Three Faces

La terza faccia della medaglia

Wanderlust, un racconto di M. Mei || Street Stories


Wanderlust

di Mattia Mei

Fotografia di Marco Castelli

Mentre tutti dormivano, tagliò i suoi capelli, la sua barba e i baffi, e lasciò tutto lì per terra.
Mise nel marsupio il portafoglio e lo farcì con qualche centinaia d’euro, giusto per non essere fermato e rimpatriato al primo controllo. Scrisse una lettera nella quale si scusava e dove salutava tutti dicendo che doveva tagliare di netto i legami per andarsi a perdere nel mondo, a trovarsi.
Non la rilesse nemmeno, sarebbe stato come voltarsi indietro per venire poi pietrificato da Medusa.
Così uscì, facendo attenzione a chiudere piano il portone per evitare di svegliare qualcuno.
“Cazzo il passaporto”
Rientrò in casa per prendere quel libretto fondamentale per chiunque avesse l’intenzione di partire verso Itaca.
Lo cercò un po’ e infine lo trovò dentro a un cassetto, dimenticato tra vecchie liste di cose da fare e altre inutili cianfrusaglie.
Allora si fermò un attimo, si guardò intorno per quella stanza pregna di ricordi tanti quanti granelli di polvere vi erano sugli scaffali più in alto.
Venne immediatamente assalito dai ripensamenti ma questa volta li fermò in tempo respirando profondamente.
Lasciò di nuovo alle sue spalle il portone, stavolta fregandosene del rumore, come se fosse uguale se qualcuno a questo punto si sarebbe svegliato o meno.
Ormai era deciso.
Era il sogno di una vita per Carlos, era convinto che il Paradiso fosse una condizione terrena e che lo avrebbe trovato solo lontano da quell’Inferno.
Il suo partire era un po’ come andare alla ricerca del miracoloso. Sapeva bene che erano stronzate e che tutto infine è dentro ognuno di noi e che “non troverai laggiù quello che non troverai qui” ma il discorso per lui era un po’ più sottile e questo era il suo modo per ribellarsi, per rompere le catene ed evadere, per andarsi a prendere quello che voleva. La libertà.

Le aveva provate tutte, la fusione sessuale con una donna tra i rami di un albero cresciuto tra i palazzi di una grande città, le delusioni d’amore dopo un decollo straordinario, per arrivare all’esperienza della tragedia, struggendosi in pensieri di un futuro tendente al suicidio, architettò poi delle Opere d’amore, che niente erano se non il risultato di tanti piccoli fenomeni, all’apparenza slegati fra di loro, ma che avevano, come nella grande teoria della ragnatela, la peculiarità di tessere i fili verso un unica direzione, quella verso il centro, dove queste si completavano.
Fece immersione nell’Undergound per poi concepire il concetto di un Overground, bevve fino allo svenire, fino a togliere il coperchio al pentolone dove bollivano i suoi demoni e superò i suoi limiti tramite la droga, accompagnata all’assoluta mancanza della cura di sé.
Voltò pagina con la meditazione, scoprì in parte il risveglio della Kundalini usando strumenti come lo Yoga , la capanna sudatoria e le varie ruote di medicina, partecipò a delle costellazioni familiari per capire da dove proveniva e per sapere dove doveva andare.
Provò a seguire i cicli lunari e poi si avvicinò allo studio dell’Alta Magia, cercò di avvicinarsi all’Alchimia con le dieci leggi scritte nella “Tavola di Smeraldo”, e al suo processo di trasformazione “Solve et Coagula” tramite il quale disciolse su di un piano immaginario tutti i lati del suo carattere, per coagulare in seguito, al modo delle polveri metalliche in un alambicco sopra una fiamma, solo le parti migliori.
Si appassionò in modo delicato allo studio della Bibbia, leggendola come si fa con una grande allegoria dove riuscì, tramite le immagini visionarie, a intravedere l’insegnamento di Gesù.
Portò a un livello superiore la qualità del suo essere con l’Ayurveda, seguendo i consigli che più si addicevano ai Dosha di cui era fatto, masticando lentamente, rispettando certi orari vitali e privilegiando degli alimenti piuttosto che altri.
Da tutto questo ne trasse un’infinita forza vitale.
Aveva provato la vita di piazza e la vita di campagna. Modellò teorie filosofiche, abbracciò Nietzsche, si schierò tra i suoi adorati nemici adoratori e ammirò il modello olografico di Bohm. Metteva da parte i cappelli che trovava, come se delle idee che vi si trovavano dentro, avessero bisogno di protezione e dormì nel bosco accanto al fuoco.
Giunse infine alla frivolezza del gioco, associando a delle persone una carta che rispecchiasse un certo significato, trovando, in certi caratteri di alcune ragazze, le regine, per poi evolvere il gioco nell’attribuire i quattro elementi ad altrettanti tipi di ragazza.
Provò a essere onesto e poi provò a rubare, provò a essere sincero e poi bugiardo, coraggioso e poi codardo, si armò per diventare un guerriero e poi un guerriero della luce, ma niente
.
Tutto questo non bastò a Carlos per placare la sua irrequietezza e la sua sete di curiosità.
Non voleva provare nuove esperienze, cioè sì, lo voleva, ma non era questo il motivo della sua partenza. Era intenzionato a vivere la vita fino in fondo senza dover più cercare niente da nessuna parte. Non partiva per trovare un posto caldo dove mangiare aragoste a basso prezzo e nemmeno per la donna della sua vita in un posto esotico. Era spinto da un irrefrenabile impulso, da un desiderio di scalare certe vette, per arrivare là, dove l’aria non si conosce ed ha il profumo della libertà. Così chiuse l’uscio di casa mentre se ne andava sotto la pioggia.

Non ho mai saputo dove diavolo finì Carlos, non ne ebbi più notizie, io quella notte dormivo, o meglio, facevo finta, e ho continuato a farlo per paura di fermarlo. So che voleva fare il cammino di Santiago per poi scendere giù al sud del Portogallo, attraversare il Marocco per arrivare alle Canarie e prendere un qualsiasi passaggio in barca che lo portasse ai Caraibi e da lì intraprendere il giro del Sud America, il suo viaggio intorno a quello che stava diventando per lui un mappamondo.
Non so, potrebbe essere finito a fare il pedrero in Messico o in Costa Rica come invece aver deviato per l’Africa e non esservi arrivato mai.
Io sono suo fratello e in fondo sto bene, ho una donna che amo, mi prendo cura di lei e lei di me, sono il bastone di nostra nonna che è invecchiata e ogni tanto, al suo indirizzo, mando una cartolina firmata a nome suo, aiuto nostra madre e mi procuro la vita con un cane da tartufo e un lavoro che mi permette di stare in mezzo a oggetti antichi che mi parlano di viaggi e di storie.
Non sogno grandi cose, per me il Paradiso è qui e ora.
Spero che Carlos abbia trovato il suo Paradiso, che sia ai bordi di una spiaggia tropicale o dentro una nave da crociera o che so.
D’altro canto, nelle sere di pioggia, non riesco più a dormire e me ne sto lì, con un occhio chiuso e uno aperto, e anche se lei è accanto a me che dorme, io sono lì che invece faccio finta, guardando la pioggia fuori dalla finestra, e aspetto che qualcuno bussi alla porta e torni a prendersi quei capelli e quella barba dal pavimento.

“Ti voglio bene Carlos”

Le campane suonano.

Wanderlust, un racconto di M. Mei || Street Stories

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