Three Faces

La terza faccia della medaglia

Turbocapitalismo e cinema, un articolo di S. Cegalin || THREEvial Pursuit


Turbocapitalismo e cinema

Come i film hanno raccontato la minaccia neoliberista

di Silvia Cegalin

turbocapitalismo loach
Le vittime del Turbocapitalismo in Sorry we missed you di Ken Loach

È come una scena che si ripete: stanze anguste dalla mobilia scarna, posture stanche e visi segnati dal passaggio di un tempo che è stato carente di felicità e vaga impronta di sorrisi che ora appaiono come una manifestazione di speranze mancate.

Gli occhi guardano dritti verso un futuro che nessuno dei protagonisti di questi quadri è in grado di prevedere, anche se inconsciamente ognuno sa come andrà a finire la loro storia; tentare di cambiare la propria sorte è comunque un atto dovuto: un ultimo guizzo prima dell’atto finale.

Questi scenari degradati si ripetono sebbene distanti geograficamente tra di loro, perché la causa dello svilupparsi e del diffondersi di questo malcontento sociale privo di confini è generato da una malattia che corre talmente veloce da riuscire a spingere i suoi tentacoli ovunque… sto parlando del Turbocapitalismo.

Come fa notare la parola stessa, adoperata per la prima volta dal controverso economista Edward Luttwark nel 1998 in Turbo-capitalism: Winners and Losers in the Global Economy, il turbocapitalismo è una forma accelerata del capitalismo in quanto influenzato dai progressi tecnologici e da scelte politiche ed economiche che hanno portato a una disumanizzazione, oltre che alla considerazione del lavoro come merce usa e getta.

Se già il Capitalismo (si veda il mio precedente articolo Capitalismo: il mostro che divora il tempo libero) era quindi descritto come un mostro subdolo che condiziona i ritmi e i desideri degli individui, il turbocapitalismo non fa altro che esasperare tale saturazione negli umani, i quali si trovano a essere rispettivamente protagonisti o pedine del sistema in base alla propria disponibilità economica e quindi alla loro posizione sociale.

In questo senso, una lettura interessante del turbocapitalismo è giunta dal Cinema. Se ritorniamo al quadro descritto all’inizio infatti non possiamo fare a meno di notare la sua affinità con le scene iniziali di Parasite di Bong Joon-ho e di Sorry we missed you di Ken Loach.

Entrambi i film presentano un nucleo famigliare composto da padre, madre, figlio maggiore e figlia minore, che succubi di un’esistenza segnata da scarse possibilità di crescita, sia personale che professionale, cercano con ogni mezzo di migliorare la propria condizione.

Sorry we missed you è il canto stanco, ma non per questo arreso, di una famiglia della working class inglese, la quale, afflitta da un’economia schiacciante che li porta a dover rinunciare al “sogno borghese” di avere una casa di proprietà, prova a dare una svolta alla propria situazione attraverso l’idea del marito Ricky di mettersi in proprio e fare il corriere freelance per conto di una grande azienda di consegne.

Ricky è fattorino, Abby (la moglie) è una carer1, simboli di una gig economy in cui si è spesso umiliati e sfruttati. Chi svolge questi lavori, sembra ripetere come un mantra il turbocapitalismo, può essere trattato come uno schiavo perché il fattore fondamentale è produrre, produrre e vendere ad ogni costo anche a scapito della salute fisica e psichica: il bene dell’azienda viene prima di te.

Noam Chomsky in Le dieci leggi del potere. Requiem per il sogno americano del 2008, spiega come sia proprio il Neoliberismo a provocare un divario ancora più forte tra le classi sociali, e un imbarbarimento delle condizioni e dei contratti lavorativi che hanno lo scopo di agevolare soltanto i potenti.

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Io, Daniel Blake di Ken Loach, altra vittima del Turbocapitalismo

È il mercato, prosegue Chomsky, a prevalere e comandare qualsiasi altro aspetto della vita, e l’egemonia spostandosi dai governi statalizzati alle imprese private conduce non solo a una perdita di valori e alla distruzione della solidarietà, ma allo svilupparsi di guerre commerciali che fanno, letteralmente, dimenticare l’individuo e il suo valore in quanto essere umano; si pensi a questo proposito al film sempre firmato da Loach, Io, Daniel Blake, in cui un 59enne malato e impossibilitato a lavorare si trova a ad aver bisogno dell’aiuto dello Stato.

L’uomo per ottenere i sussidi si trova coinvolto in un meccanismo a dir poco kafkiano che lo condurranno all’amara consapevolezza di quanto il sistema welfare e lo Stato siano sempre più distanti dal far vivere dignitosamente tutti i cittadini.

«Mi chiamo Daniel Blake, sono un uomo e non un cane; come tale esigo i miei diritti, esigo di essere trattato con rispetto. Io, Daniel Blake, sono un cittadino. Niente di più e niente di meno».

Se i film di Locke dipingono personaggi che non pretendono molto altro se non quelle piccole stabilità che permettono, banalmente, un tetto sopra la testa, del cibo e una buona istruzione per i figli; i desideri in Parasite cambiano prepotentemente, facendo ambire ai protagonisti una vita replicata sul modello borghese anche se i mezzi usati per arrivare a conquistare la cosiddetta posizione, rivelano l’ingegno e l’astuzia che solo le classi popolari sono in grado di mettere in atto nel momento del bisogno e della fame, e un’etica che non dimentica i propri “simili”.

Ma perché si arriva a desiderare di più di ciò che si può avere? O meglio: perché i desideri sembrano ad oggi omologati, e gli uomini e le donne adottano comportamenti mimetici verso i modelli che propone il mercato?

Riprendendo il pensiero di Heidegger, che fa da anticipatore a ciò che accadrà in modo ancora più radicale con il turbocapitalismo, ciò è spiegabile con la graduale sdivinizzazione in favore di una misticizzazione materialistica che ha invaso ogni settore.

Di conseguenza, l’essere umano si trova a fare i conti con un mercato che è stato divinizzato e che vincola i suoi desideri e le sue aspettative, mentre di pari passo si verifica una svalutazione dei valori e dell’importanza della spiritualità, perché a essere considerati onnipotenti ora sono i prodotti commerciali.

Se tale “teologia economica” diventa un’utopia frustrante per le classi lavoratrici, per la classe borghese essa si trasforma in mantra concreto e tangibile, e gli effetti di ciò sono ben riscontrabili nel film La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino.

La Roma bene
La vuota “teologia economica” borghese ne La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino.

Sullo sfondo di un’antica Roma che però ha perso tutto il fascino felliniano, il protagonista Jep, esponente della Roma bene, incarna il classico intellettuale ricco annoiato che invece di utilizzare le proprie risorse per migliorare una situazione culturale2 alla prossimità della decadenza, preferisce abbandonarsi ai rituali delle feste inutili che hanno nell’apparire e nel consumismo il fulcro della loro esistenza.

E questo scenario romano da un’autentica bellezza sfumata in qualche modo fa da eco non solo alla sdivinizzazione precedentemente citata, ma anche a una perdita di memoria storica/sociale e all’affermarsi di una prepotenza persuasiva commerciale che sono tra i principi individuabili nel turbocapitalismo.

“Disarticolare e annullare la memoria è una delle condizioni fondamentali dell’affermazione planetaria del liberismo mercantile globale”3.

Il sociologo Göran Therborn non a caso asserisce che sono gli effetti economici del liberismo a determinare il modo di vivere (e direi anche di pensare) delle persone, ma ciò che è interessante rilevare a fronte di questo è che nel cinema le classi alto borghesi sono spesso rappresentate come fallite dal punto di vista emotivo.

Si pensi ad esempio a Happy End di Michael Haneke o alla Trilogia barbarica di Denys Arcand. Entrambi i registi descrivono esistenze che seppur caratterizzate da surplus materiale rimangono intimamente insoddisfatte, infelici, tanto da assumere comportamenti apatici nei confronti della vita: in questi film la morte indotta o anticipata sembra essere l’unica via d’uscita per dimenticare scelte superficiali o sbagliate.

turbocapitalismo borghese
Turbocapitalismo “borghese” in Happy End di Michael Haneke

Se il modello turbocapitalista quindi da una parte sprona la classe popolare a lavorare fino all’esaurimento per guadagnare posizioni che nella realtà mai raggiungeranno se non attraverso violenti compromessi, dall’altra conduce la borghesia a trovare nel lavoro uno sfogo, un rifuggire da sé stessi, raggiungendo sì il successo ma a scapito della propria sensibilità.

Il trionfo del capitalismo non solo si manifesta tramite la manipolazione delle scelte individuali e uniformando gli stili di vita, ma a causa di un’economia neoliberista giunge a soddisfare soltanto la categoria dei grandi dirigenti, dei magnati e dei signori dell’alta finanza.

Letture cinematografiche come, ad esempio, The wolf of the Wall Street di Martin Scorsese, The big short di Adam Mckay o Margin call di J. C. Chandor, raccontano, sebbene con riferimenti e punti di vista diversi, gli scenari di Wall Street e i danni provocati da scelte economiche aggressive incentrate sul binomio sfruttato/sfruttatore, perché mentre il primo si impoverisce rischiando il tracollo finanziario, il secondo, a scapito del consumatore, ingrandisce il proprio impero.

Seguendo tale modello gli esseri umani rischiano di essere schiacciati dal potere sempre più crescente della merce e del denaro: “Quando il mercato è abbandonato alla sua auto-normatività, esso conosce soltanto la dignità della cosa e non della persona, non doveri di fratellanza e di pietà, non relazioni umane originarie di cui le comunità personali siano potatrici”4.

le scelte di wall street verso il turbocapitalismo
Il Turbocapitalismo che regna in The wolf of the Wall Street di Martin Scorsese

In linea con il pensiero sopracitato di Max Weber, sono anche economisti come Joseph Stiglitz e Paul Krugman (entrambi Premi Nobel per l’Economia) che ribadiscono come il neoliberismo supporti le grandi banche spostando i rischi connessi alla scelta di un mercato irrazionale non verso l’istituzione bancaria stessa, ma verso i propri clienti, facendoli precipitare rovinosamente. Non a caso la bancarotta del 2008 è stata pagata dai contribuenti e dai beneficiari, mentre alle banche sono giunte garanzie statali; inoltre questo tipo di economia ha innalzato il livello di corruzione all’interno delle organizzazioni finanziarie.

E tali dinamiche parassitarie premiano personaggi come Jonathan Butler di Scorsese, incarnazione perfetta di una frenesia consumistica assorbita da principi machiavellici in cui l’unica regola è superarsi ad ogni costo. Se da una parte questo lupo sfrenato sfrutta qualsiasi situazione creata ad hoc dal capitalismo per arricchirsi, i protagonisti di The big short invece cavalcano, prevedendola anticipatamente, l’onda di una crisi finanziaria generata dalla speculazione del settore immobiliare  e in entrambi i casi si assiste all’aumento del capitale come privilegio di pochi “eletti”.

Si deduce che chi muove le redini dell’economia ne esce vincente perché attraverso i suoi tentacoli direziona le scelte e gestisce i risparmi di chi, nella scala sociale si posiziona a un livello inferiore, godendo inoltre di privilegi e standard di vita devoti a un uso sfrenato delle proprie disponibilità che, di conseguenza, fanno aumentare la sensazione di non avere mai abbastanza e bisogni (illusori) che non vengono mai soddisfatti abbastanza.

D’altra parte i film analizzati svelano un malessere e un’insoddisfazione che partendo dalla classe  operaia si espande fino alla borghesia, raggiungendo anche chi, teoricamente, vive una condizione adagiata dal punto di vista materiale.

La perdita di valore economico pare quindi essere associata a una crisi dei valori sociali e morali, perché l’essere umano viene considerato in base a quanto può spendere e produrre, riducendo le sue qualità e capacità a semplici accessori.

Gli occhi guardano dritti verso un futuro che nessuno dei protagonisti di questi quadri è in grado di prevedere, anche se inconsciamente ognuno sa come andrà a finire la loro storia; tentare di cambiare la propria sorte è comunque un atto dovuto: un ultimo guizzo prima dell’atto finale.

Note

1. Per carer si intendono assistenti di anziani o disabili mentali e fisici che agiscono o in strutture private (come case di cura od ospedali) o direttamente nelle abitazioni dei pazienti. È un lavoro pagato dignitosamente ma che obbliga le lavoratrici a turni esasperanti e incerti, e a viaggi autofinanziati tra un cliente e un altro. Sono molto affezionata a questa figura in quanto ho svolto questo lavoro per un anno a Londra, e Locke lo illustra in modo onesto e veritiero: perché nonostante le fatiche, spesso con i propri pazienti si instauravano legami di affetto e amicizia che mi portava (proprio come Abby) a dedicarmi a loro oltre il tempo stabilito dalle agenzie, perché come ripetevo spesso “non sto lavorando con dei vestiti ma con delle persone”.

2. Un capitalismo che non ha soltanto inglobato le aree produttive, ma anche i campi artistici e il settore della cultura. In merito si pensi al film del 2017 The Square a firma di Ruben Östlund, ma per sviluppare questo tema dovrete aspettare il mio prossimo articolo.

3. E. Mazzi, La memoria, unico antidoto al liberismo selvaggio (1997 agosto 15), L’Unità. Anno LXXIV, n. 193.

4. M. Weber, Economia e società, vol. II, Edizioni di Comunità, Milano 1980, cit. p. 314

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