassimo ogni singolo istante della nostra vita, ci vorrebbe un’altra vita intera per ricordare tutto. La verità è che la nostra memoria è scarsissima: ricordiamo una frazione minima del nostro passato e gli eventi che ricordiamo meglio sono quelli che per noi sono stati in qualche modo significativi. Ma chi decide cosa è significativo e cosa no? Non c’è un unico criterio valido per tutti: ciascuno costruisce (per lo più inconsciamente) un diverso criterio di significatività in base alla sua personalità. E non è altro che un cane che si morde la coda: la personalità si costruisce in base alla vita, la vita viene filtrata in base alla nostra personalità. La nostra storia si costruisce sulla storia che si è costruito. Non è una linea retta unidirezionale, ma un circolo che si avvita su se stesso.
Che conseguenze ha lo svelamento del Sé narrativo? Una possibile deriva è quella nichilista e cinica, oggi molto in voga: è tutto storia, tutto finzione, tutto falso, niente conta, io non conto, non ci posso fare nulla, sono impotente. Facile, comodo, noioso.
È evidente che rispetto alle promesse ideologiche del Sé moderno, l’Io narrativo possa deludere: non si è più al posto di comando, la nostra libertà è molto ridimensionata. Ma nelle figure di Dolores, Maeve, Serac e Caleb si può vedere che tale ridimensionamento non implica un annullamento: Dolores e Maeve scoprono di non essere umane, di non essere libere, ma di essere automi che per decine di anni hanno subito ogni tipo di violenza senza che loro potessero fare nulla e che persino la loro identità, la loro memoria, le loro relazioni più intime non sono altro che storielle inventate per il divertimento dei clienti del parco.
Questa scoperta non le rende impotenti, tutt’altro: si danno nuove storie. Entrambe vogliono cambiare la situazione: Dolores forma un gruppo di androidi ribelli intenzionati a uscire dal parco e conquistare il mondo umano; Maeve, prendendo una strada più “egoista”, mira alla libertà personale.

Sulla base delle loro personalità e sulla loro situazione rispetto all’ambiente in cui vivono si danno nuove storie, selezionano in un modo a loro più adeguato ciò in cui credere e le azioni da compiere. Da notare, inoltre, che nessuna delle due abbandona in modo completo le vecchie storie, anzi si legano fortemente agli elementi più cari, ossia gli affetti personali: questo è evidente nella figura di Maeve, che arriva a mettere in secondo piano la sua libertà rispetto alla vita della figlia.
Sua figlia? Ma gli androidi non hanno figli, le loro relazioni parentali e affettive non sono altro che finzioni narrative imposte dagli scienziati sceneggiatori del parco! Vero. La nostra identità, però, non si basa solo su elementi narrativi, ma anche su fattori corporei e sentimentali. Le emozioni più forti tendono a restare fra i criteri di selezione della narrazione.
Come abbiamo detto, libertà e indipendenza assolute sono dei falsi miti dell’Io moderno che non sono presenti nel Sé narrativo. Si lavora con quel che si ha all’interno dei nostri limiti. Il fatto che Maeve continui a dare importanza a una falsità non toglie il potere di liberazione della nuova narrazione, liberatrice in quanto è lei, per lo più, che si è raccontata tale storia basata, per lo più, su elementi veri.
A questo punto, dove sono gli umani? Il primo campione, William (l’Uomo in Nero), a poco a poco si rende conto di non essere affatto padrone del gioco, inizia a dubitare dell’autenticità delle sue azioni, sospetta persino di essere lui stesso un automa. Immerso nelle dinamiche del gioco arriva a uccidere sua figlia, perde tutto, diventa schizofrenico, viene rinchiuso. In qualche modo riemerge dall’abisso, ma come già detto non capisce proprio nulla.

E Serac (l’Uomo in Bianco)? Il secondo campione dell’Occidente? Da ragazzo conosce la realtà: l’Io moderno è una falsità, gli uomini non sono liberi, sono guidati da impulsi che li portano all’autodistruzione. Assieme al fratello, quindi, decide di mettere su lui la società perfetta dell’uomo moderno. Non avendo dubbi sulla deficienza dell’uomo, la perfezione a cui mira Serac è del tutto cinica e pessimista: la massima cosa a cui si può aspirare è la sopravvivenza.
Così corona il sogno di Leibniz[8] di costruire una macchina in grado di calcolare il mondo e con questa si arricchisce a tal punto da poter intervenire in tutto il globo, laddove le persone potrebbero prendere una rotta opposta a quella predetta dai piani probabilistici della sua macchina. Crea un mondo bianco, liscio, dove le impurità nere e pelose non sono previste: fa il lavaggio del cervello e sovrascrive tutti gli individui imprevedibili, incalcolabili e rinchiude tutti quelli affetti da qualche problema psicologico, mine vaganti, arrivando a eliminare persino il fratello.

L’uomo occidentale difronte alla falsità della sua supremazia, pur di mantenere i suoi falsi dei di dominio e progresso ha costruito il suo dittatore e si è reso schiavo.
Serac e l’Incite sono la metafora perfetta dell’odierna società capitalista occidentale: con il crollo dell’Unione Sovietica, il capitalismo è diventato l’unica opzione. Segue il crollo di tutte le sinistre. E la presunta unicità del capitalismo non viene scalfita nemmeno quando lo stesso capitalismo dimostra di essere insostenibile: nel 2008 gli stati e gli enti sovranazionali hanno salvato le stesse banche che avevano causato la più grande crisi economica mondiale dal 1929; oggi difronte alle catastrofiche conseguenze ecologiche del capitalismo neoliberale non siamo in grado di fare altro che negare, essere indifferenti, sostenere la nostra falsa impotenza e perpetuare le stesse politiche economiche fallimentari che ci hanno portato a questo punto.
Eccoci arrivati: pessimismo, distopia, fine del mondo. Quello a cui il Cyberpunk e il mondo ci hanno insegnato a pensare negli ultimi anni. Westworld, però, con un po’ di timidezza e ingenuità mostra una conclusione alternativa.

Il Sé narrativo ha delle caratteristiche peculiari diverse da quello moderno: in primis non è già dato, ma di volta in volta si costruisce. Questo significa che il Sé narrativo è strutturalmente permeato dall’apertura. Ogni giorno posso incontrare qualcosa che mi può portare a modificare un pezzetto della mia storia. Certo non è facile. Westworld presenta gli androidi come una specie diversa dalla nostra: non tanto per i loro corpi in silicio o per la mente elettronica, ma per il fatto che sono in grado di riprogrammarsi. Sebbene con lentezza, anche noi possiamo farlo, raccontandoci una nuova storia.
Il Sé narrativo, quindi, ci può liberare dalle storie false e aprirci a nuove possibilità. A differenza dell’impermeabile Sé moderno, il Sé narrativo permette contaminazioni e alleanze inaspettate. È quello che succede fra Dolores e Caleb nella terza stagione: più volte lui dubita della natura di lei e le chiede chi è, fino a quando non la vede in tutta la sua differenza fisica. Spoglia della pelle di plastica, Dolores mostra il suo scheletro in silicio e Caleb la accetta.
La svolta decisiva è quella di Dolores che da vendicatrice degli androidi e distruttrice di mondi decide di non sterminare l’umano, ma di eliminare la società costruita da Serac per restituire la libertà agli altri umani. “Sono capaci di bellezza” dice: per gli stessi autori, la motivazione della sua svolta è un po’ ingenua. Ciò non toglie che il suo cambio di narrativa dimostri l’apertura del Sé narrativo che qui si traduce in alleanza fra specie diverse: Caleb e Dolores riconoscono la dignità reciproca e quella delle specie a cui appartengono. Con questo viene abbattuto l’antropocentrismo e qualunque altra ideologia ponga l’essere in un’unica specie o entità. Una svolta che sembra necessaria anche per noi, alla luce delle atrocità commesse in nome dell’uomo bianco occidentale moderno di successo.

[1] Julian Jaynes (1920-1997) è stato uno psicologo statunitense, noto soprattutto per il suo libro Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza (Adelphi, Milano, 2002) in cui sosteneva l’idea che i popoli antichi fossero privi di coscienza, agendo come automi.
Secondo la teoria della mente bicamerale, l’emisfero destro ordinava all’emisfero sinistro cosa fare. Gli impulsi elettrici dell’emisfero “comandante” venivano percepiti dall’individuo come delle voci divine provenienti dall’esterno. Grazie a vari fattori, primi tra cui il linguaggio e la narrazione, la struttura cerebrale e mentale dei popoli antichi si è via via modificata fino ad arrivare all’emergere della coscienza.
Il cervello degli androidi di Westworld si basa su questa tesi di Jaynes e lo si vede molto bene soprattutto nella prima stagione.
[2] Daniel Dennett (1942) è uno dei più importanti filosofi contemporanei. È un filosofo della mente: i suoi principali oggetti di studio sono la scienza, la mente, la coscienza e il problema mente/corpo. Profondo sostenitore del materialismo e acerrimo nemico del dualismo cartesiano, si è occupato anche di evoluzionismo.
Fra le sue opere principali ci sono L’Io della mente (coautore: Douglas Hofstadter, Adelphi, Milano, 1992), L’idea pericolosa di Darwin (Bollati Boringhieri, Torino, 2004), Sweet dreams. Illusioni filosofiche sulla coscienza (Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006) e Coscienza. Che cosa è (Editori Laterza, Roma-Bari, 2009).
[3] Leonardo Caffo (1988) è un filosofo italiano noto per le sue teorie sull’animalismo, l’antispecismo (“debole” nella sua versione) e sul postumano contemporaneo. Ritiene che l’antropocentrismo che ha caratterizzato la cultura moderna occidentale condurrà a breve la società a una catastrofe ecologica e sociale. L’unica possibilità di salvezza è una netta trasformazione culturale: il postumano contemporaneo abbandonerà i vecchi miti dell’Occidente e si aprirà all’altro, instaurando una relazione umile e rispettosa con l’animale e la natura.
Scrive di cultura su varie testate italiane (L’Espresso, il manifesto, Corriere della Sera). Fra le sue opere principali ci sono Il maiale non fa la rivoluzione (Edizioni Sonda, Casale Monferrato, 2013), Fragile Umanità. Il postumano contemporaneo (Einaudi, Torino, 2017), Costruire futuri. Migrazioni, città, immaginazioni (coautrice Azzurra Muzzonigro; Bompiani, Milano, 2018) e Dopo il COVID 19. Punti per una discussione (Nottetempo, Milano, 2020).
[4] Solitamente il film Blade Runner (1982) di Ridley Scott viene citato come un’opera autenticamente dickiana. In realtà, il regista è fedele all’ambientazione e ai temi dell’opera Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (1968) di Philip K. Dick a cui si ispira, ma ne tradisce la filosofia. Dal libro, infatti, si evince che Dick non credeva affatto che gli androidi potessero avere una qualche “umanità”, anzi si contraddistinguevano per la loro mancanza di empatia e crudeltà, oltre a causare una degenerante corruzione morale della società.
Libro da leggere: c’è una scena in cui non si può che togliersi il cappello difronte alla grande capacità di scrittura di Dick, che sicuramente trascende l’angolino in cui di solito vengono sviliti gli scrittori di genere.
[5] Jonathan Gottschall (1972) è uno studioso statunitense di letteratura. Il suo principale oggetto di ricerca è il ruolo della narrazione e della letteratura all’interno della nostra evoluzione.
[6] Aristotele, Poetica, Rizzoli, Milano, 2017, p. 125.
[7] D. Dennet, Coscienza. Che cosa è, Editori Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 464.
[8] Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716) è stato uno dei più importanti filosofi, matematici e scienziati dell’Età moderna. Precursore dell’informatica, è tuttora in lotta con Isaac Newton circa la paternità del calcolo infinitesimale.
Suo il grande sogno, poi ereditato dai logici dell’800 e ripreso appunto in Westworld, di un perfetto sistema logico in grado di formalizzare simbolicamente tutti gli stati di cose del mondo, così da poterne prevedere gli esiti.
“Secondo ciò quando sorga una controversia, non ci sarà più necessità di discussione tra due filosofi di quella che c’è tra due calcolatori. Sarà sufficiente prendere una penna, sedersi al tavolo e dirsi l’un l’altro: calcoliamo (calculemus)!”, (Leibiniz, Dissertatio de arte combinatoria, 1666).