Three Faces presenta THREEvial pursuit: una serie di articoli tra il serio e il faceto sulle tematiche più disparate! I pracinhas e le guerre degli altri, un estratto da “Camminare l’antifascismo” di Lorenzo Guadagnucci || THREEvial Pursuit18 Maggio 2022I pracinhas e le guerre degli altri un estratto da “Camminare l’antifascismo” di Lorenzo Guadagnucci Quello odierno è un THREEvial particolare. Abbiamo infatti sfruttato la presentazione dell’ultimo libro di Lorenzo Guadagnucci “Camminare l’antifascismo. La memoria come ribellione all’ordine delle cose” (Edizioni Gruppo Abele, 2022) che si svolgerà questa sera (18 maggio 2022, ndr) al C4 – Centro di Contaminazione Creativa e Culturale, per offrirvi uno spunto di riflessione su un’attualità che ogni prende deformazioni grottesche. Un libro intenso, pieno di appigli su cui soffermarsi a meditare, ma c’è un passaggio che più di ogni altro ci ha colpiti, forse perché prende le mosse da una vicenda riguardo la quale onestamente non sappiamo quanti di voi abbiano contezza: quella dei “pracinhas” brasiliani, ovvero gli appartenenti alla FEB (Força Expedicionária Brasileira) che tra il 1944 e il 1945 combatté al fianco degli Alleati in Italia, prima nella valle del Serchio e successivamente sull’Appennino tosco-emiliano. Li chiamavano così, “soldatini”, perché erano piccoli di statura e per la gran parte erano ventenni, mandati a combattere una guerra non loro per il classico sistema di alleanze da Getúlio Vargas, il padre padrone dei brasiliani dagli anni ’30 che, nonostante la forte fascinazione dei fascismi europei – che infatti sfociò presto in emulazione – trovò più conveniente allearsi con Stati Uniti, Impero britannico e compagnia cantante che con l’asse Roma-Berlino. Scelta azzeccata, tanto mica era lui che doveva andare a combattere, manco servivano i generali che lo destituiranno a guerra finita (salvo poi essere nuovamente destituiti proprio da Getúlio nel 1950). Bastavano una manciata di ufficiali e un paio di decine di migliaia di pracinhas, dei quali appena un terzo erano soldati scelti: il resto ragazzi, ventenni comuni. Ne lasciarono sul campo più di quattrocento tra Monte Castello e monte Belvedere, dove oggi sorge il monumento a loro dedicato. E viene da chiedersi ‘perché’, esattamente come se lo chiede Lorenzo Guadagnucci, nel capitolo “Camminare è un atto politico”: una riflessione sull’inutilità della guerra, sulla sua tronfia retorica che ne esalta la traccia eroistica al posto di quella ignominiosa che lascia sul campo dei ventenni brasiliani, costretti da qualcuno a combattere la guerra di altri. Una tematica dannatamente attuale, su cui non vi chiediamo di schierarvi, di essere d’accordo o meno con quanto scritto da, con quanto scritto da Lorenzo Guadagnucci. Vi chiediamo solo di rifletterci un po’ su. Monumento ai pracinhas caduti nella piana di Guanella a Gaggio Montano (Modena) Da “Camminare è un atto politico” in Camminare l’antifascismo di Lorenzo Guadagnucci (pp. 79-84) Pensare alleggerisce il cammino e così il tempo vola, finché, all’uscita dal bosco, sulla sommità dei colli, quando cominciamo a fiancheggiare ampi campi coltivati, ci troviamo ai margini di una spianata e poco lontano vediamo spuntare qualcosa di monumentale. Sono due grandi losanghe bianche che si incrociano, sembrano una appoggiata sull’altra, ma orientate in direzioni opposte: una verso il basso, a formare un ampio arco molto snello, l’altra rivolta al cielo. Cominciamo ad avvicinarci, intanto Tiziano si prende la briga di spiegarci di che si tratta. «È un monumento ai soldati brasiliani che combatterono da queste parti», dice. Giovanni e Marcello forse strabuzzano gli occhi, visto che Tiziano si rivolge direttamente a loro: «Sì, brasiliani. Vi sorprende? Spesso lo dimentichiamo, ma la Seconda guerra è stata davvero mondiale. E arrivò in Italia anche un corpo di spedizione brasiliano, chiamato FEB, in italiano Forza di spedizione brasiliana. Ci furono anche neozelandesi, se è per questo, oltre che i soldati asiatici e africani delle colonie di Francia e Gran Bretagna e altri ancora. I brasiliani, qui, se li ricordano tutti molto bene. C’è ancora tanto affetto per loro, perché combatterono a lungo e furono battaglie sanguinose». Tocca a Nicola, come al solito, spiegare perché un monumento in ricordo è stato collocato proprio qui, nella piana della Guanella, a poca distanza da Gaggio Montano: «In questa zona si combatté una battaglia molto cruenta per la conquista di Monte Castello, posizione strategica occupata dai tedeschi. La linea difensiva andava fino a Monte Belvedere e più in là verso la montagna pistoiese. Monte Castello, che vedete davanti, era una postazione ben protetta dall’artiglieria e circondata da campi minati. Gli Alleati avevano ormai liberato la Toscana e avanzavano verso la pianura padana: arrivati lì sarebbe cominciata la rotta dei tedeschi. I brasiliani portarono due attacchi a Monte Castello, uno a fine novembre, l’altro verso metà dicembre del ’44. Specialmente il secondo fu una specie d’inferno, con i tedeschi che si difendevano dall’alto coi mortai e le mitragliatrici automatiche e i brasiliani che cercavano di avanzare sotto la pioggia, in una specie di acquitrino, proprio in questo pianoro». Nicola indica il monte poco lontano: oggi è interamente coperto dalla boscaglia, allora molto meno. «La gente di qui raccontò di decine, centinaia di corpi rimasti a terra e dei gemiti e delle invocazioni d’aiuto che si sentirono per ore, se non per giorni. Perciò tutti ricordano con affetto e una punta di mestizia i pracinhas, come si chiamavano i soldatini andati all’assalto. Ne morirono più di quattrocento. Alla fine, per conquistare la postazione tedesca, fu necessario aspettare il febbraio ‘45, un nuovo grande attacco, condotto stavolta con l’appoggio della 10.a divisione di montagna degli statunitensi. Stavolta i brasiliani riuscirono a sfondare, grazie soprattutto al lavoro dell’artiglieria, e i tedeschi furono costretti ad abbandonare Monte Castello. Fu conquistato anche Monte Belvedere. A quel punto per i tedeschi la capitolazione definitiva era ormai vicina». Alla base del monumento, concepito da una donna, l’architetta Mary Vieira, non ci sono iscrizioni retoriche, ma sembra che in Brasile vadano orgogliosi delle imprese compiute dalla FEB e divisioni impegnate a Monte Castello, la «cima imprendibile», così l’hanno definita, una battaglia che occupa un posto significativo nella storia militare brasiliana. In realtà la conquista di Monte Castello fu una carneficina, con migliaia giovani vite perdute. Copertina di Camminare l’antifascismo (Edizioni Gruppo Abele) di Lorenzo Guadagnucci La memoria ha una sua retorica e la simpatia umana per quei soldati morti quassù è comprensibile, ma è difficile sfuggire a un pensiero che detto ad alta voce potrebbe risultare sgradito o essere giudicato offensivo. È un pensiero semplice, addirittura banale, ma come si fa a non domandarsi per quale follia, quale cortocircuito della storia dei ragazzi del Mato Grosso o del Rio Ta del Sud siano venuti a combattere e morire a Gaggio Montano sull’Appennino bolognese, in una parte di mondo di cui probabilmente ignoravano perfino l’esistenza. Si dirà: era una guerra mondiale e si trattava di sconfiggere una minaccia incombente, il nazifascismo coi suoi progetti di dominio planetario, e il governo brasiliano volle fare la sua parte. I canoni della geopolitica, indubbiamente, vogliono che si ragioni così, ma se pensiamo a quei pracinhas, giovanissimi e ignari del mondo, morti nel fango in questo pianoro, più che alla geopolitica pensi alla tronfia retorica del potere, che in Europa, in America, nel mondo non ha mai smesso di considerare la guerra uno strumento essenziale della politica, una parte imprescindibile della vita. A guardare questo monumento si può pensare, come l’architettura suggerisce, al gesto di generosità compiuto dal Brasile e all’eroismo dei suoi soldati, ma è anche possibile farsi prendere da una sensazione di straniamento. Nel ‘44 non era ancora tempo di globalizzazione e gran parte degli italiani non aveva mai visto uno straniero, e tanto meno un uomo di pelle scura. All’improvviso spuntarono intere divisioni di soldati venuti da terre lontanissime e sconosciute, e centinaia, migliaia di loro morirono qui, a vent’anni, nel fango. Morirono, si dice, per l’Italia e per l’Europa liberate dal fascismo, dal nazismo, per mettere fine alla guerra. La storia ufficiale sostiene che ne è valsa la pena e dice che il sacrificio dei soldati, anche di quelli venuti dall’altra parte del mondo, è stato giusto e meritevole. Ma se penso a quei soldatini sepolti da qualche parte qui in Italia, magari al cimitero monumentale dei militari brasiliani di Pistoia, provo un sentimento di sdegno e d’orrore. La guerra, ancora una volta, mi pare la forma più alta del fallimento umano, la condanna a morte della nostra specie. Quanta retorica ancora la circonda. Altro che celebrazioni e lodi all’eroismo in battaglia: dovremmo erigere monumenti alla vergogna, chiedere agli artisti di dare forma al malessere che prende davanti alle tombe dei soldati, alle date di nascita così ravvicinate; avremmo bisogno di opere anticelebrative in grado di esprimere il senso del fallimento e stimolare pensieri e meditazioni conseguenti. In questo luogo, ogni 21 febbraio, si celebra il ricordo dei pracinhas, alla presenza di un console o dell’ambasciatore brasiliano. Forse andrebbe aggiunto, qui come altrove, un atto, una cerimonia, un gesto che rammenti l’insensatezza della guerra, la necessità di ripudiarla e cancellarla dalla storia. Un’irrealistica utopia, si dirà, cancellare la guerra dalla storia, ma in che altro modo, se non lottando per questa utopia, possiamo davvero rendere omaggio a quei soldati e dire loro, in un dialogo coi morti, che il nostro impegno è volto a far sì che non ci siano mai più pracinhas sul suolo d’Italia e d’Europa, mai più caduti per la conquista di «cime invincibili»? Se ogni anno, fin dal ‘46, avessimo ricordato, cerimonia dopo cerimonia, che l’impegno principale, il pensiero assillante dev’essere rivolto al ripudio della guerra, forse l’estetica militarista, la geopolitica del potere per il potere, il cinismo nelle relazioni internazionali, il commercio delle armi e la minaccia nucleare non sarebbero tanto dominanti; forse avremmo un discorso pubblico più aperto e più democratico, relazioni fra Paesi più leali, alleanze fra Stati più larghe, più civili, più collaborative. Sogni? Fuga dalla realtà? E molto comodo dare oggi dell’utopista, dell’acchiappanuvole, a chi prende sul serio le promesse di pace duratura fatte nel ‘45 alla fine della guerra e gli stessi obiettivi che si posero i partigiani: prendere le armi, combattere l’esercito occupante e porre fine alla guerra, a quella guerra, certamente, ma anche ai futuri conflitti. Imbracciare i fucili per non doverne fare più uso. Tali impegni furono scritti solennemente in alcuni documenti fondamentali, concepiti come base teorica del nuovo corso dell’umanità dopo le atrocità della prima metà del Novecento. Nell’articolo 11 della Costituzione, con il quale l’Italia «ripudia la guerra come strumento per la soluzione delle controversie internazionali». Nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del ‘49, nella Carta fondativa delle Nazioni Unite. Erano impegni grandiosi, un progetto nuovo, degno dell’enormità dei fatti accaduti, coi milioni di morti seminati nel mondo e la distruzione del senso stesso di umana dignità. Oggi sappiamo che tali impegni sono stati in larga parte traditi. Guerre e genocidi hanno costellato anche la seconda metà del Novecento e l’inizio del terzo millennio; la stessa Dichiarazione dei diritti dell’uomo e le promesse di pace contenute nelle Costituzioni sono state aggirate, smentite, vilipese. Dirsi pacifisti, oggi, espone alla derisione al cospetto del (presunto) realismo che domina il mondo, un realismo cinico che si è fatto senso comune. Il cinismo dei potenti che si somma al cinismo degli umili, come osservava Leopardi. La guerra è fra noi e dentro di noi, è vissuta come una fatalità inevitabile, sempre nella speranza, nella nostra parte di mondo, che riguardi gli altri, che non arrivi a toccarci da vicino. Monumento ai pracinhas di Rio de Janeiro La verità è che abbiamo un disperato bisogno di osare pensieri nuovi. Se siamo davvero affacciati sull’abisso universale dell’estinzione di specie, se l’Orologio dell’Apocalisse degli scienziati nucleari è vicino come non mai alla mezzanotte fatale, dovremmo saper ascoltare, specie in questi luoghi segnati dall’orrore ma anche da un impeto di ribellione mai visto prima nella storia, chi non demorde e non si rassegna, ad esempio chi scrive, ancora nel 2017, un Appello a resistere (katécon). Per un mondo non genocida Patria di tutti Patria dei poveri. È un appello nato nel mondo cattolico, durante un’assemblea della rete «Chiesa di tutti Chiesa dei poveri». È un bel testo: semplice, diretto, sincero. Lo hanno firmato anche quattro Premi Nobel per la pace, quattro persone che non hanno inteso questo riconoscimento come un omaggio all’ipocrisia del mondo: sono l’argentino Adolfo Pérez Esquivel, l’iraniana Shirin Ebadi, la statunitense Jody Williams, la nordirlandese Mairead Corrigan-Maguire. Katécon è la parola biblica che indica la resistenza alle forze della distruzione; il documento cita subito il cambio di passo seguito alla Seconda guerra mondiale, quando «i popoli giudicarono la civiltà che li aveva portati a quella crisi, e si resero conto di come essa fosse avanzata nel tempo rendendosi più volte colpevole di razzismi, aggressioni e genocidi. (…) Pertanto decisero di passare a una civiltà di popoli eguali senza più genocidio». Nella parte centrale del documento c’è un passaggio che parla di noi, persone di buona volontà in cerca di una memoria storica all’altezza dei tempi, decise a non seguire passivamente il corso dissennato degli eventi. «Oggi però si ragiona, si decide e si governa – si legge – se quella scelta non ci fosse stata. Giocare a minacciarsi l’atomica (…) significa infatti ammettere come ipotesi il genocidio di uno o più popoli o di tutti i popoli; pretendere di rovesciare regimi sgraditi votando alla distruzione i relativi popoli “danno collaterale”, è già genocidio; mettere in mano a pugno di persone la maggior parte delle ricchezze di tutto mondo vuol dire attivare “un’economia che uccide”, cioè genocida, poiché mettendole fuori mercato attenta alla vita di popolazioni intere; continuare a incendiare il clima e a devastare significa ecocidio, cioè scambiare il lucro di oggi con il genocidio di domani; intercettare il popolo dei migranti e dei profughi, fermarlo coi muri e coi cani, respingerlo con navi e uomini armati, discriminarlo secondo che fugga dalla guerra o dalla fame, e toglierlo dalla vista così che non esista per gli altri, significa fondare il futuro della civiltà sulla cancellazione dell’altro, che è lo scopo del genocidio». Sono parole sulle quali dovremmo meditare a testa china davanti ai monumenti ai caduti – militari e civili – della Seconda guerra mondiale, ad esempio proprio qui a Monte Castello.... Read more...Follia di Patrick McGrath, un articolo di M. Caudullo || THREEvial Pursuit4 Maggio 2022Follia by Patrick McGrath di M. Caudullo – ATTENZIONE: POSSIBILI SPOILER! – Follìa s. f. . – 1. a. Genericam., stato di alienazione, di grave malattia mentale (sinon. quindi di pazzia): essere colto da f. improvvisa; essere sull’orlo della follia. A cosa pensi quando si parla di follia? Ma soprattutto, chi può stabilire cosa e chi sia folle? Personalmente è stato il romanzo psicologico di Patrick McGrath, intitolato Follia e pubblicato nel 1996, a rendermi il concetto più chiaro e familiare. Solo dopo aver letto questo libro mi sono resa conto di quanto spesso questa parola venga sottovalutata e utilizzata, forse, con troppa leggerezza. McGrath invece mi ha insegnato a darle un significato diverso, più profondo. Ci troviamo in Inghilterra, nel 1959, in un tetro manicomio criminale vittoriano e lo psichiatra Peter Cleave inizia a narrare la passione letale fra Stella Raphael, moglie del vicedirettore dell’ospedale (Max), e Edgar Stark, un artista detenuto per un uxoricidio particolarmente efferato. «Le storie d’amore catastrofiche contraddistinte da ossessione sessuale sono un mio interesse professionale ormai da molti anni. Si tratta di relazioni la cui durata e la cui intensità differiscono sensibilmente, ma che tendono ad attraversare fasi molto simili: riconoscimento, identificazione, organizzazione, struttura, complicazione, e così via». (p.9) Sono queste le parole con le quali Peter apre il racconto della storia d’amore che coinvolge il suo paziente (Edgar) e l’amica della quale è segretamente innamorato (Stella). Si tratta di una storia tormentosa, che viene narrata nei minimi dettagli: caos, disordine e confusione prendono il sopravvento. La vicenda, infatti, rimarrà incomprensibile per la prima parte del romanzo facendosi sempre più limpida e chiara con l’avanzare delle pagine. L’incontro e la nascita della passione tra Stella e Edgar avviene principalmente per la monotonia e l’insoddisfazione della vita familiare da parte di lei: troppe mancanze di attenzioni da parte del marito, che antepone il suo lavoro a lei. In opposizione alla figura di Max, c’è invece Edgar: uomo dal temperamento passionale, proprio come Stella, e dotato di un’intensa creatività. Egli infatti si dimostrerà affascinante, manipolatore e, senza troppi sforzi, riuscirà a entrare nella vita della donna abbattendo ogni suo limite fisico e mentale. Dopo la descrizione del loro primo incontro passionale, avvenuto durante la serata del ballo dell’ospedale, il resto del romanzo vedrà l’evolversi della loro relazione, la sua interruzione, le difficoltà psicologiche di Stella, per giungere poi al tragico finale. Sarà proprio questo a lasciare il lettore in un vortice di degradazione e di tristezza. Infatti, terminato il libro, viene spontaneo domandarsi se si possa davvero parlare di “amore” e non solo di ossessione portata all’estremo. Inoltre c’è da chiedersi a chi appartenga davvero la Follia di cui si parla. Ai due protagonisti? O addirittura al narratore che racconta la loro storia? In ogni caso, le chiavi di lettura del romanzo sono molteplici: McGrath utilizza uno stile di scrittura coinvolgente, che dà libero spazio alle interpretazioni e riesce a coinvolgere il lettore in ogni sua pagina. Ma se le tematiche dell’amore e dell’ossessione sessuale sono evidenti e palesi nell’evolversi dell’intero romanzo, ce n’è un’altra altrettanto centrale ma forse meno percepibile: quella della libertà. «Le donne romantiche, riflettei. Non pensano mai al male che fanno in quella loro forsennata ricerca di esperienze forti. In quella loro infatuazione per la libertà». (p.70) Si può notare come la protagonista, ormai contrariata dalla sua vita piena di convenzioni e passi misurati, scelga senza troppi ripensamenti l’indipendenza, abbandonando la sua tranquilla e rispettosa vita familiare per scappare con Edgar. La sua è una voglia irrefrenabile di sentirsi libera, viva, di voler essere travolta da forti sentimenti e sensazioni, che vanno al di fuori della routine quotidiana socialmente accettata e della parvenza. Sarà proprio questo forte desiderio, infatti, che porterà la donna a perdere ogni cognizione del pericolo. Da questa premessa deriveranno tutte le emozioni che spingeranno Stella alla pazzia, al suo amore impossibile fino alla propria auto-distruzione, perché in fondo quello proiettato su Edgar è un amore malsano, che potrebbe però essere interpretato come semplice voglia di libertà. Inoltre, ponendo la lettura del romanzo in questa chiave, si può notare la singolarità del titolo originale, Asylum, che trasposto nell’italiano Follia perde un po’ la sua accezione. Difatti, in inglese il termine contiene il triplice significato di asilo, rifugio e manicomio. È dunque presente la duplice visione della prigione vista sia come una privazione della libertà, ma allo stesso tempo come un rifugio, un luogo di protezione che le mostruosità della vita non possono attraversare. Un altro tema affrontato da Patrick McGrath con incondizionata originalità è quello della maternità: Stella, infatti, è la madre di Charlie, unico figlio nato dal suo matrimonio con Max. Tenendo conto della psiche della protagonista viene spontaneo domandarsi il ruolo del bambino all’interno della vicenda e, soprattutto, di come questo sia mutato con la sfrenata e incessante ricerca di libertà da parte di Stella. McGrath riuscirà, anche in questo caso, a mettere alla prova la sensibilità del lettore, mostrando una madre tralignata, incapace di accorgersi e porre rimedio alla sua relazione con il figlio. Il culmine della vicenda verrà raggiunto quando la protagonista si dimostrerà assente da ogni senso di colpa riguardo l’abbandono e, soprattutto, il successivo omicidio del bambino. E anche in questo caso ci troviamo di fronte a una donna afflitta, schiacciata dalla vita familiare, dalle accuse del marito e dai doveri imposti. Ancora una volta Stella viene descritta immersa in un caos di emozioni, che troveranno conforto nella figura di Edgar: non più soltanto il suo amore, ma l’unica affezione rimasta. Di libri che trattano il tema della follia ce ne sono stati molti nei secoli: da Medea a Fedra, da Don Chisciotte a Doctor Faustus. A mio parere, Patrick McGrath ha dimostrato di saper affrontare quest’argomento senza difficoltà, riuscendo a farsi apprezzare anche da chi non è vicino alle tematiche psicopatologiche. Non a caso, il successo scaturito dal suo romanzo è stato esorbitante e porterà addirittura all’uscita dell’omonimo film, nel 2005. Le emozioni che le pagine di questo libro mi hanno trasmesso sono infinite, lasciandomi senza parole dopo aver letto il finale. Spesso, mentre sfogliavo il testo, mi domandavo se non siamo tutti a modo nostro un po’ folli. Ma alla fine mi sono chiesta: cosa si intende per normalità? «Di solito vogliono che tu tenga la bocca chiusa, a volte pretendono che gridi, e si aspettano che tu sappia la differenza. Era questo che trovavo buffo». (p.236)... Read more...Usa: tra razzismo e suprematismo bianco, un articolo di A. Polverosi || THREEvial Pursuit20 Aprile 2022Usa: tra razzismo e suprematismo bianco di Andrea Polverosi Get out di Jordan Peele, 2017 Care lettrici e lettori, prima di lasciarvi alle parole del nostro Andrea Polverosi è necessaria una breve quanto doverosa premessa. L’articolo che andrete a leggere, infatti, è la versione estesa dell’estratto apparso nel THREEvial Pursuit del 27 gennaio 2021, ‘Memoria tesa al presente’, e redatto dal medesimo autore in occasione del Giorno della Memoria con l’intento di tracciare una linea di congiunzione tra passato e presente, tra il razzismo di ieri e quello odierno, sia nel mondo occidentale che in quello orientale, fornendo al contempo degli specifici strumenti d’approfondimento per ogni tema trattato: dalla mirata disumanizzazione delle donne nei lager nazisti alle responsabilità dell’Europa e dell’Italia riguardo l’altrettanto disumana condizione dei migranti nei lager libici; dalla persecuzione degli uiguri in Cina al ritorno del suprematismo bianco in Occidente e, in particolare, negli Stati Uniti d’America. Ed è proprio su quest’ultimo argomento si concentra la più dettagliata analisi del nostro Andrea. Il punto è: perché riproporvelo adesso e non, per esempio, in occasione dello scorso o del venturo Giorno della Memoria? Saremo del tutto onesti. Semplicemente, ce l’eravamo perso nei meandri delle nostre mail/cloud tra centinaia di altri fogli informatici. Finché è saltato fuori quasi per caso e, come spesso accade, nel momento probabilmente più opportuno. I motivi sono semplici. Innanzitutto perché, in un sistema mediatico totalmente invaso dalle questioni belliche ucraino-russe, il rischio è sempre quello di dimenticare gli altri mali di cui soffre la nostra società, errore che abbiamo già compiuto nel pieno pandemia (sì, vi ricordate? Quella per cui siamo stati chiusi in casa mesi e mesi, negli ultimi due anni). In secundis, perché il razzismo è ben presente anche in questa guerra e basti pensare, tanto per fare un esempio, alla disparità di trattamento riservati ai profughi provenienti dall’Ucraina in base al colore della propria pelle. Infine, perché questo articolo richiama l’attenzione non solo sul razzismo, ma anche e soprattutto sulle dinamiche legate all’estrema destra americana, così simili a quelle che ben conosciamo di qua dall’Atlantico: argomento che meriterebbe di essere approfondito, visti i palesi legami tra l’estrema destra occidentale e la politica putiniana, e senza dimenticare il ruolo che in questa guerra sta comunque avendo l’estrema destra ucraina: oggi alleata, in ogni sfumatura possibile del termine; domani chissà. E poi, prima di chiudere, non si può non ricordare come il razzismo stesso sia il detonatore di gran parte dei conflitti e uno dei principali pilastri su cui si basa qualsiasi autoritarismo che si rispetti: ancor più importante parlare quindi di anti razzismo, oggi, nella settimana che ci conduce al 25 Aprile. Buona lettura! La redazione Manifesto razzista americano della seconda metà dell’Ottocento Oggi, in Occidente, anche grazie alle molte commemorazioni, conosciamo e ricordiamo ciò che avvenne nei campi di concentramento nazisti, ovvero l’omicidio di persone considerate inferiori e lo sterminio degli ebrei. Si ha però a volte la sensazione che quegli avvenimenti ci riguardino meno, che siano ormai fatti del passato, che abbiamo imparato la lezioncina e che sia impossibile che riaccadano. Tutt’al più se succede qualcosa di simile, non è da noi, non nella nostra presunta civiltà ma in qualche povero paese sparso nel mondo. La verità è un’altra. La verità è che in Occidente il razzismo è dilagante, sotto tanti punti di vista. Basta pensare ai lavoratori agricoli immigrati sfruttati, sottopagati e vittime del caporalato. Se fossero italiani, se fossero bianchi, probabilmente le cose andrebbero in modo diverso. Se guardiamo inoltre al recente, già il 2020 aveva portato alla luce tutto ciò: la morte di George Floyd e di tanti altri afroamericani uccisi come lui dalle forze dell’ordine testimoniano ancora oggi un odio razziale pressoché sistematico. Le rivolte di Black Lives Matter hanno risvegliato le nostre coscienze, ma è evidente che il problema non sia stato risolto. Poi, è arrivato il 6 gennaio 2021, giorno in cui centinaia di militanti di estrema destra, sostenitori di Trump, hanno fatto l’impensabile: hanno invaso e occupato il Congresso americano costringendo alla fuga i parlamentari, gravità che solitamente si accompagna ai colpi di stato. La cosa sorprendente è che ci sono riusciti con relativa facilità. Non dobbiamo minimizzare ciò che accadde quel giorno: quelle persone non erano dei burloni da bar, dei semplici grulli che vanno dietro alle fake news. Come ci mostrano i simboli da loro usati, c’erano tanti militanti di estrema destra, ossia razzisti, neonazisti, nativisti e suprematisti bianchi. In una parola, fascisti. E questo è successo a Washington, negli Stati Uniti d’America, paese che si è sempre fatto vanto della sua libertà, il paese più ricco e potente degli ultimi cento anni, motivo per cui ciò che succede là ha eco in tutto il mondo. Per questo non dobbiamo sottovalutare il ritorno forte dell’estrema destra in Occidente e per iniziare a conoscere meglio il fenomeno, ho deciso di consigliarvi un film e un libro. Il film è Scappa – Get out, uscito nel 2017 con la scrittura e regia di Jordan Peele. Questo film è originale perché parla di razzismo in modo insolito e, forse proprio per questo, efficace. Il regista, infatti, ha scelto di affidarsi agli schemi del genere thriller/horror: in questo modo Peele, tratta un tema fondamentale usando un genere solitamente considerato minore rispetto al grande cinema. In realtà, nonostante il trailer faccia pensare il contrario, nel film c’è qualche momento di tensione, ma non è così spaventoso. Meglio: così lo possono guardare tutti, anche quelli un po’ più fifoni. Non bisogna comunque sottovalutare la scelta del regista: il razzismo fa paura. Cosa succede nel film? In breve, un ragazzo nero e una ragazza bianca stanno insieme: già questo nella nostra società basta per creare una situazione di complessità. Pensa te. Lei lo invita ad andare a casa sua per conoscere i genitori. Lui sa quali sono i rischi, sa cosa può voler dire per dei genitori bianchi di mezza età vedere la loro cara figlia uscire con un ragazzo di colore, ma lei lo rassicura. Una volta arrivati lì, subito l’essere nero del ragazzo diventa qualcosa di anormale, un fatto curioso, evidente, unico elemento che guida le conversazioni: il suo corpo è fosforescente. Questa è spesso la normalità per chi è nero in una comunità di bianchi. La storia prosegue e si entra nel vivo: con una trama tipica da film horror, il regista parla in modo metaforico e suggestivo di divisioni sociali e professionali, colonialismo, suprematismo, stereotipi, forze dell’ordine, false credenze biologiche, genetiche e psicologiche, fino a toccare anche il misticismo. Peele, inoltre, è un comico: l’uso degli schemi horror sono funzionali alla sua satira, ma Peele rende il film ancora più intelligente avendo il coraggio di adottare cliché cinematografici riguardanti i personaggi neri tipici dei film comici persino nei momenti meno opportuni. Semplicemente, grottesco. Il libro che vi propongo, invece, prende di petto la questione del ritorno del suprematismo bianco negli Stati Uniti: Alt-America. L’ascesa della destra radicale nell’era di Trump è un saggio sempre del 2017 scritto da David Neiwert, giornalista e massimo esperto del fenomeno. Cos’è l’alt-America? L’alt-America è l’universo parallelo fatto di fake news, complottismi, teorie razziste ed eliminativiste in cui vivono gli estremisti di destra. Un mondo di fantasia che fino a poco fa credevamo minoritario, di nicchia, di pochi invasati e che invece negli ultimi anni, a partire dal 2015/2016 con le primarie repubblicane vinte da Trump, è emerso fuori dalla sua caverna per arrivare fino allo Studio Ovale della Casa Bianca e ai fatti dello scorso 6 gennaio. L’autore ricostruisce nei minimi dettagli il percorso che ha portato a questo stato di cose: partendo dagli anni Novanta, descrive i gruppi neonazisti di allora che formavano milizie armate e che rivendicavano il loro potere in quanto “cittadini sovrani”, ovvero non sottoposti alle leggi federali degli Stati Uniti. Riportando alla mente la loro presunta difesa dei confini americani dagli immigrati e alcuni pesanti scontri e stragi avvenuti fra questi gruppi e le forze dell’ordine, Neiwart introduce una delle questioni più sottovalutate negli ultimi decenni in America: il terrorismo interno, portato avanti dai bianchi contro i non-bianchi. Questo movimento viene rinfocolato dagli eventi dell’11 settembre, che hanno favorito una retorica militaristica legittimando l’emergere di un forte sentimento contro tutti i musulmani. Neiwert, poi, procede nel descrivere come le credenze sbagliate dei gruppi suprematisti e neonazisti si siano spostate, passando dall’essere relegate a un mondo oscuro e minoritario al diventare forza politica prevalente infiltrandosi a poco a poco nei ranghi del Partito Repubblicano, fra i conservatori moderati. Ciò è avvenuto in primis con due novità: la prima è internet. In questo immenso spazio fatto di siti e blog anonimi, gli estremisti di destra hanno potuto accedere a uno strumento di diffusione mai avuto prima. Soprattutto su canali come 4chan, 8chan e Reddit, coloro che propagandavano idee razziste hanno raccolto intorno a sé sempre più persone, in particolare giovani, bianchi, celibi e disoccupati. È da qui che la normalità ha iniziato gradualmente a mutare: da questi canali sono emerse alcune delle più aberranti teorie del complotto degli ultimi anni come il Pizzagate e l’idea per cui Barack Obama fosse in realtà un musulmano, nato fuori dagli Stati Uniti pronto a imporre una dittatura religiosa in America. Qual è l’idea di fondo che portano avanti queste persone? È che siano loro ad essere sotto attacco, come se ci fosse qualcuno pronto a togliere le posizioni di comando che finora i bianchi hanno avuto, imponendo un governo anti-bianchi che li deporterà tutti in campi di concentramento. In breve, ribaltano completamente il discorso: sono razzisti, suprematisti e neonazisti proprio perché un fantomatico Nuovo Ordine Mondiale è pronto a prendere il controllo e a sterminarli tutti. Per difendersi, saranno loro a sterminare tutti gli altri. È da questo mondo che poi vengono fuori carnefici che davvero compiono stragi ammazzando in sinagoghe e moschee. La seconda novità: un leader carismatico capace di riunirli tutti e di diffondere queste idee nel mondo istituzionale. Trump. Secondo l’autore del libro, Trump non è fascista ma un narcisista populista di destra, pronto ad appoggiare qualunque idea che lo faccia vincere e che col suo governo ha favorito l’emergere di una situazione di proto-fascismo. Trump non ha mai condannato le parole e gli atti dei militanti di estrema destra che lo appoggiavano. Con un balletto da contorsionista si è sempre difeso dalle domande e critiche dei liberali e progressisti ammiccando, favorendo e persino condividendo la retorica e la violenza dei suprematisti. Proprio come ha fatto il 6 gennaio quando, continuando a sostenere la teoria complottista per cui le elezioni in cui ha perso fossero state truccate, ha incitato e rigettato allo stesso tempo gli atti violenti dei suoi sostenitori. Trump oggi non è più al potere e forse non lo sarà nemmeno in futuro. Ma l’alt-America, il mondo fascista a cui ha aperto le porte, è ancora lì e tutti noi dobbiamo fare attenzione.... Read more...Meme, villain e disastri, un articolo di D. Petrelli || THREEvial Pursuit6 Aprile 2022Meme, villain e disastri di Dario Petrelli Nelle ultime settimane mi sono imbattuto spesso in una categoria di meme che va molto di moda, specialmente in questi anni. Avete presente i meme di quelle pagine Instagram o Facebook intrise di un umorismo sempre un po’ depresso? Sì, insomma, quei meme che in fondo dicono sempre la stessa cosa: tipo che il 2020, segnato dall’avvento della pandemia, è stato un anno talmente nefasto che nel 2021 le cose sarebbero solo potute migliorare; del resto, ‘non può piovere per sempre’, giusto? E invece sì che può, gli effetti e le conseguenze del covid hanno marchiato anche il 2021 e sono successe altre cose tristemente memorabili, come il ritorno dei taliban in Afghanistan e la conseguente crisi umanitaria, tanto per dirne una. Il 2021 è stato quindi, secondo gli interpreti di questa corrente umoristica, anche peggio del 2020. Le speranze tradite sono poi state riposte nel 2022, il nuovo anno della svolta. ‘Cosa mai potrà andare storto stavolta?’, come recita una delle varie frasi-mantra di queste pagine. È una tipologia di meme che gode ancora di un discreto successo sui social. A me fanno spesso ridere sebbene lo scherzo, come s’è detto, sia sempre quello: la nostra epoca è un susseguirsi di disgrazie e ogni anno può essere rappresentato da un villain più crudele del precedente. Come passare da Joffrey a Ramsey insomma, tanto per citare uno degli immaginari più sfruttati. Eppure, nonostante la ripetitività, continuiamo a consumarli e a condividerli compiaciuti. C’è qualcosa, in questi contenuti, che ci attrae, in qualche modo solletica il nostro ego. Ultimamente c’ho riflettuto un po’ su, e mi sono chiesto: non sarà forse che sotto sotto ci piace quest’idea di essere rimasti incastrati in un’epoca di sfighe eccezionali? Magari ci fa sentire un po’ più fighi, più survivors. Stimola il nostro senso di appartenenza a una generazione che entrerà nella storia, la generazione di chi ha conosciuto pandemia e guerra, una dietro l’altra. Potrebbe essere questo allora il segreto dietro l’instancabile viralità di questi meme: ci fanno ridere, sì, ma in fondo ci riconosciamo davvero nel loro significato. A pensarci bene, però, dovremmo accorgerci che non siamo poi così speciali; e con “dovremmo” intendo quelli della mia generazione – ciao, ho trent’anni e sono un millennial puro 100%. (Trentun anni). Basta un calcolo facile facile: tutti gli eventi catastrofici a cui ho avuto il piacere di assistere, beh, li hanno visti anche i miei genitori. Che a loro volta, però, sono stati testimoni di altre situazioni non proprio leggere, come la Guerra Fredda nel pieno della sua tensione; o la stagione delle stragi terroristiche e mafiose in Italia, se mi è reso lecito ridurre la scala da globale a nazionale. Mio nonno invece, che ha 91 anni, ha fatto in tempo a viversi appieno la Seconda Guerra Mondiale e a veder sbocciare i macabri fiori della Terza. Poi, chiaro, non si può nemmeno negare che la nostra generazione sia quella che più subisce – e subirà, insieme alle successive – la tremenda botta ambientale ed economica che stiamo affrontando, conseguenza dello scellerato sistema industriale e capitalistico messo su da chi ci ha preceduti. Però, insomma, in quanto a disastri e ansie mondiali, siamo un po’ tutti sulla stessa barca, millennials e boomers insieme appassionatamente. Ovviamente le considerazioni cambiano ulteriormente – e siamo ancora meno sfigati – se spostiamo la lente da una nazione all’altra, o peggio, da un continente all’altro. La generazione di millennials italiani non è perseguitata dal fato crudele come lo è quella ucraina, quella libica o di uno dei tanti Paesi africani segnati dalla guerra. Zone in cui la simbolizzazione del villain ogni anno più stronzo varrebbe già da un bel pezzo, al punto da esaurire il panorama di personaggi utilizzabili. (Il che ci porta anche a predire una fine naturale, prima o poi, per questa categoria di meme, perché come fai a selezionare ogni volta un personaggio più cattivo all’infinito? Chi è, anche volendolo scegliere, il cattivo più cattivo di tutti? Scherzo, la risposta è semplice. Lui, ovviamente). Comunque, i meme che utilizzano i villain come rappresentazione metaforica di eventi disastrosi sono solo una piccola porzione all’interno di questo filone di contenuti. Del resto, la quantità di personaggi, citazioni, serie tv, fenomeni del web e situazioni di ogni tipo da cui attingere per perpetrare questo gioco di significati, è in continuo aggiornamento: siamo appena ad aprile e abbiamo già un candidato fortissimo per raffigurare il 2023 che ci prende a ceffoni in faccia. Quale che sia il risultato, la scelta di accostamenti, a non cambiare è la scoperta che il futuro non fa che peggiorare. È il contrasto su cui si fonda il meccanismo comico: il protagonista del meme (e cioè noi stessi) si era autoilluso di essersi lasciato il peggio alle spalle; poi invece ha scoperto che non era così e c’è rimasto male. (“Simpatico pirla”, pensiamo). Ecco, proprio questo scollamento tra aspettative e realtà – come se ciò che accade non fosse prevedibile – mi pare invece l’elemento in cui dovremmo riconoscerci maggiormente, a livello di società (occidentale?) più che di generazione. Non tanto l’incidenza di sfighe colossali quanto il fatto che ci accorgiamo del loro arrivo solo dopo, quando ormai è troppo tardi. Prendiamo la pandemia: il mondo della scienza premoniva già da tempo che se non avessimo frenato i processi di dissesto ambientale e distruzione degli habitat naturali che portiamo avanti quotidianamente a livello globale, prima o poi il rischio che qualche virus letale arrivasse a colpire la nostra specie si sarebbe concretizzato. Ops. Oppure la guerra: del fatto che Putin e il suo governo non fossero soggetti che schifano particolarmente il ricorso a violenza e repressione armata, avevamo avuto qualche indizio negli ultimi vent’anni e passa (volevo fare un elenco ma tra invasioni militari, stragi e omicidi politici la lista è tristemente nota e lunga). Ciononostante, a metà febbraio la maggior parte di noi ancora si illudeva che non stesse per succedere niente di che al confine ucraino, che l’armata russa non sarebbe entrata. Poi ops, un’altra volta. Quando ormai la frittata è fatta e la sventura si è abbattuta su di noi, ecco allora che ci sbigottiamo, le mani fra i capelli: “com’è potuto succedere”? Tra l’altro facciamo una fatica immensa a riconoscerne le cause, tendenti come siamo a cadere nelle narrazioni ultra-semplicistiche che per qualche ragione scambiamo per verità autoevidenti: il covid? È stata la Cina, o tutt’al più è un complotto; la guerra in Ucraina? Tutta colpa della Nato, e quasi quasi ci sta bene un bel complotto anche qui. Così il dibattito si polarizza, i fatti si confondono, il senso di ineluttabilità degli eventi continua a crescere. E il mio sospetto è che in fondo ci stia bene così, almeno a noi che possiamo ancora guardare a ciò che succede con un certo distacco. Mentre i segnali delle prossime catastrofi – climatiche, umanitarie, nucleari e chi più ne ha più ne metta – continuano a sommarsi, noi ce ne stiamo comodi col culo sul divano, il telefono in mano a scrollare i social, amareggiati dalla nostra sfortuna, intimamente lieti della nostra impotenza. Sebbene questi meme abbiano finito per rappresentare la nostra società in maniera piuttosto azzeccata, volendo citare un film, credo che nulla ci descriva meglio di Don’t look up. Ogni anno che arriva è come un meteorite che sta per precipitarci addosso dallo spazio. Noi lo sappiamo e sappiamo che se non facciamo qualcosa ci faremo male, e parecchio. Ciononostante, puntualmente non facciamo nulla. Il meteorite poi arriva davvero, con nostro rinnovato stupore. E impatta sempre più vicino, sempre più forte.... Read more...#INSORGIAMO || Intervista al Collettivo di Fabbrica – Lavoratori (Ex) Gkn Firenze (Part 2) || THREEvial Pursuit26 Marzo 2022#INSORGIAMO Intervista al Collettivo di Fabbrica – Lavoratori (Ex) Gkn Firenze Parte 2 di Andrea Biagioni e Andrea Polverosi #INSORGIAMO – Foto di Andrea Biagioni (Prima Parte) AP: Mi aggancio a una frase che hai detto – e in un certo senso, alle altre domande che ti avevo fatto – ovvero: “Questi posti di lavoro devono essere del territorio”. Personalmente, anche rispetto alla manifestazione del 26 marzo, credo ci sia solo da ringraziarvi ancora una volta, perché l’idea di continuare a portare avanti una lotta che non sia solo strettamente legata alla vostra azienda, ma anche in una chiave sociale e territoriale è fondamentale, oggi come oggi. E questo mi sembra sia stato recepito, perché in tanti hanno risposto al vostro appello per una sorta di esigenza, diciamo pure per un sentimento di mancanza rispetto a questi argomenti; nel senso che quando siete “arrivati” voi, le persone hanno riconosciuto che qualcuno quei temi li voleva affrontare davvero. Credo sia questo il motivo di una risposta e una partecipazione così sentite. Infatti, la mia domanda riguarda proprio il contesto sociale e territoriale. Tutta la vostra vertenza nasce dal processo di delocalizzazione che è tipico della globalizzazione e quindi tipico dei nostri anni, nello specifico degli ultimi trent’anni più o meno. Quello che avete proposto, a livello nazionale, era una riforma. Non voglio entrare io nei dettagli, lascio che sia tu magari a farlo, però sostanzialmente si può dire che l’idea alla base della proposta era di ostacolare questo fenomeno e andare a ostacolare un processo come quello della delocalizzazione, socialmente parlando, è veramente una roba grossa: che la si voglia chiamare riforma o rivoluzione, si parla di un cambiamento enorme per questa società. Nell’orizzonte quindi di una possibile riforma1, qual è nel dettaglio la visione del Collettivo, a livello appunto sociale e territoriale? Si parte dall’ostacolare la delocalizzazione per arrivare dove? CdF: Domandona. Allora, innanzitutto, mi sembra giusto precisare che noi usiamo con tranquillità nel gergo comune la parola delocalizzazione, ma è un termine che non ha nessuna definizione precisa, né nella terminologia aziendale, né in quella economica e nemmeno in quella legislativa; e questo ti spiega già tutto. Voglio dire che mentre c’è un Paese che sa cosa sono le delocalizzazioni, che le ha vissute e può discutere se fermarle o non fermarle e come fermarle, addirittura nel mondo “ufficiale” non è nemmeno riconosciuto il termine delocalizzazione. Per esempio, Gkn/Melrose afferma di non aver fatto una delocalizzazione: cioè a un certo punto, puff , un’azienda sparisce e secondo loro non è neppure delocalizzata. Quindi, dal momento che neanche nelle diciture di legge esiste questo termine, noi abbiamo dovuto ribaltare il discorso e dire: “Ok, il tema non è se un’azienda decide di scappare, il tema è quali sono gli strumenti che tu hai per salvaguardare ciò che è la materialità di quello che stai facendo sul tuo territorio”. Ciò significa che, per noi, l’azienda – intesa come proprietà, intesa come azioni, intesa anche come “click di mouse” che oggi le consente di muoversi rapidamente ovunque – si può pure spostare, nel senso che noi non contestiamo più nemmeno quel livello di astrazione totale che è diventata l’economia. Il punto è: di fronte a uno stabilimento che rappresenta circa 80 anni di storia industriale come il nostro2, che è un’eccellenza, dove ci sono delle persone che lavorano e dove non c’è nessun ostacolo alla continuazione materiale della produzione, può lo Stato intervenire e, anche se l’azienda scappa, decidere di mantenere e dare continuità produttiva, aziendale e progettuale a quello stabilimento? Secondo noi sì, per mille ragioni. Il problema però è che anche laddove questo Stato avesse mai la volontà politica di dire, “ok, va via un’azienda, ma io garantisco la continuità produttiva”, questo stesso Stato non solo non ha la volontà, ma non è neppure strutturato, non ha le capacità, non ha le competenze, non si è proprio formato nel personale burocratico-politico per fare questa cosa, perché è uno Stato, è un apparato decisionale che è formato quasi esclusivamente nella riscossione delle tasse, nelle multe, nell’approccio burocratico alla società. Per arrivare alla tua domanda, noi ci immaginiamo che un’azienda come la nostra la potevi, e forse la puoi ancora salvare, solo se si creano reti territoriali di competenze e intelligenze collettive. E questo, per esempio, rimette in discussione anche che cos’è il mondo dello studio e il mondo accademico, quindi il suo mettersi a disposizione in maniera pubblica nell’ambito della brevettazione e dello sviluppo, per uno sviluppo diciamo così a ‘Km 0’, dove effettivamente una fabbrica diventa un punto considerato socialmente rilevante e socialmente integrato, sia nella progettazione sia nella produzione, sia nei diritti e, perché no, un domani anche nella struttura. Noi qua abbiamo una valanga di spazi che potrebbero essere usati per creare degli sportelli; su ci sono interi uffici che noi abbiamo suggerito potessero diventare competence center per le startup. Noi qua avremmo potuto aprire uno sportello di psicologia del lavoro. Noi qua, in questi sei mesi, abbiamo aperto al territorio, facendogli conoscere che cos’è la fabbrica, cosa rappresenta. Abbiamo accolto l’Anpi, l’Arci e altre realtà simili. Voglio dire che non c’è nessuna ragione per cui la fabbrica debba avere un confine rispetto alla e alle realtà territoriali. Ho detto la fabbrica ma, allargando il dicosrso avrei potuto dire, che so, gli uffici, i grossi centri amministrativi e così via, insomma. #INSORGIAMO – Manifestazione 18 settembre 2021 – Foto di Rosanna De Benedictis AP: Solitamente, quando si parla di tessuto sociale e della sua disgregazione si fa più che altro riferimento a valorizzare e salvare il piccolo negozio, la libreria di quartiere, il cinema locale. Invece qui, la stessa idea viene applicata proprio alla fabbrica come stabilimento che non è solo lavoro e produzione, ma è proprio tessuto sociale appunto. CdF: Sì, perché poi è quello che siamo, quello che siamo stati. Noi comunque lo sapevamo già prima, ma dal 9 luglio questo aspetto qui è proprio esploso. Chiaramente quando poi il territorio si mobilita con te, riscopri un po’ tutti i legami che avevi, che ti sembravano invisibili e che sono legami di natura politica, sociale, sindacale ma banalmente anche comunitaria. Io mi son ritrovato qui la Misericordia, la parrocchia, una squadra di calcio. E me li trovavo qui perché i lavoratori GKN erano attivi sul territorio in tutti gli ambiti. Tra l’altro, erano attivi in questi contesti anche perché quando una fabbrica è provvista di diritti, di contratti a tempo indeterminato, di limiti allo straordinario, di limiti alla precarietà, ti permette di organizzarti la vita, e organizzarti la vita vuol dire avere il tempo poi di fare altro, di non essere soltanto quelle otto ore di salariato, perché uscito da quello puoi occuparti di quello che vuoi. C’è chi ha deciso di fare militanza, c’è chi ha fatto arte, c’è chi invece banalmente ha portato le pizze come volontario all’Arci, c’è chi fa i turni alla Misericordia, c’è chi allena la squadra di calcio appunto. Questa è “la fabbrica” che noi siamo stati e credo sia venuto fuori in questa lotta, insomma. È stata un po’ anche una chiave per difenderci, alla fine. Per chiudere però, sulla delocalizzazione volevo dire un’altra cosa. Uno degli argomenti che loro tirano fuori sempre – e questo mi manda veramente fuori di testa – sul perché non si possono fermare le delocalizzazioni, è che noi porremmo troppi vincoli alle aziende. C’è questo concetto del vincolo che è davvero fastidioso, perché in realtà sì, tutti noi siamo vincolati: tipo siamo vincolati a portare la mascherina, siamo vincolati a delle leggi, a delle norme e la società può discutere se e come quel vincolo può essere imposto. E anche le aziende hanno dei vincoli, perché le aziende sono vincolate da un Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, da un Testo unico salute e sicurezza e così via. Guarda un po’ però, e non a caso, quando dicono che non vogliono essere vincolate, poi non è che vanno a rimettere solo in discussione il concetto di delocalizzazione, pian piano vanno a mettere in discussione tutto, perché le aziende che investono su questi territori, soprattutto nel pratese, per investire pretendono di togliere quello come altri vincoli. E così accade che qua, magari, c’è la lotta contro la delocalizzazione; qualche chilometro più in là, ci sono lotte banalmente per chiedere il rispetto del Contratto Nazionale, che impedisca a operai e operaie di lavorare 12 ore al giorno per 7 giorni alla settimana3. Nel senso che, quando tu mi inizi a dire che non vuoi vincoli, parti dall’idea che limitare la delocalizzazione è un vincolo e arrivi a considerare vincolo il Contratto Nazionale. Cioè, a quel punto tutto è vincolo… AB: Si percepisce da questo tuo ragionamento come si sia ancora fermi a un rapporto gerarchico padrone-dipendente, che oggi dovrebbe essere piuttosto obsoleto, dove il secondo non ha diritto di parola e dove la richiesta di certi diritti e certe garanzie viene percepita come una volontà di limitare la crescita dell’azienda. Eppure, è lo stesso operaio a sapere che meglio l’azienda funziona, più garanzie ci sono di un lavoro assicurato. Nel senso, non è che io, operaio, voglio mettere dei vincoli alla proprietà, voglio solo un confronto su questioni importanti che mi riguardano, che mi coinvolgono. E proprio perché so che una fabbrica funziona meglio se si rispettano certe norme, quindi se si rispettano i dipendenti, in realtà io sto partecipando in un certo modo al futuro dell’azienda. Invece, questo coinvolgimento spesso manca, anche quando di fronte trovi qualcuno che ribalta un certo tipo di narrazione sulla classe operaia, dimostrando che chi la compone sa anche pensare, sa anche parlare e conosce molto bene le dinamiche del proprio settore aziendale. Solo che le proprietà non percepiscono questo aspetto come un valore aggiunto, ma come un pericolo… CdF: Sì, in un certo senso è così. #INSORGIAMO – (Ex) Stabilimento GKN Driveline Firenze a Campi Bisenzio – Foto di Andrea Biagioni AB: Ecco, rispetto a quanto hai detto fin qui, parlando di delocalizzazioni, hai sfiorato due questioni che sono centrali quando si parla di lavoro, ovvero contrasto allo sfruttamento e sicurezza. Ho due domande che mi frullano in testa su questi argomenti. La prima in realtà è legata anche alla scuola, perché un altro tema molto caldo in questo momento, soprattutto per i giovani, è quello riguardante la cosiddetta ‘Alternanza Scuola-Lavoro’, la quale a sua volta ha molto a che fare con la “formazione sul lavoro”, coinvolgendo quindi tutti i lavoratori e le lavoratrici. Recentemente c’è stato il caso di Lorenzo Parelli – studente morto a 18 anni a causa di un incidente avvenuto all’ultimo giorno di stage per l’alternanza scuola-lavoro appunto – che ha portato molti a protestare, in particolare gli studenti, su questa forma di “inserimento professionale”, diciamo. Se ne sentono tante di voci, da chi chiede di abolirla a chi invece è ancora convinto sia giusto mantenerla così e che quella di Lorenzo sia stata semplicemente fatalità, passando per chi chiede di ribaltarla completamente. Noi abbiamo molti giovani tra coloro che ci leggono, ragazzi che vanno alle superiori e che stanno affrontando proprio l’alternanza scuola-lavoro. Quindi ci interessa molto sapere su questo il vostro punto di vista. C’è da cambiare qualcosa, cosa c’è da cambiare, come si può evitare quello che è successo in quella situazione? Perché quello è il fatto “eclatante” – passami il termine – a livello mediatico, ma poi c’è anche tutto un sottobosco dove i ragazzi non muoiono per fortuna, però vengono praticamente sfruttati per mesi senza che gli sia rimasto niente di quello che gli dovrebbe servire per il futuro. Cosa avete carpito voi sull’argomento? CdF: Ovviamente io, in quanto operaio e padre, però padre di una bambina di 9 anni, non sono per forza il più titolato a rispondere a questa domanda. Penso che chi si trova in questo momento negli studi, sappia molto meglio di me quali sono i suoi interessi, quindi la mia opinione va presa con le pinze. Non pretendo di dire nessuna verità. L’alternanza scuola-lavoro si basa su un’idea che apparentemente è forte, cioè quella che fondamentalmente, vista la scarsa qualità della scuola, invece di stare nel parcheggio-scuola, tanto vale provare ad andare un po’ a farsi formare in azienda, almeno apprendi cose concrete. Questa è un’idea che può avere un appeal, soprattutto quando viene agitata di fronte a ragazzi che magari in questo momento stanno vivendo la scuola veramente come un parcheggio per lo stato scadente in cui versano tante strutture scolastiche. Ma purtroppo è una falsa illusione, una falsa seduzione. Punto primo perché noi, quello sì, lo sappiamo bene che cos’è la formazione nelle aziende. Nelle aziende non si fa formazione. Almeno non in tutte. Ovviamente non posso generalizzare, ma posso fare questo esempio: il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro dei metalmeccanici, nel 2016, impose alle aziende di fare almeno otto ore all’anno di formazione a tutti i lavoratori; quasi mai sono state fatte, nonostante ci sia un dovere contrattuale. Quindi l’idea che la scuola perda la propria funzione educativa e che l’azienda invece sia lì pronta a darla e ad accogliere spazi per formare, è profondamente sbagliata. Non posso dire con certezza che non ci siano aziende virtuose su questo, ma fondamentalmente chiunque abbia lavorato un po’ in qualsiasi azienda del Paese, sa che avere momenti di formazione significa essere quasi sempre “buttato” nella tua funzione, bere o annegare, devi imparare sul campo. Quindi ripeto, l’idea che a un certo punto queste aziende si fermino e ritaglino spazi e tempi per insegnare a chi fa l’alternanza, a noi fa abbastanza rabbrividire. Poi posso dire che nel mio modello ideale, in azienda esiste solo un tipo di formazione: retribuita. Perché comunque, quando sei dentro un’azienda, l’azienda deve fare formazione, ma quella formazione è finalizzata a ricavare un profitto dal tuo futuro lavoro. Se quindi l’azienda vuole cavare un profitto dal tuo futuro lavoro, la formazione è un investimento e come tutti gli investimenti lo paghi. Altrimenti è troppo facile perché, in realtà, tu stai usando la mia formazione per altro. Tra l’altro le aziende non lo dicono, ma hanno una valanga di fondi pubblici che gli permettono di fare ogni tipo di corso di formazione; è che non li usano nemmeno tante volte, perché non hanno interessi, li lasciano lì. Poi posso anche dire che nel mio modello ideale, io ho sempre pensato che nella vita ci sia tanto tempo per andare a lavorare, per pagare, per morire e che gli studi devono essere uno dei momenti più belli nella vita di una persona. Quando uno studia non se ne rende conto, poi lo capisce negli anni, e quindi io non vedrei niente di male ad avere un modello di obbligo scolastico a 18 anni, dove integralmente tutto quello che fai, lo fai a scuola, perché poi c’è tutto il tempo per fare percorsi professionalizzanti. Oltretutto, in un mondo dove la disoccupazione giovanile è alle stelle e quindi non c’è nessuna fretta di immettere nel mondo del lavoro persone che vadano a ingrossare la disoccupazione giovanile. Se noi potessimo scegliere, saremmo per percorsi più universali, più generalizzanti possibile, almeno fino a 18 anni, e dopo c’è tutto il tempo di specializzarsi e formarsi, chi in percorsi interni al mondo del lavoro, chi esterni, eccetera eccetera. Mi rendo conto che questa, con la scuola ridotta com’è, possa sembrare un’utopia, perché le scuole non hanno spesso laboratori, hanno classi pollaio e così via, però non è con l’alternanza scuola-lavoro che si risolve il problema insomma. #INSORGIAMO – Manifestazione 18 settembre 2021 – Foto di Rosanna De Benedictis AB: L’altra domanda invece, che è anche l’ultima, è un po’ più personale, diciamo, nel senso che riguarda qualcosa su cui ancora oggi non riesco a darmi una spiegazione precisa, definitiva. Mi spiego, io vengo da una famiglia che non ha mai svolto lavori intellettuali, ma sempre lavori manuali, quindi contadini, artigiani, operai e così via. Come diceva Guccini, “son della razza mia, per quanto grande sia oh, il primo che ha studiato“, però mentre facevo l’università e anche dopo, inframezzando quella di giornalista, ho svolto altre professioni. Ho lavorato in magazzino per una multinazionale, ho lavorato in bar, ristoranti e pub o in aeroporto sempre per una multinazionale. Questo per dire che ne ho viste di tutti tipi in ambienti anche diversificati tra loro. E quello che ho sempre notato è appunto una scarsa attenzione sulla sicurezza, non solo da parte dell’azienda stessa e di chi dovrebbe supervisionare per suo conto, ma a volte anche da parte di alcuni di noi, ovvero dipendenti – mi si perdoni lo scevro termine. Faccio un esempio: mi è capitato di assistere a una discussione tra operai che lavoravano insieme a me su chi aveva fatto più turni di fila senza mai staccare. Roba che aggirava intorno alle quaranta ore quasi ininterrotte. Facevano a gara e sembrava loro normale. Questa per dirne una, ma ce ne sarebbero decine da raccontare. C’è anche da sottolineare che spesso erano lavoratori provenienti da paesi dove le condizioni di lavoro erano pessime, i diritti quasi nulli e lo sfruttamento galoppante ma scarsamente percepito dal lavoratore stesso, che infatti vedeva normale lavorare per quaranta ore filate. Ora, c’è oggettivamente una responsabilità enorme da parte delle aziende e questo è evidente. Però, mi viene anche da pensare che in alcuni ambienti, non in tutti certo, ma in molti ci sia anche un problema proprio di cultura rispetto alla sicurezza sul lavoro, forse a causa proprio di una scarsa formazione. Nel mio caso è chiaro che, avendo fatto tanti lavori, ho fatto anche corsi sulla sicurezza molto diversificati tra loro, veramente di ogni tipo, compresi quelli per professioni da ufficio. Ecco, se ci ripenso, nessuno di questi mi è sembrato servisse a un cazzo fondamentalmente, nel senso che in generale potevano pure avere un significato, ma molto spesso non tenevano in considerazione tanti aspetti specifici di quella determinata azienda, o semplicemente erano proprio vecchi, sorpassati. Quindi, come detto, da un lato c’è una responsabilità anche da parte di chi deve fare e sorvegliare certe norme di sicurezza; allo stesso tempo, però, c’è proprio una mancanza di cultura da parte di molti lavoratori riguardo la sicurezza sul lavoro, e spesso è come se percepissi una specie di rassegnazione, come a dire: “Tanto è così, è sempre stato così e sempre sarà così, pazienza”. Ed è quello che mi preoccupa. CdF: Allora non è una domanda facile, o meglio, io in realtà potrei entrare nei dettagli di tutta una serie di mancanze del Testo unico salute e sicurezza, che comunque permetterebbero di migliorare la sicurezza sul lavoro, soprattutto laddove c’è chi vuole davvero farla, perché per esempio noi abbiamo sempre avuto qua una grossa attenzione per la sicurezza, ma ci scontravamo contro alcuni limiti. Però, come dire, per vari motivi rimandiamola a future discussioni questa qui, perché sarebbe davvero lunga e complessa affrontarla adesso. Mi limito a dire che anche la legislazione ha dei punti da migliorare e allo stesso tempo è vero quello che dici tu. Purtroppo, attualmente per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro, ci sono tre grossi freni. Uno, il più banale: le aziende – e quello succede da sempre – possono dire quello che vogliono ma alla fine spingono sui ritmi, spingono sui ritmi, spingono sui ritmi; e quindi puoi fare tutti i corsi sulla sicurezza che vuoi, ma alla fine diventano un specie di messaggio prettamente formale rispetto al vero messaggio sostanziale, ovvero c’è un sottotesto che ti dice “tu i pezzi li devi fare e devi correre”. Basterebbe considerare una cosa. Io non so in quanti luoghi di lavoro ormai essere sotto personale è normale. Tu trovami un posto di lavoro dove, chi ci lavora, non si ritenga sotto personale. Probabilmente è così ovunque; non c’è un posto di lavoro dove non sei sotto personale ed esser sotto personale già ti mette a rischio di sicurezza, banalmente perché non puoi pensare a quello che stai facendo. Tra l’altro, è stata introiettata l’idea che se tu sei, che ne so, in quattro in ufficio e capita il giorno in cui hai un po’ meno da fare, ti devi sentire in colpa. Invece il lavoro è fatto anche di momenti in cui, come dire, hai dei vuoti, perché poi ci sono i picchi e quindi tu devi strutturare il lavoro sui picchi, che chiaramente non è un giorno all’anno, ma sicuramente non puoi essere sempre in picco. Se poi prendiamo i lavori più impiegatizi o intellettuali, si esprime un problema d’iperconnettività, che secondo me è una cosa devastante. Le persone ormai danno per scontato rispondere al telefono a tutte le ore, tutte le sere. Questo vuol dire che sviluppano malattie professionali ormai molto più difficili da riconoscere. Per esempio, la grande stagione delle lotte operaie ha portato alla luce cose tremende, come l’amianto; oggi, per fortuna, questo tipo di cose sono molto più ridotte, però allo stesso tempo c’è un’epidemia di malattie depressive, di patologie legate al lavoro di usura e non riconosciute, che possono andare semplicemente dai problemi legati alle posture a malattie psicologiche; e mancando allora una lotta strutturata dentro queste nuove/vecchie identità di lavoro, la situazione può diventare devastante, perché tu magari non tornerai a casa col braccio staccato, come uno che lavora in acciaieria, o non cadrai da un ponteggio… #INSORGIAMO – (Ex) Stabilimento GKN Driveline Firenze a Campi Bisenzio – Foto di Andrea Biagioni AB: Ma passare dodici ore filate, o anche più, su una poltroncina con un computer o uno schermo davanti, chiuso in una stanza, non è di certo una bellezza. CdF: Esatto. E tra l’altro non riuscirai nemmeno a fartela riconoscere come malattia professionale. Il secondo tema invece è la transitorietà del lavoro, perché non c’è niente da fare: ci sono 3 milioni di lavoratori precari, 500 mila occupati nella gig economy, 2 milioni che lavorano in nero; insomma hai già milioni di persone che non si pongono nemmeno il problema della sicurezza, non ci si mettono nemmeno, perché tanto sanno che lì staranno un mese, due mesi, un anno al massimo, poi boh si vedrà. Quindi, tutte quelle cose che non ti tornano sulla sicurezza le rimandi al futuro. Infine – e forse questa è la cosa ancora più profonda e triste – il mondo del lavoro è contaminato da un’idea ormai individualista e cinica che attraversa tutti gli aspetti della vita. Io ricordo che in un’azienda dove lavoravo, c’erano le trance che servivano a tranciare delle minuterie metalliche per l’alta moda. Lì il padrone veniva chiamato per nome e la cosa a me non tornava, perché ero arrivato da poco ed ero abituato a chiamarlo per cognome. Questa lavoratrice che lavorava con me, di fronte a certe critiche che si muovevano all’azienda e che non sto ora a elencare, una volta mi disse: “A me”, uso un nome di fantasia, “Fulvio, non mi ha mai fatto nulla”. Mentre lo diceva, ho notato che le mancavano le dita della mano, perché anni prima per metterci meno a tranciare, invece che schiacciare i due pulsanti con le due mani, siccome i pulsanti erano laterali – infatti poi son stati cambiati – li schiacciava con le ginocchia e intanto, col pezzo, passavano anche le mani. Puoi immaginare come è andata la cosa. Io allora mi son chiesto: “Cioè non hai più le dita e a te, Fulvio, non ti ha mai fatto del male”. Poi ho pensato: “Ma a che cosa le serviranno quelle dita?” Perché io, per esempio, mi diletto un pochino a suonare ogni tanto il pianoforte, ogni tanto la chitarra, ma se alla fine tu la tua vita la vedi a quella trancia e per lavorare ti bastano i palmi delle mani, vuol dire che sei introiettato in un sistema, in cui il tuo essere è limitato all’essere presente esclusivamente lì, in quel momento e in quel contesto. Quindi, non ti concepisci più come un essere storico che avrà un futuro e non pensi più alla tua sicurezza. Tutti noi oggi viviamo nell’incapacità di proiettarci nel futuro, perché ad esempio non avremo una pensione ma il problema non ce lo poniamo, eppure un giorno faremo fatica a lavorare, perché l’età avanza. Facciamo lavori ripetitivi che ci stanno usurando, però magari in quel momento non ci pensiamo per i motivi che ho detto prima, tanto poi si ragionerà. Non abbiamo una prospettiva. Insomma, non ragionare in termini storici, non dire “cazzo, ma ti rendi conto che io per fare quella manovra stupida al lavoro, magari non vedrò più mio figlio, mia figlia”, è estremamente pericoloso. Si ragiona solo nel presente, in quella giornata, in quel momento: “Io devo chiudere il lotto, devo finire i pezzi”. Così, non ti rendi conto di che cosa stai rischiando, ovvero la vita, il tuo tempo futuro e non ne avrai un altro. Tutto per salire su una scala di corsa o compiere azioni di questo tipo. Ecco, temo che purtroppo, alla fine, nella mancanza di sicurezza, fondamentalmente c’è la mancanza di amore per sé stessi che deriva dal non vedersi come una persona a tutto tondo, che ha un presente, un futuro, un ruolo da giocare nella società. #INSORGIAMO – Manifestazione 18 settembre 2021 – Foto di Rosanna De Benedictis 1 Al momento il Governo, nella seduta del 18 dicembre 2021 della Commissione Bilancio al Senato, ha insserito un’emendamento al disegno di legge di Bilancio 2022 contro le delocalizzazioni. Più precisamente, l’emendamento (il 77.0.2000), che inserisce l’art. 77-bis, detta disposizioni in materia di cessazione dell’attività produttiva. 2 L’ormai ex stabilimento GKN Driveline Firenze, nel distretto industriale di Capalle a Campi Bisenzio, è infatti l’erede dell’ex stabilimento Fiat di Novoli, realizzato tra il 1938 e il 1939 nell’area compresa tra viale della Toscana, via di Novoli, via Forlanini e viale Guidoni. Negli anni ’80, iniziò da parte di Fiat una progressiva dismissione dei propri immobili, che condurranno all’attuale conformazione dell’area con la realizzazione della sede della Regione Toscana, del Palazzo di Giustizia, del Polo di Scienze Sociali dell’Università di Firenze, del parco e del complesso residenziale-commerciale di San Donato. Contestualmente, parte il progetto di trasferimento della produzione nel distretto industriale di Campi Bisenzio. Lo stabilimento in costruzione venne acquisito nel 1994 da GKN, insieme alla produzione stessa di semiassi e giunti omocinetici che si spostò definitivamente a Capalle nel 1996. 3 Il riferimento è alla protesta dei lavoratori dell’azienda Texprint srl di Prato, appoggiata da Sì Cobas, che da più di un anno stanno portando avanti uno sciopero a oltranza contro la proprietà per rivendicare salari, trattamenti, orari di lavoro adeguati e, in seguito al licenziamento di alcuni di loro, anche il reintegro dei lavoratori. Nel corso di questi mesi e di alcune manifestazioni di protesta davanti alla fabbrica, si sono verificate inoltre numerose e gravi aggressioni fisiche nei confronti di questi lavoratori da parte dei proprietari. Solo lo scorso 17 marzo, la Texprint è stata ufficialmente indagata per sfruttamento di manodopera e dopo che nel marzo 2021 era stata colpita da un’interdittiva antimafia emessa dalla Prefettura di Prato, poi ritirata nella stessa estate, senza che per questo venissero fugati i dubbi sul ruolo di un “dipendente” dell’azienda, più volte indagato per concorso in associazione mafiosa e sempre assolto.... Read more...#INSORGIAMO || Intervista al Collettivo di Fabbrica – Lavoratori (Ex) Gkn Firenze (Part 1) || THREEvial Pursuit23 Marzo 2022#INSORGIAMO Intervista al Collettivo di Fabbrica – Lavoratori (Ex) Gkn Firenze Parte 1 di Andrea Biagioni e Andrea Polverosi #INSORGIAMO – Foto di Andrea Biagioni Sopra le nostre teste, in un soleggiato pomeriggio di febbraio, si staglia uno striscione con un invito molto chiaro: #INSORGIAMO. Quello striscione si trova in alto, all’ingresso dell’ormai ex stabilimento GKN Driveline Firenze (a sua volta ex stabilimento Fiat) di Campi Bisenzio, lo stesso che lo scorso luglio è stato chiuso da un giorno all’altro per una mera questione di speculazione finanziaria1, lasciando letteralmente per strada 422 tra lavoratori e lavoratrici, che però della strada hanno fatto buon uso. Da lì infatti, in quel momento, è iniziata la loro lotta, quella del Collettivo di Fabbrica – Lavoratori Gkn Firenze, che nel corso dei mesi però si è allargata a dismisura su più settori, diventando la lotta di tutti coloro che ogni giorno vedono prevaricato il proprio diritto a condizioni di lavoro dignitose in un mercato senza scrupoli e finalizzato al solo profitto. Le loro vicende le avrete certamente seguite in tv e sulle varie testate giornalistiche (finché han fatto notizia), ma soprattutto grazie al grande lavoro di comunicazione che il Collettivo porta avanti quotidianamente sui social. Ora leggerete alcune loro riflessioni su queste pagine grazie al tempo che Dario Salvetti, portavoce del Collettivo di Fabbrica, ci ha dedicato nonostante i molti impegni e le molte iniziative che stanno organizzando. E di questo, ma non solo di questo, li ringraziamo di cuore. P.S. Questa intervista è stata realizzata lo scorso 1° febbraio, quando molti importanti aggiornamenti non erano ancora emersi sia sull’#Insorgiamo tour, sia sulla manifestazione generale del 26 marzo, sia sulla situazione che i lavoratori e le lavoratrici del Collettivo di Fabbrica stanno continuando a vivere. Per questo, una versione “allargata” dell’intervista verrà pubblicata nei prossimi mesi come secondo volume della nostra nuova collana KÁTHARSI. #INSORGIAMO – Manifestazione 18 settembre 2021 – Foto di Rosanna De Benedictis Andrea Biagioni: Innanzitutto, ci teniamo a sottolineare quanto vi siamo grati per averci concesso un po’ del vostro tempo, nonostante il periodo caldissimo che state vivendo, sia per le questioni note sia per le tante iniziative che state portando avanti. Lascerei però la parola al mio collega, perché credo abbia “in canna” un paio di domande su dei temi che ritengo siano l’ideale per rompere il ghiaccio di questa intervista. Andrea Polverosi: Sì, io volevo partire da una considerazione riguardante una delle prime cose che mi ha colpito e stupito di voi, ovvero la vostra capacità di comunicare, di parlare. Comunicate e parlate molto bene, nel senso che è raro, nelle interviste in TV per esempio, vedere un lavoratore, un operaio che si esprime nel modo in cui vi esprimete voi. E ciò che mi ha stupito in particolare, oltre allo spirito che alimenta il Collettivo, è questa conoscenza molto approfondita a livello legale, ma anche a livello economico-finanziario del vostro settore e in generale del mercato sia italiano che internazionale. Quindi, la mia domanda era proprio legata a questo: vorrei capire il percorso che porta voi lavoratori (ex) GKN ad avere questa preparazione, questa capacità comunicativa – che è anche la scusa per fare un po’ di storia vostra, insomma. Collettivo di Fabbrica: Che parliamo bene, che comunichiamo bene ne prendo atto, nel senso che lo dici tu e quindi non possiamo fare altro che prenderne atto, appunto. Mi spiego meglio. Noi chiaramente parliamo sempre allo stesso modo, quindi dall’interno non siamo in grado di valutare se bene o male. Diciamo però che la tua domanda può essere divisa in una risposta che ha tre piani. Da un lato, io credo che chi pensa bene, lotta bene, quindi parla bene, perché ha la chiarezza di quello che vuole e quando la lotta nasce effettivamente da esigenze immediate, dirette, chiare che si basano sulla concretezza di una vertenza, di una lotta, è evidente che poi trovi anche il modo di pensare bene e parlare bene. Noi, in generale, abbiamo condotto questa lotta – e tutte le lotte che abbiamo fatto – banalmente per la volontà di vivere in maniera dignitosa, con diritti e con un salario decente in un luogo di lavoro che vogliamo sia altrettanto decente; non abbiamo mai avuto altri fini e questo ha sempre fatto sì che qualsiasi gesto facessimo, qualsiasi mobilitazione intraprendessimo, non avesse nient’altro che la sporcasse. Quindi, già questo secondo me emerge. Gli altri due aspetti che mi sento di sottolineare sono i seguenti: qua è sopravvissuto e poi è stato rivitalizzato – perché è stato anche rivitalizzato – un modello sindacale che viene dagli anni ’70 e che è un modello fondamentalmente basato sulla democrazia assembleare a tutti i livelli. Noi siamo un’azienda che, come tutte le aziende, ha un monte ore sindacale di 10 ore di assemblea all’anno. Per accordo, lo avevamo esteso a 13 ore e quasi sempre arrivavamo a settembre che l’avevamo già terminato. Oltre alle assemblee generali, c’erano la riunione dei delegati di raccordo, dei collettivi di fabbrica; difficilmente passava una settimana senza che ci riunissimo tra di noi, come consiglio di fabbrica, o con qualche lavoratore o con qualche reparto o con qualche delegato. Quindi, tutto quello che noi facciamo passa da una palestra democratica dove uno impara ad argomentare, impara a pensare, impara a valutare, impara a ragionare. L’altro aspetto che invece tu poni – e che è più relativo alla conoscenza proprio del mercato della nostra azienda – anche questo deriva fondamentalmente dalla lotta, nel senso che noi abbiamo spinto molto avanti la lotta per i nostri diritti, cercando di resistere un po’ allo spirito della conservazione e del tempo, quindi alle nuove idee che avanzano e che in realtà son vecchie idee, soprattutto quella di attaccare i diritti dei lavoratori. Per resistere a questo, abbiamo innanzitutto rilevato che la controparte usa ogni tipo di tecnica, compresa quella di disorganizzare il lavoro o di ‘non organizzarlo’. Questo significa che noi non siamo mai stati in un momento in cui potevamo semplicemente dire: “Ok, io chiedo salario, chiedo assunzioni e chiedo diritti. Punto. Perché questa è la mia funzione sindacale”. Dunque, per sostenere queste lotte, noi ogni volta dovevamo rispondere – mandando così nel caos l’azienda – contestando come funzionava l’organizzazione del lavoro, perché non facevano manutenzione, perché non avevano un piano manutenzione, perché perdevano ore… Su questo faccio un esempio; se tu facevi tre ore di sciopero all’anno, quelle tre ore di sciopero erano sotto la lente d’ingrandimento della multinazionale che diceva: “Ecco, vedi. In Italia non si può fare nulla perché siete sempre in sciopero”. Noi allora abbiam fatto un’analisi di ventiquattro ore sul ciclo produttivo di una cella di montaggio e abbiamo dimostrato che c’erano delle perdite di efficienza per turno, quindi ogni 8 ore, di 150 minuti. Ogni giorno che il cristo metteva in terra c’erano quindi, in tre turni di 8 ore, 450 minuti di perdite di efficienza. Però se tu facevi un’ora di sciopero all’anno o al mese, era uno scandalo perché bloccavi tutto. Quindi noi abbiamo dovuto imparare a rispondere al fatto che gli accordi che ci proponevano, i peggioramenti, le misure proposte erano non solo sbagliate dal punto di vista nostro, di interessi dei lavoratori, ma non c’entravano nemmeno nulla con le esigenze produttive, come se ormai il nostro, chiamiamolo avversario di classe, vivesse in una dimensione talmente eterea, che in realtà non aderiva più nemmeno alle esigenze della produzione in quanto tale. #INSORGIAMO – (Ex) Stabilimento GKN Driveline Firenze a Campi Bisenzio – Foto di Andrea Biagioni AP: Rimanendo nell’ambito del percorso che avete portato avanti in questi mesi, ho notato che nelle vostre varie manifestazioni, c’è sempre stata tanta partecipazione e secondo me questo ha evidenziato come intorno alla vostra vertenza, si fosse riunito un numero di persone che andava al di là di familiari, amici e conoscenti, ma che coinvolgeva anche lavoratori di altri settori. Lì probabilmente s’è espressa una vicinanza e una somiglianza, diciamo una “vicinanza per affinità”, perché il vostro disagio è stato sentito anche dagli altri lavoratori. Noi per esempio veniamo da un mondo del lavoro diverso, quello della cultura, dove di solito si pensa allo stereotipo che tanto in quel mondo lì c’è chi ha studiato e quindi si crede sia un settore più “comodo” sotto certi aspetti, dove ci sono strumenti più solidi per difendersi, e non è vero perché in realtà c’è uno sfruttamento pazzesco: si sta tornando al lavoro a cottimo; le partite iva soffrono terribilmente; ci sono esternalizzazioni illegittime; adesso c’è la questione della regolamentazione seria del lavoro a distanza, dove si accusano i lavoratori di disorganizzazione per limitarne i diritti e via dicendo. Cosa pensate voi di questo avvicinamento da parte dei lavoratori di altri settori e c’è l’idea, la possibilità di poter fare in quei settori quello che avete fatto voi qui? CdF: Innanzitutto, cerco un po’ di rivisitare il senso delle date di lotta che noi abbiamo portato avanti fin qui. Il 9 luglio ci chiudono; noi, domenica 11 luglio, facciamo qua davanti alla fabbrica un primo corteino, dove arrivano un migliaio di solidali, lo facciamo da rotonda a rotonda, togliamo lo striscione la ‘GKN non si tocca’ e per la prima volta mettiamo lo striscione ‘#INSORGIAMO’, perché il messaggio era che quello che stava accadendo a noi non poteva essere considerato come un punto singolo, ma come una condizione più generale del mondo del lavoro. Poi, il 19 luglio, c’è lo sciopero generale provinciale, che era dovuto perché era subito la risposta a caldo, ma anche lì noi ci tenevamo a specificare che non poteva essere, né la nostra lotta né tutto il processo, concluso in un solo atto. Tant’è che sentiamo subito il bisogno, con una scommessa tremenda, di lanciare il 24 luglio un corteo nazionale, il sabato mattina di luglio, sotto il solleone, qua davanti, ed eravamo circa ottomila: l’abbiam chiamato con un video, non l’abbiam chiamato con nient’altro. Ed è lì che c’è quello che poi tanti hanno ritenuto – ma noi non ce ne rendevamo conto – il celebre discorso del “Voi come state?”, che era rivolto soprattutto ai settori lavorativi che voi avete nominato. Nel senso che noi avevamo bisogno di toglierci di dosso l’idea del povero operaio che è già spacciato, l’idea che quella fosse la classica vertenza che tanto c’è da sempre, a un certo punto arriva la deindustrializzazione, si sa, il lavoro industriale è superato e vabbè. Tra l’altro, in quel caso, c’era da dire una verità, cioè che noi in realtà non ci sentivamo deboli o sfigati. Noi sentivamo di avere una forza e dei diritti che purtroppo venivano attaccati anche perché attorno a noi tutti gli altri non ce li avevano. Infatti, ci siamo via via resi conto di una cosa. Eravamo a luglio, noi avevamo lo stipendio pieno fino al 22 settembre, perché secondo la procedura di licenziamento sei a stipendio pieno per 75 giorni, e quindi scoprivamo che in quella condizione comunque avevamo più certezze di quello che veniva a solidarizzare con noi e che c’aveva il contratto di una settimana o di quello che faceva il pezzo a cottimo, perfino del giornalista che ci faceva le domande. E quindi in realtà noi volevamo chiedere scusa a quel milione di posti di lavoro persi durante la pandemia, scusa a tutti quelli per cui non c’eravamo mobilitati prima, o meglio, noi ci siamo sempre mobilitati come azienda in solidarietà a tutti, ma chiaramente mai come se fosse una questione di vita o di morte e ci sembrava egoistico dire “ora che tocca a me, vi mobilitate tutti per me”. No. Ora che tocca a me, vi mobilitate per voi perché in realtà, purtroppo, io sono la punta avanzata di diritti che voi nemmeno più avete. AB: Peraltro – ed è qui la cosa assurda nel vostro caso – in un’azienda che tutto sommato andava bene, che lavorava bene, che aveva una produzione di alto livello, sia dal punto di vista finanziario che tecnico-professionale. CdF: Con 40 milioni di euro di investimenti negli anni precedenti. Quindi, hai proprio la sensazione che a quel punto, passata la questione GKN, già tu che non avevi diritti prima, non li puoi nemmeno più aspirare. Poi, tornando alle varie fasi della lotta, abbiamo fatto la manifestazione ad agosto, che invece era una manifestazione che si rifaceva più ai temi della Resistenza, per affermare un altro concetto importante, cioè che noi ritenevamo di avere alle spalle un periodo buio e che andava creato un moto di indignazione che la finisse con quel periodo buio. E poi c’è stato il corteo del 18 settembre, che invece era a pochi giorni dalle nostre lettere di licenziamento. Arriviamo quindi all’oggi, all’Insorgiamo Tour che ci porterà alla manifestazione del 26 marzo. Tutto questo per dire che noi in questi mesi abbiamo specificato che la nostra non era una vertenza solo per una fabbrica, e non era una vertenza della classe operaia industriale nel senso stretto del termine, ma era una vertenza che andava ben oltre e che anzi i primi settori a cui noi guardavamo erano proprio lavoratori e lavoratrici dell’arte, della cultura, dello spettacolo, dell’informazione che vedevamo come quei settori con i diritti più compressi. Abbiamo fatto un’assemblea anche con i giornalisti, intesa non come conferenza stampa, ma come assemblea con collaboratori e collaboratrici dell’informazione, e quello che purtroppo abbiamo notato è come questo settore, cioè tutto ciò che non è settore strettamente industriale, sia stato pervaso dall’idea che si tratta di un lavoro più leggero del nostro e quindi, in base al fatto che un lavoro più leggero è più appagante, sostanzialmente si sia utilizzato questo concetto per destrutturare questo tipo di lavoro, arrivando a non poter ragionare di orari, di salario, del fatto che devi fare una famiglia, del fatto che tu ti possa infortunare, del fatto che hai altri tipi di usura fisica e psicologica nel fare questo lavoro, altri tipi di costi. Per questo è un settore a cui, almeno noi, guardiamo con molto interesse e attenzione per creare una forma di unità. #INSORGIAMO – Manifestazione 18 settembre 2021 – Foto di Rosanna De Benedictis AB: Come si dice in questi casi, poi ognuno ha il suo, inteso come percorso di lotte da affrontare, di diritti da ottenere. E l’aspetto preoccupante, come sottolineavi tu, è proprio legato alla percezione, all’esempio che può dare la situazione creata contro di voi, perché se toccano voi – ovvero operai che portano avanti una produzione di alta qualità, che generano fatturati importanti per questa specifica azienda, in uno stabilimento che oltrettutto dava segnali di ripresa nonostante le ovvie difficoltà che negli ultimi due anni, causa pandemia, hanno investito tante imprese – allora si può solo immaginare cosa possa accadere in altre aziende, in altri settori, contro altri lavoratori. Quindi, da parte vostra è stato semplicemente bello vedere il modo in cui avete cercato di immedesimarvi nelle situazioni altrui. Potevate lottare solo per voi stessi, concentrandovi sui vostri punti di forza e cioè quegli aspetti, quei fatti che ho citato poco fa e che non giustificavano in alcun modo la chiusura dello stabilimento. Eppure, avete comunque deciso di mettervi nei panni anche di altri, avete cercato di allargare questa lotta a tutti e questo forse ha contribuito a quella grande partecipazione che c’è stata alle varie manifestazioni. Non parlo solo dei sindacati, delle sigle, delle associazioni, delle istituzioni o anche di chi semplicemente è venuto a “mettere il cappello” e così via; parlo proprio dei tanti ragazzi e delle tante ragazze che, come noi, lavorano nell’informazione, nella cultura, nello spettacolo o anche solo di chi semplicemente credeva e crede sia giusto fare questo percorso insieme. Questo già ti dà la dimensione di quello che ha siginificato il Collettivo di Fabbrica. Tornando però alla vostra condizione, abbiamo riepilogato un attimo quello che è successo nei mesi scorsi e si arriva oggi (1° febbraio 2022, ndr), ovvero a quello che apparentemente è un punto di svolta. C’è una nuova società, la QF del Gruppo Borgomeo, che ha un nome molto sloganistico ma anche poca sostanza2. Qual è adesso la situazione? CdF: Riallacciandomi un po’ a quello che hai detto, noi non abbiamo allargato il movimento solo per empatia, solo per solidarietà ma anche per una funzione strettamente pratica. Voglio dire che sin dall’inizio, sin da quando abbiamo visto quel cancello chiuso il 9 luglio, noi ci siamo resi conto che le possibilità di vittoria erano veramente risicate, che tutti prima di noi avevano perso e che noi non potevamo esorcizzare questo punto nascondendolo, facendo finta che non ci fosse. Quindi abbiamo detto banalmente la verità e cioè che per vincere una vertenza come questa, dovevi invertire così tanti processi sociali, che lo potevi fare solo con un movimento generale, perché dietro alla nostra chiusura c’è la finanziarizzazione dell’economia, c’è la mancanza di una politica industriale, c’è l’automotive che va a pezzi, c’è una strumentalizzazione da parte di Confindustria, del Sole24ore, di settori dell’economia, della transizione climatica. Ci sono così tante cose che per tenere aperta la fabbrica avresti dovuto imporre a Stellantis di non disimpegnare dall’Italia e quindi fare una cosa che lo Stato italiano non ha mai fatto, cioè dire a Fiat3 cosa deve fare, definire la sua politica industriale. Forse avresti dovuto addirittura nazionalizzare, rendere pubblica l’azienda in caso non fosse arrivato un compratore, cioè avresti dovuto veramente fare un rivoluzione. #INSORGIAMO – (Ex) Stabilimento GKN Driveline Firenze a Campi Bisenzio – Foto di Andrea Biagioni AB: Ribaltare il tavolo. CdF: Sì. Ad oggi comunque, il bilancio è questo: siamo riusciti, come dire, attraverso i rapporti di forza che abbiam sviluppato, ad ottenere l’accordo sindacale migliore possibile, che tanti non sono mai riusciti a ottenere. Purtroppo però, questi sei sette mesi non si sono rivelati ancora sufficienti a ribaltare completamente questi rapporti. E quindi cos’è successo? A un certo punto hanno visto che non riuscivano né a portare via i macchinari né a licenziarci, perché era troppo forte la resistenza, ed è arrivato un privato che ha acquistato le quote dell’azienda. Questo vuol dire che a me non è cambiato apparentemente nulla, perché io sono sempre lo stesso libro matricola Inps, ho sempre le stesse ferite, lo stesso Tfr e gli stessi “diritti”. Il mio posto di lavoro è lì. Al contempo hanno ritirato i licenziamenti, ma hanno anche portato via questa azienda dalla filiera produttiva dell’automotive e questo significa che questo stabilimento, questa “azienda” attualmente non produce nulla. Noi abbiamo macchinari nuovi che non servono più a nulla, probabilmente andranno venduti, non si sa dove, forse alla stessa Melrose Industries, quindi verranno delocalizzati dolcemente, portati via, lontano. AB: Con un guadagno loro magari. CdF: Eh, chi ci guadagna non è molto chiaro in tutta questa operazione, ma qualcuno ci guadagnerà. Di certo troveranno il modo di guadagnarci. In tutto questo, noi siamo riusciti semplicemente a fare un accordo che comunque è rivoluzionario – anche se in un’ambito sindacale e non socialeeconomico diciamo – dove si stabiliscono dei tempi certi; la continuità occupazionale dei diritti, quindi chiunque verrà ad acquistarci per reindustrializzare dovrà sempre garantire gli stessi posti di lavoro, gli stessi diritti; e qualora entro agosto questo nuovo compratore – perché QF è solo intermediario per vendere a un nuovo compratore – non dovesse arrivare, QF deve reindustrializzarci chiedendo l’intervento del capitale pubblico. E noi abbiamo creato una commissione di proposte di verifica territoriale, quindi un organismo di politica industriale che non esiste da nessuna parte, dove noi abbiamo diritto di proposta e di verifica. Quindi, se un domani questi processi di reindustrializzazione non arrivassero, noi abbiamo diritto di convocare questa commissione di fronte alle istituzioni e alla proprietà e di proporre i nostri piani industriali. Detto questo, c’è un però: noi staremo mesi e mesi in ammortizzatore sociale, quindi con un taglio sul nostro salario, e nell’incertezza, perché comunque verremo tutti ricollocati in un’azienda che ancora non esiste. Capite bene che questo meccanismo, fatto apposta secondo noi – comunque anche se non è fatto a posta quello è l’effetto – di determinare licenziamenti che noi chiamiamo “spintanei”: cioè sono spontanei, perché la gente sta dando le dimissioni volontariamente, perché ovviamente se tra due anni e dopo due anni di cassa integrazione verrai ricollocato in un’azienda che forse ancora non esiste, qualsiasi cosa trovi oggi, è preferibile a questo. AB: Allo stipendio decurtato. CdF: Esatto. Quindi, quello che sta succedendo è che qua, piano piano, da 422 tra lavoratori e lavoratrici, siamo passati per esempio a 350 e questo meccanismo apparentemente è deresponsabilizzante, perché l’imprenditore è buono, non licenzia nessuno; noi organizzazioni sindacali non s’è firmato i licenziamenti e chi se ne va, lo fa con dimissioni volontarie. Però a questa cosa noi non ci stiamo. Tant’è che nell’accordo abbiam fatto mettere che qua, in ogni caso, si dovranno ricreare 370 posti lavoro. Vuol dire che se anche tutti i lavoratori di GKN, me compreso, trovassero il lavoro della vita, il posto di lavoro rimane comunque un concetto territoriale e non individuale: qua c’erano 370 posti di lavoro, o meglio 422 che poi sono diventati in realtà 370 al momento dell’entrata di QF prima che Melrose li distruggesse, e 370 ci dovranno essere. Che siano nostri o che siano di qualcun altro non importa, devono essere del territorio. Ma proprio perché siamo riusciti ad arrivare solo fino a un certo punto, sindacalmente parlando, ed è il contesto sociale e politico che va cambiato, noi rilanciamo la lotta. Per questo, faremo una mobilitazione a marzo, che questa volta non è giustificata da un’emergenza, perché non ci sono licenziamenti sul tavolo, ma c’è comunque un Paese da cambiare. Saremmo ipocriti, egoistici se ci mobilitissimo solo quando ci sono i licenziamenti e l’emergenza e non ci mobilititiamo più ora che non c’è l’emergenza. Alla fine, quando loro ci hanno preso alla sprovvista il 9 luglio, abbiam detto: ” È un mondo che ha determinato i nostri licenziamenti. I nostri licenziamenti sono una delle tappe di questo mondo” e questo continua. Anzi… Ecco, vi ho riassunto a che cosa servivano le varie manifestazioni, per dirvi che quella di marzo serve a uscire dall’emergenza. Serve a dire: “Noi oggi ci mobilitiamo perché ci sono delle cose da cambiare, non perché c’ho il licenziamento sul groppone”. (Continua…) #INSORGIAMO – Manifestazione 18 settembre 2021 – Foto di Rosanna De Benedictis 1 GKN Driveline (oggi GKN Automotive) è una divisione della multinazionale britannica GKN, leader globale nella realizzazione di componenti per il settore automobilistico. Nel 2018, il fondo di investimento finanziario Melrose Industries PLC ha acquisito il gruppo GKN e, di conseguenza, furono assorbiti anche GKN Driveline e relativi stabilimenti, compresi i due italiani: quello di Brunico in Alto Adige e quello di Firenze, trasferito dal 1996 a Campi Bisenzio con il passaggio da Fiat a GKN. In sostanza, l’obiettivo di Melrose Industries è una ristrutturazione finanziaria, che prevede il taglio delle spese ritenute “inutili” per aumentare il valore dell’azienda e vendere al prezzo più alto possibile. Ciò significa anche chiudere gli stabilimenti ritenuti meno redditizi e delocalizzare la produzione dove le condizioni di tassazione, manodopera, ecc. sono più vantaggiose. Questo è avvenuto non solo per lo stabilimento di Firenze, ma anche per quello storico di Erdington, nei sobborghi di Birmingham, dopo 70 anni di attività produttiva. 2 QF starebbe infatti per Quattro F – Fiducia nel Futuro della Fabbrica di Firenze. Il gruppo è guidato dall’imprenditore Francesco Borgomeo, esperto – almeno così pare – in salvataggi aziendali e riconversioni industriali, puntando sull’economia circolare. Era stato scelto proprio da Melrose Industries come advisor per cercare soggetti interessati a rivelare lo stabilimento di Campi Bisenzio ed impegnato nel progetto del cosiddetto “ecodistretto ceramico” del Lazio Sud che coinvolge la Saxa Gres. 3 Stellantis N.V. infatti è la holding nata il 16 gennaio 2021 dalla fusione dei gruppi PSA (Peugeot S.A.) e FCA (Fiat Chrysler Automobiles). Quest’ultima comprende al suo interno Fiat, Chrysler, Abarth, Ram Trucks, Jeep, Lancia, Alfa Romeo e Maserati. Circa l’80% della produzione di GKN Driveline Firenze – composta principalmente da semiassi e giunti omocinetici – era destinata a questi marchi, mentre il restante 20% era destinato a Mercedes, Bmv, Audi, Land Rover e Ferrari, la quale ha lo stesso presidente di Stellantis, ovvero John Elkann.... Read more...Tre momenti di Palahniuk, un articolo di M. Barucci || THREEvial Pursuit9 Marzo 2022Tre momenti di Palahniuk di Marco Barucci Le molteplici sfaccettature che caratterizzano la personalità di Chuck Palahniuk sono così disparate da renderlo uno degli autori contemporanei più amati. Un autore molto apprezzato e molto discusso, sul suo conto sono stati spesi litri di inchiostro accostandolo spesso a mostri sacri come Welsh e Ellis, ai quali, per sua stessa affermazione, si ispira. Se ci si allontana dalle pagine dei suoi libri e ci si avvicina al personaggio, si scopre che è ben lontano dall’essere simile a uno qualsiasi dei suoi personaggi più malati e oscuri. Le sue storie sono cariche di violenza, sesso, psicosi e morte. Negli ultimi anni però, oltre ad aver pubblicato un manuale di scrittura dal titolo Tieni presente che, ha anche aperto un profilo sulla piattaforma Substack, una sorta di ibrido tra blog e newsletter, dove previa sottoscrizione di un abbonamento si ha accesso a consigli sulla scrittura, workshop, lezioni, condivisione di tutti i contenuti caricati dall’autore. Chuck sta persino caricando un capitolo a settimana del suo ultimo lavoro ancora non pubblicato. In tempi come questi, in cui i social danno modo a tutti di poter esprimere la propria opinione, spesso non richiesta, e quasi sempre senza cognizione di causa, l’autore di Fight Club ha trovato un modo molto apprezzato per stare vicino e avere un contatto con i suoi fan. Come diceva Carlos Ruiz Zafón, “i libri sono specchi: riflettono ciò che abbiamo dentro”. Se ne deduce che, oltre alle nostre esperienze di vita, la nostra formazione e la nostra educazione, ciò che leggiamo va a costituire la nostra personalità. Ma questo ci basta a darci gli strumenti adatti per giudicare fatti straordinari? Molte volte capita che avvenimenti di cronaca che sentiamo in televisione o leggiamo sul giornale vengano percepiti da noi come lontani, e non possiamo essere mai sicuri di come potremmo reagire se li dovessimo toccare con mano all’interno della nostra vita. Questa premessa era necessaria per poter analizzare tre momenti importanti nella vita di Chuck Palahniuk. Primo Momento Chuck è molto legato ai nonni materni tant’è vero che in seguito al divorzio dei genitori vive lunghi periodi nella loro tenuta. I nonni paterni invece non li ha mai conosciuti. Ne scopre il motivo intorno ai diciotto anni quando suo padre Fred decide di raccontargli la verità. Fino a quel momento Chuck era convinto che fossero morti di difterite. In realtà la storia è molto diversa e inizia quando il padre di Chuck ha solo quattro anni. I genitori stanno litigando per l’acquisto di una macchina da cucire. Al culmine dell’alterco il piccolo Fred sente uno scoppio e da quel momento non sentirà più la voce di sua mamma. Mentre i dodici fratelli e sorelle scappano nel bosco lui si rintana sotto al letto. A quel punto il padre inizia a chiamarlo urlando. È rannicchiato più che può, paralizzato dalla paura, finché dal suo nascondiglio vede gli stivali del genitore e la punta di un fucile fumante. Lo sta cercando per uccidere anche lui. Dopo qualche attimo preso dalla frustrazione, rivolge l’arma verso di sé e si toglie la vita. Chuck, a distanza di anni, in un’intervista commenta così la vicenda: “Sono rimasto piacevolmente sorpreso da quello che è successo, sembrava una cosa affascinante che accadeva a una famiglia altrimenti piuttosto noiosa”. Questa sua risposta mi ha rimandato alla mente un verso di Invisible Monster, uno dei suoi romanzi che recita così: Tutto quello che fa Dio è guardarci e ucciderci quando diventiamo noiosi. Non dobbiamo mai e poi mai essere noiosi. Secondo Momento È il 1999, l’anno in cui esce Fight Club al cinema. Chuck è in contatto con una certa Frieda. La donna era addetta a rasare Brad Pitt per girare alcune scene. Le chiede di poter avere quei capelli da allegare ai biglietti di auguri. Purtroppo Frieda si scorderà di conservarli per lui, così Palahniuk dovette ripiegare tosando il golden retriever di un suo amico. Era elettrizzato, il lavoro di una vita aveva raggiunto il grande schermo con un prodotto pieno zeppo di grandi nomi. Qualcuno però in quei giorni si era messo in contatto con lui, lo sceriffo di una contea nell’Idaho. Era stato convocato per fare il riconoscimento di un corpo carbonizzato. Avevano buone ragioni di credere che si trattasse del padre Fred. Inizialmente lui e i suoi fratelli pensavano a uno scherzo, ma le impronte dentali da loro fornite, confermarono il peggior scenario. Suo padre era stato ucciso con un colpo di pistola e poi bruciato vivo fino a che di lui non era rimasto che un mucchietto d’ossa. Il colpevole fu identificato in un tale di nome Dale Shackelford e l’agghiacciante dinamica emerse nel corso del processo a suo carico. Si scoprì che il padre di Chuck aveva risposto a un annuncio per cuori solitari messo da una donna che si faceva chiamare Destino. La donna aveva ricevuto pesanti minacce dal suo ex marito, Dale Shackelford appunto, promettendole di ucciderla se l’avesse mai trovata insieme a un altro uomo. Destino, il cui vero nome era Donna Fontaine ricevette cinque risposte al suo annuncio. Tra questi cinque uomini scelse Fred Palahniuk. I due si conoscevano da due mesi quando durante il loro terzo appuntamento quando Shackelford li seguì fino a casa di Fred, sparò a lui nell’addome e a lei alla base del collo. Tornò nell’abitazione diverse volte dopo aver commesso il crimine, poi decise di bruciare i cadaveri per cancellare ogni traccia. Dopo questo fatto, Chuck iniziò la stesura di Ninna nanna, un romanzo che parla di una filastrocca in grado di uccidere chiunque la ascolti. Una sorta di Death Note. Uno stratagemma in grado di conferire in chi lo utilizza, i poteri di un dio e di decidere chi è meritevole di vivere e chi di morire. Scrivere Ninna nanna gli servì ad esorcizzare e a superare quanto era successo. Affrontare ed elaborare quella rabbia che voleva la morte dell’assassinio di suo padre. Shackelford fu condannato a morte per omicidio di primo grado. Un mese dopo Palahniuk termina la stesura di Ninna nanna. Terzo Momento Dopo tre anni di riposo, passati sotto Zoloft, Chuck realizza cosa è successo quel giorno: “I primi ricordi di mio padre sono di lui nascosto sotto al letto con suo padre che ha appena ucciso sua madre. Dopodiché è sempre stato un uomo in cerca della madre. Infine trova questa donna e ancora una volta un uomo con un’arma da fuoco la uccide. Poi lo uccide. In un certo senso non posso fare a meno di ammirare la forma di questo perfetto completamento di una cosa iniziata molto tempo fa. Trovo conforto in questo. Che le cose accadano per una ragione e secondo uno schema”. Ed è qui che ci si trova di fronte alla costante deviazione e cifra stilistica definitiva del suo lavoro narrativo. Palahniuk non inventa nulla. Certamente non è in grado di cancellare niente di ciò che accade. L’unica cosa che può fare e dare a queste cose un senso. O almeno provarci. In Ninna nanna ci si immerge nella capacità del protagonista di scegliere e di agire in base a ciò che lui ritiene sia giusto fare. Attraverso un’autoanalisi che passa inevitabilmente dalla rabbia che colpisce l’animo umano nel voler eliminare la persona che ci ha arrecato sofferenza. “Io ero vegetariano, contro l’uccisione superflua di esseri viventi, e al tempo stesso volevo che quel tipo morisse”. Non si oppose alla sentenza di morte inflitta a Dale Shackleford. Tuttavia (Allerta Spoiler) Carl Streator, il protagonista di Ninna nanna non esercita il suo potere di uccidere le persone che avrebbe voluto eliminare. In un’intervista del 2020, Chuck afferma che a distanza di dieci anni si opporrebbe alla condanna a morte dell’assassino di suo padre. “Non penso che farei lo stesso. Ma nel 2001 ero in mezzo… al peggio… Non credo prenderei la stessa decisione, adesso. Può suonare strano, ma l’uomo che ha ucciso mio padre è l’ultima persona che lo ha visto vivo e in un certo senso sento che lui è una delle vere ultime connessioni che ho con mio padre e se avessi una possibilità di parlare con lui potrebbe raccontarmi come sono stati gli ultimi momenti della sua vita. Se fosse vivo, spero mi racconterebbe come è morto papà”. Eventi straordinari in grado di segnare le vite delle persone, ma che sono difficilmente giudicabili da chi non le ha vissute. Attraverso la scrittura e la rielaborazione del fatto, guardandolo attraverso un processo di analisi da più punti di vista, in cui al centro del percorso ci siamo solo noi, con il nostro dolore, tutto ciò che si può fare è provare a dare un senso, provare a collocare quell’avvenimento nel punto giusto, senza giudizio, senza volerlo cambiare o eliminare. Questo è quello che ha fatto Palahniuk di fronte a un grande dramma della sua vita.... Read more...C4 Explosion, un racconto per immagini di L. Sieni || THREEvial Pursuit23 Febbraio 2022C4 Explosion Un racconto per immagini di Lisa Sieni È stata una serata incredibile. Un vortice di emozioni abbacinante è esploso poco dopo le 16 in via Celso 12r: C4 – Centro di Contaminazione Creativa e Culturale è ufficialmente nato, anche se dobbiamo ancora rendercene bene conto. Anni e anni ad aspettare questo momento, ospiti di locali, spazi occupati, librerie e pub. Due anni di attesa e lontananza dagli eventi. Anni spariti in una serata. Come abbiamo già scritto a caldo sui social pochi giorni fa, trovare le parole per raccontare quello che è successo venerdì non è facile, forse perché abbiamo ancora nelle orecchie il sibilo dell’incredibile esplosione che ci ha travolto. Un’esplosione che sognavamo ma che non ci aspettavamo potesse essere così potente, anche se ci speravamo. Un’esplosione fatta di creatività e condivisione, l’unica che accettiamo e divulghiamo e soprattutto, l’unica che un mondo civile dovrebbe accogliere. La vostra affluenza, cari soci, è stata enorme. Un’ondata di affetto, auguri e complimenti che ci ha rinfrancato e responsabilizzato ulteriormente. Dovremo infatti ripagare il riconoscimento che ci avete riservato con ancora più impegno e carica, offrendovi una programmazione e una cura dello spazio adeguata alle aspettative. Quindi vi chiediamo ancora un attimo di pazienza mentre ultimiamo e prepariamo gli eventi di marzo, in attesa delle prima riunione collettiva di programmazione: per chi ancora non lo sapesse, infatti, vogliamo che questo spazio sia aperto e inclusivo verso qualsiasi idea abbiate da presentare. Per questo programmeremo un incontro mensile in cui tutti voi possiate presenziare e dire la vostra sulla direzione da far prendere a C4. Quindi se avete progetti, proposte, iniziative che necessitano di una casa… noi saremo qua. Vi ricordiamo infatti, che lo spazio sarà aperto dal lunedì al venerdì in orario 9.30-19. Inoltre, fino al 7 marzo sarà ancora possibile ammirare la mostra composta dalle 29 opere che hanno inaugurato lo spazio. Basta essere nostri soci e se non lo siete, non dovete fare altro che diventarlo, cliccando qui. Per il momento, chiunque può ripercorrere insieme a noi i meravigliosi momenti vissuti venerdì scorso in occasione di C4 Explosion, grazie al racconto per immagini della serata realizzato da una delle nostre più giovani e talentuose collaboratrici, Lisa Sieni. All photos are intellectual property of Lisa Sieni... Read more...Tampone positivo, un articolo di A. Maglione || THREEvial Pursuit9 Febbraio 2022Tampone positivo Le varie fasi della quarantena vissute dopo aver preso il Covid-19 di Alessia Maglione Allora regà, parliamoci chiaro. Ad oggi, anno 2022, se non hai preso il Covid sei categoricamente out. Cioè, ormai dire di essere stato positivo al Coronavirus almeno una volta nella vita è diventato uno status quo, un modo per renderti parte di quella immensa comunità che almeno quelle due settimane di quarantena, sperando nell’esito negativo del fatidico tampone molecolare, se l’è fatte. E siccome anch’io faccio parte di questo gruppo di disperati, ho deciso di descrivere qui le varie fasi che un individuo positivo al Covid-19 vive nell’attesa di poter ritornare in libertà. Un po’ perché sono curiosa di sapere se anche qualcuno di voi le abbia vissute come me, un po’ per mostrare ai profani che non hanno subito questo strazio cosa potrebbe aspettarli. Nota bene: siccome viviamo nell’epoca della polemica mediatica facile, questo articolo vuole essere solo un modo satirico per scherzare su una condizione che ha accomunato molti, soprattutto negli ultimi mesi. Non vuole trattare in maniera superficiale chi ha veramente sofferto a causa di questa pandemia, né chi continua a lottare e ad averci a che fare ogni giorno. Fase 1: la scoperta Ti svegli con qualche sintomo influenzale: tosse, febbriciola, raffeddore, dolori muscolari. “Porca puttana lo sapevo che non dovevo andarci a casa di Gigi l’altra sera che sicuro c’ho avuto il contatto con il positivo, o il contatto di un contatto, o il quasi contatto con il contatto del contatto”. Ecco quello che pensi subito al minimo segno della malattia. E insomma, ormai non importa che tu sia un leone o una gazzella, l’importante è che al minimo sospetto, ti vada a fare un tampone. Per ovviare a ogni dubbio, per risparmiare tempo ed evitare inutili attacchi di panico, la cosa più semplice è comprare quello fai da te preso in farmacia con il bugiardino scritto in 78 lingue e con il rischio di farti un buco al cervello perché “chi lo ha mai fatto un tampone in vita sua”. E mentre sviluppi improvvisamente una laurea in medicina ecco che esce subito il responso: le due tacchette rosse. Panico. Considerando che questi test parrebbero essere anche poco affidabili (come dice un amico medico che ci ha condotto uno studio sopra), se risulti positivo con quello vuol dire che non hai proprio scampo. Resti a fissare quel bastoncino che pare quello dei test di gravidanza come un coglione finché non realizzi di essere terribilmente fottuto. E adesso? Fase 2: l’organizzazione Una volta appresa la cosa, ci sono due scenari possibili che si possono verificare. Se vivi da solo tutto a posto, al limite devi organizzarti con la spesa per non morire di fame, ma fondamentalmente non devi rendere di conto a nessuno. Rimani isolato tipo santone su un eremo, ma alla fine che ti frega la casa è tua e ti devi solo preoccupare ti mantenerla un minimo decente durante il periodo di reclusione. Al massimo finisci col parlare con oggetti che diventano i tuoi migliori amici, dato che tutti i tuoi amici reali o lavorano mentre tu stai a non fare una ceppa a casa, o comunque non possono venirti a trovare. Per il resto la vita scorre relativamente tranquilla, a parte il rischio di un esaurimento nervoso. Il problema reale è organizzarsi nel momento in cui vivi con altre persone, che appena apprendono la notizia di avere un positivo in casa iniziano ad armarsi di alcol, guanti, mascherine, disinfettanti di ogni tipo. “È una catastrofe, come facciamo?” Senza contare che quei poveri cristi dei tuoi coinquilini Soprattutto perché quei poveri cristi che vivono con te, saranno costretti a farsi la quarantena esattamente come te. E non vi dico quanto questa cosa li può far rosicare. Le famiglie si sfaldano, le amicizie si distruggono, gli imperi crollano. E nel frattempo tu vivi oscillando tra il senso di colpa da coglione che è riuscito a prendere il Covid non si sa come, e l’angoscia di non sapere quando tutto questo finirà. Che poi alla fine finisce eh, ci vuole solo un po’ di pazienza. Fase 3: la gestione del proprio tempo Se puoi lavorare da casa la vita sembra fantastica: puoi farlo in pigiama tutto il giorno, fare le pause in tranquillità, muoverti liberamente per casa. Una figata. Peccato che lavorare da casa col Covid significhi lavorare. E basta. Non è che puoi dire “che bello per oggi ho finito, vado a bere qualcosa con gli amici”. Puoi farlo, se consideri il letto come tuo unico amico. Mettiamo invece che non lavori o sei disoccupato, o fai un lavoro che non può essere svolto da casa. Nel primo caso inizi a pensare di poterti dedicare alla lettura, al disegno, la meditazione, l’esercizio fisico, ai tuoi hobby che avevi messo da parte perché non avevi abbastanza tempo, insomma puoi fare un sacco di cose e godere di un po’ di sana solitudine. Superata la fase del crollo emotivo dei conviventi, il fatto di essere positivo al Covid non sembra poi così male. Nel secondo caso, invece, i principali personaggi che incontriamo in questo scenario sono: Il datore di lavoro, quello che va in ansia perché deve far fare i tamponi a tutti quelli che sono stati a contatto con te negli ultimi giorni, col rischio che tutto il suo impero si blocchi e per una settimana non possa andare a lavorare nessuno;i colleghi, anch’essi suddivisibili in due categorie, quelli del fottesega spero di essere positivo così sto a casa, e quelli ipocondriaci, che faranno fare il tampone a se stessi, ai figli, agli amici e pure al gatto e al cane;il medico di base, quello irraggiungibile, quello che se lo chiami quattrocento volte al giorno non ti risponde e pure che lo fa devi sperare che faccia il suo lavoro e ti mandi il certificato di malattia in tempi brevi;l’INPS. Qui credo che non serva aggiungere altro. Possiamo però confermare che in tutti e tre i casi, – se si è anche solo pensato di dedicare del tempo a se stessi e alle proprie passioni, lavoro o no – in tutti e tre i casi insomma, questo slancio iniziale avvenga solamente il primo giorno. Dal secondo in poi Netflix sembra essere la tua unica salvezza. Divori puntate di serie tv che non pensavi avresti mai guardato in condizioni normali. Vivi di cibo spazzatura, vergogna e rimpianti per tutto quello che avresti potuto fare e che non farai mai. Perché la verità è una sola: pensi solamente di essere positivo al Covid, i sintomi influenzali ti sono passati, vuoi uscire e non puoi farlo. La vita fa schifo. Fase 4: la rassegnazione Ecco che infine, alla seconda settimana di quarantena, dopo che sembrano trascorse molte lune, arriva lei, la rassegnazione alla ormai innegabile verità, Che ormai la tua vita sarà quella: mangerai da piatti di plastica, vedrai scorrere le tue giornate dalla finestra e diventerai un incrocio tra Smigol del Signore degli anelli e Sheldon Cooper di Big Bang Theory, ignorato anche dal tuo stesso medico, il tuo unico ormai amico e che può tirarti fuori da questa situazione prescrivendoti l’ennesimo tampone molecolare. Alla fine però, quando tutto sembra ormai perduto, quando ormai hai progettato cose incredibili, tipo un modo rivoluzionario per terminare la costruzione del ponte sullo stretto di Messina, arriva lui: l’esito del tampone negativo. E tutta questa storia sembra ormai solo un vago ricordo, assapori finalmente di nuovo la libertà, respiri a pieni polmoni quell’aria piena di smog e cemento che tanto ti mancava, per poi pensare che forse quella serie la vorresti finire di vedere, ma che “va beh ormai esco domani, fottesega oggi non c’ho voglia esce sta roba nuova su Netflix sto a casa e nei prossimi giorni si vedrà”.... Read more...Contrabbando culturale, intervista a Contrabbandiera Editrice || THREEvialPursuit26 Gennaio 2022Contrabbando culturale Intervista a Contrabbandiera Editrice di Simone Piccinni e Niccolò D’Innocenti …e niente, sarà la quarta volta che proviamo a scrivere questo maledetto cappello e ancora un grande nulla. Non ci siamo riusciti in pausa pranzo, non ci siamo riusciti dopo lavoro, non ci siamo riusciti né di sabato né di domenica. Il perché? Perché ancora una volta abbiamo avuto la brillante idea di intervistare dei nostri amici, cosa molto più difficile di quando si possa credere. Passare da lecchini o marchettari è un attimo. Ma allora come fare a trasmettere senza stranezze quello che degli amici fanno molto bene?Comunque amen: li abbiamo registrati, quindi saranno anche cazzi loro di quello che hanno detto, no? E poi qui non si parla semplicemente di amici, ma di collaboratori: anche perché – spoiler alert – a breve saranno nostri coinquilini nella sede che Three Faces sta creando.Quindi bando agli indugi ed ecco a voi Contrabbandiera Editrice. TF: Facciamo finta di non conoscerci: chi siete e come nascete? Marco Tangocci: Contrabbandiera editrice è un progetto editoriale, o meglio una casa editrice, nata un paio d’anni fa da me, Andrea, Davide e Federico. Poi a noi si è aggiunta Giada Ionà, che cura le grafiche, e tanti altri amici intorno. È nata in modo quasi naturale a partire da quelle che sono le nostre esperienze pregresse: tutti noi fondatori usciamo dagli studi in lettere e abbiamo alle spalle, a vario titolo, delle esperienze di autopubblicazione, o comunque da lavori nell’ambito dell’organizzazione di eventi letterari, spesso realizzati nei circuiti indipendenti. Abbiamo incentivato, promosso e spesso praticato noi stessi l’autoeditoria, e fin dagli inizi organizzato e animato il fiorentino Festival di Letteratura Sociale. Abbiamo intessuto una serie di rapporti con altre realtà della città nella quale viviamo, tra i quali ci siete ovviamente voi di Three Faces… Insomma, dopo tutte queste esperienze ci è sembrato quasi naturale portare il tutto a compimento dando forma a una casa editrice vera e propria che ci permettesse di continuare a fare quello che già facevamo, ma con in più la possibilità di avere codici Isbn e una potenzialità di divulgazione maggiore a quella che il circuito dell’autoproduzione ci aveva dato fino a quel momento. TF: La partecipazione e l’attivismo in occupazioni e centri sociali secondo voi ha accelerato questo processo? Andrea Simoncini: Sicuramente: ci siamo conosciuti e affiliati lì, sia tra di noi che con le realtà con cui collaboriamo, quindi sì. Non solo tramite il Festival di Letteratura Sociale ma in un po’ tutte quelle occasioni nate negli ambiti di occupazione e autogestione, nei centri sociali e negli ambiti di attivismo che tutti noi abbiamo frequentato. Ambiti dai quali abbiamo preso le mosse anche nel campo dell’editoria, almeno per come la intendiamo noi. Il motivo per cui scegliamo quali libri pubblicare è anche dettato dal nostro background di attivismo politico e culturale. TF: Approfondiamo questo punto: qual è la vostra linea editoriale e come selezionate i testi da pubblicare? AS: Facciamo uno scouting molto selettivo, anche perché non abbiamo le possibilità economiche di una major: prendiamo una parte delle suggestioni dal mondo dell’attivismo politico che abbiamo intorno, con alcuni testi di natura militante, ma è altrettanto vicino a noi il mondo della street art per esempio, che ci ha permesso di incontrare Mīlĕs e iniziare con lui la nuova collana di libri illustrati inaugurata dal suo Pinocchio. Il legno e la carne. Questa è un po’ la base della nostra linea editoriale.Un altro ramo è la ricerca di classici che, non avendo più diritti d’autore, possono essere ripubblicati: lì invece si parte da una disamina puntigliosa sugli scaffali. Da lì nasce la collana dei Brigantini, piccoli taccuini artigianali particolarmente curati nella loro materialità, che va di pari passo alla ricerca raffinata del testo. I primi due sono stati raccolte di poesie di Pavese, il terzo è stato “Animali” di Gramsci, ovvero una raccolta di lettere inviate ai figli, Delio e Giuliano.Davide Di Fabrizio: Per approfondire un po’ sui Brigantini… come diceva Andrea sono dei piccoli taccuini artigianali 10×14 cm con un massimo di 40/50 pagine realizzati da Ocra Stamperia di Firenze: una cosa local, lavorata a mano e con amore. Artigianalmente anche per il lato editoriale, per come sono stati pensati a livello ideologico: il brigantino era questo veliero di piccole dimensioni utilizzato dai corsari nel Quattrocento/Cinquecento. Nel Mediterraneo imperversavano queste imbarcazioni che avevano come scopo quello di viaggiare veloci per andare a depredare i grandi mercantili. Il senso da cui parte la collana dei Brigantini è un po’ il riappropriarsi sia dei classici, sia dell’etimo positivo della parola: “brigante”. In realtà “brigante” viene da “briga”, nel senso di “compagnia”. Che può chiaramente essere una compagnia balorda, come la ciurma di pirati, ma che ha anche una brigata che non a caso, nelle cucine dei ristoranti, è semplicemente la squadra dei cuochi. Ecco quindi che, partendo dall’etimo del quale volevamo riappropriarci, nasce il Brigantino: un piccolo veliero editoriale che recupera testi con copyright scaduto. TF: L’avete menzionata appena, e noi vorremmo parlare del Pinocchio di Mìles, una pubblicazione che ci è molto piaciuta. Com’è nata l’idea e la scelta di abbinare ad una fiaba classica un elemento moderno come l’arte urbana? E, soprattutto, come mai l’assenza di testo? MT: L’idea è nata dall’amicizia e dalla reciproca stima lavorativa verso alcune persone, tra cui Mīlĕs, la Street Levels Gallery e ARTiglieria, che ha ospitato la mostra e la prima presentazione. L’origine è stata in un incontro tra noi, Gianluca Milli della Street Levels, e Mīlĕs: è stato proprio lui a esporci la sua idea di lavorare su una fiaba, che in origine doveva essere una dei fratelli Grimm. Fu Davide in quell’occasione a proporgli invece Pinocchio, perché riteneva il suo stile molto adatto. Oltre a questo, è una fiaba sulla quale sapevamo di poter dire tanto, anche a livello promozionale diciamo: sia perché è ambientata, o meglio scritta, a Firenze, sia perché tramite Firenze NoCost ne avevamo già studiato alcune parti. Ma la proposta della fiaba in sé è arrivata da Mīlĕs. Poi Pinocchio ha incontrato subito il suo benestare, non è stato neanche necessario riparlarne. Poi c’è stata la partecipazione di Street Levels Gallery fin dal primo giorno, ed è così che è andato strutturandosi il progetto. Questo vorrebbe essere il primo capitolo di una serie: non abbiamo ancora dato un nome alla collana, ma questo formato ci piace molto.Per quanto riguarda invece la decisione del farlo senza parole si è trattata di una scelta precisa di Mīlĕs. Inizialmente la nostra volontà era quella di accompagnare le sue visioni con il testo integrale, poi di accompagnare solo con delle didascalie o delle citazioni dei passi dai quali erano tratte le immagini… È stato Mīlĕs ad esser convinto di voler fare un silent book: si è reso conto che era giusto e necessario andare in questa direzione per cercare di rendere l’opera come una sorta di un grande sogno di Pinocchio. Sempre in questa direzione vanno gli sfondi bianchi ed eterei, tranne alcuni azzurri verso la fine, che trasmettono la dimensione eterica e onirica del sogno. L’autore poi voleva stimolare la libera interpretazione del lettore stesso, che tramite un processo ermeneutico può farsi suggestionare dalle immagini in maniera soggettiva. Per questo la scelta di fare un silent book che fosse fedele alla conosciutissima storia di Collodi ma che allo stesso tempo si discostasse dall’immaginario classico.Una cosa interessante poi è che è stato lo stesso Mīlĕs a scegliere le immagini della fiaba che più lo suggestionavano: per esempio il Grillo, che nella versione disneyana è molto presente, quasi centrale, nel nostro ha due sole tavole dedicate, di cui in una è morto impiccato. Oppure il piccione, o il pescecane al posto della balena, la bara, il Pinocchio col cappio al collo… alla fine è riuscito a renderla quasi più nera di una fiaba dei fratelli Grimm. Questo anche grazie al suo caratteristico tratto.TF: Volete parlare anche di un altro vostro cavallo di battaglia come Firenze NoCost? MT: Possiamo dire che è una pubblicazione venuta fuori prima di Contrabbandiera ma che poi vi è stata ricondotta nel momento in cui la casa editrice è stata fondata. È il nostro titolo più venduto e continua ad andare piuttosto bene in libreria.DDF: Io quando mi si chiede di Contrabbandiera un riferimento lo faccio sempre, più che altro perché il progetto Firenze NoCost è un libro che inizia ad avere un’età e che siamo orgogliosi di aver realizzato. Poi lo cito più che altro perché è stato molto utile nella storia di Contrabbandiera. È in qualche maniera il primo libro che abbiamo realizzato, insieme a Mahatma – Storia di un Intoccabile, quindi le nostre vite editoriali diciamo che sono nate da lì. Ma Firenze NoCost è stato il primo a creare la base di Contrabbandiera, nel senso che non era solo un libro ma una collaborazione tra chi ha creato il sito, chi ha fatto le grafiche eccetera. Quindi ha un po’ fondato quella che poi è la rete editoriale di Contrabbandiera. È stato fondamentale perché senza questo libro non avremmo intessuto rapporti fondamentali con le librerie di Firenze, che hanno potuto vedere a quel punto che eravamo sì dei cazzoni, ma dei cazzoni in grado di produrre robe valide e vendibili. È stato molto importante per il lato “commerciale”… anche se parlare di commerciale per un libro che si chiama Firenze NOCOST può sembrare un grande ossimoro…MT: Ci tengo a specificare che Firenze NoCost non si è basata su nessun rapporto commerciale fiduciario: lo abbiamo scritto seguendo solo il nostro gusto. Questa esperienza però ci ha permesso di entrare nell’ottica della distribuzione: ce lo siamo e ce lo stiamo distribuendo da soli. Grazie ad esso siamo entrati in rapporti con librerie e altre realtà, facendoci capire alcune dinamiche dell’autodistribuzione, cose che prima avevamo solo come intuizione… adesso ne sappiamo un po’ di più: quando Contrabbandiera è arrivata avevamo già questo pregresso che ci ha permesso di essere abbastanza avveduti nella distribuzione.TF: Avete accennato prima anche all’autoeditoria. Volete parlarci del vostro rapporto con questa pratica?MT: Beh, è un rapporto molto forte: prima ancora di creare il sito avevamo scritto una Guida all’autoeditoria, che è ancora online e che via via stiamo implementando. In futuro poi vorremmo rilasciarla in formato esteso e dedicarci anche degli eventi. In pratica è una guida che insegna come si può pubblicare un libro per i cazzi propri, senza passare per un editore. E abbiamo deciso di lasciarla in piena disponibilità sul sito anche al momento di diventare noi stessi editori, perché crediamo che la vanity press intesa come pubblicazione a pagamento e non come autoeditoria, sia il male assoluto: svilisce sia il ruolo di un buon editore sia il dignitosissimo e importantissimo impegno dell’autopubblicazione, che invece vogliamo continuare a incentivare e spingere. Anche tramite eventi e festival, cerchiamo di spronare questa pratica al massimo grado. Anche se, personalmente, ci imponiamo un forte scouting e pubblichiamo pochi titoli, spingiamo gli autori a pubblicare e a non piegarsi ai dettami del mercato, che sono poi quelli che spesso guidano l’editore stronzo o l’editore a pagamento. È un lato strano quello di voler spingere l’autoeditoria pur essendo editori, ma ci crediamo molto: dalla base e dal basso per sempre, avanti tutta!Un altro aspetto che ci teniamo a sottolineare è che noi basiamo molto di ciò che facciamo sul copyleft, che è una diversa forma di diritto d’autore, con licenza a favore del libero riutilizzo, e sul free download di tutti i contenuti che possiamo tramite il web. Crediamo molto in questo aspetto. I Brigantini infatti, per esempio, vogliono essere anche un inno all’assenza del diritto d’autore.TF: Bene, noi ne conosciamo alcuni, ma volete parlare un po’ ai lettori anche dei vostri progetti per il futuro?DDF: A livello editoriale abbiamo intenzione di continuare la strada tracciata dai Brigantini: il prossimo sarà di Antonia Pozzi, una poetessa fantastica, poi vedremo cos’altro ci rivelerà il mare. Oltre a questo pubblicheremo un libro di analisi politica. Poi abbiamo altro in cantiere, ma questi due sono quelli sicuri nel prossimo futuro.Soprattutto però, come prospettiva importante, c’è lo spazio che prenderete voi di Three Faces: è sempre stata un po’ un speranza, sostanzialmente, quella di prima o poi riuscire ad avere un luogo fisico. Che credo sia un po’ il sogno di tutte quelle realtà e di quei progetti che negli ultimi dieci anni hanno avuto la fortuna di realizzarsi anche senza avere un spazio fisico. Perché tanti bellissimi progetti artistici, editoriali e culturali ormai possono realizzarsi attorno a dei computer, però resta sempre il sogno di provare, per quanto ci siano costi importanti, di riuscire ad avere una realizzazione fisica che permetta di portare tutto a un altro livello. Ora sembra che questo si possa effettivamente realizzare grazie a voi di Three Faces, che siete riusciti a prendere un fondo nella zona di Rifredi, che è un quartiere leggermente fuori dal centro di Firenze ma che ci piace molto, rappresentando un volto che si sta rinnovando ma che fa parte della storia di questa città, con un taglio più popolare e meno mercificato. Quindi speriamo di potervi aiutare a portarlo avanti con le più disparate attività, che saranno ovviamente legate agli eventi, che è quello che ci piace fare, ma anche dove vendere libri e fare presentazioni e incontrarsi tra di noi e con il pubblico.MT: Anche e soprattutto per collaborare. Dal nostro punto di vista esistiamo perché esistono gli amici. Nel senso, esistiamo perché c’è una rete intorno a noi, nella quale stiamo da anni, e in cui conosciamo le persone e abbiamo dei rapporti di stima e fiducia artistica, culturale e nondimeno politica, che porta a far sì che si sappia con chi si vanno a fare le cose. E questo succede nella realizzazione di un libro, di una mostra, nella stampa materiale di un oggetto… oppure, ancora meglio, in progetti più duraturi e futuribili come può essere appunto l’inaugurazione di un luogo culturale, per di più in un quartiere con le caratteristiche che menzionava Davide. Questa è la benzina, il motore, l’anima… un qualcosa di imprescindibile senza il quale Contrabbandiera non avrebbe senso di essere. È dare un esito fisico a un processo che esiste da anni e siamo contentissimi di far parte di tutto questo: aderiamo al massimo grado. Se volete approfondire su Contrabbandiera editrice questo è il loro sito.Se invece volete saperne di più sulla nuova sede, C4 -Centro di Contaminazione Creativa e Culturale cliccate qui.... Read more...Marie Curie: la donna che cambiò tutto. Un articolo di S. Staderini || THREEvial Pursuit26 Gennaio 2022Marie Curie: la donna che cambiò tutto di Samuele Staderini Marie Curie nel suo laboratorio Immaginatevi immerse nell’autunno polacco, di vivere nella Varsavia della seconda metà del XIX secolo occupata dai russi e attraversata da movimenti nazionalisti e patriottici. Siete una giovane bambina, ultima di cinque fratelli, con un’infanzia segnata dalla perdita della madre e di una delle vostre sorelle, Zosia. A scuola siete così avanti da attirare gli scherzi dei compagni e le attenzioni dei maestri, ma siete pur sempre una ragazza che non potrà studiare a lungo sotto il dominio zarista. Qualche anno più tardi, finito il ginnasio, entrate a far parte di una società segreta che porta la cultura e la conoscenza scientifica nelle fabbriche e nelle botteghe. Un movimento che, parlando polacco, diffonde principi di uguaglianza, fratellanza e libertà come fondamenta per una Polonia unita. A meno di 16 anni siete già una patriota, ma soprattutto una fervente donna di scienza e di cultura: passate il vostro tempo libero a spiegare la fisica e la matematica per i quartieri di Varsavia. E lo fate nascondendovi dalla terribile polizia segreta zarista. Crescendo però questa vita vi inizia a stare stretta, così fate un patto con vostra sorella Bronisława: mentre lei partirà per Parigi per studiare medicina, voi lavorerete per aiutarla. Quando lei sarà sistemata, allora la raggiungerete e potrete studiare anche voi. Trovate lavoro come governante e passate anni nella campagna polacca, lontani da quella Varsavia che adesso non vi sembra più così tanto male. Dovete tenere duro, sviluppate una corazza, diventate sempre più forti e tenaci. Ma soprattutto avete una missione: dovete in ogni modo aiutare vostra sorella, per poi spiccare voi stesse il volo. La vostra vita è difficile. Il dubbio di non essere all’altezza vi attanaglia. “Non riuscirò mai”, iniziate a pensare, “a uscire da questo esilio di provincia. Meglio pensare a come aiutare la mia famiglia, i miei fratelli e mio padre. Io sono pur sempre una giovane donna polacca, non posso certo cambiare il Mondo”. E invece il Mondo lo cambierete. Per sempre. Marie e Pierre Curie Adesso che Bronisława si è laureata e sposata a Parigi, tocca a lei rispettare l’accordo. Eccovi quindi arrivata sulle rive della Senna: è il 3 Novembre 1891, avete ventiquattro anni e state attraversando fiere e sicure per la prima volta il cortile della Sorbona. La vostra vita cambia quel giorno, un po’ come il vostro nome: Maria Salomea non c’è più, da adesso sarete solo Marie. Oltre a dedicarvi alla fisica e alla matematica, siete attratte da una particolare caratteristica di alcuni minerali: la radioattività. Chimica quindi. O fisica? Un po’ e un po’, ibrida e meticcia come la vostra natura, sempre a metà strada. In laboratorio conoscete un giovane assistente, molto preparato in quel campo: Pierre. La vostra intesa sul lavoro è praticamente perfetta, tanto da diventare rapidamente una forte amicizia, poi un amore travolgente e infine un matrimonio. Restate comunque una donna forte e indipendente, emancipata per i vostri tempi, così non rinunciate al vostro cognome polacco, a cui aggiungete quello di vostro marito. Con Pierre formate una coppia tanto unita quanto paritaria, un esempio anche per i tempi odierni. Nel frattempo vi siete laureata in matematica e fisica, ma non siete sazia di sapere. Non vi può bastare. Voi volete cambiare il Mondo. Iniziate così a lavorare al vostro dottorato, sempre con Pierre al vostro fianco che vi sostiene in tutto e per tutto. La vostra tesi, in teoria è semplice: c’è un minerale, la pechblenda, da cui si estrae l’uranio, elemento già conosciuto che non presenta valori di radioattività costanti. Per cui, secondo voi, deve nascondersi qualcos’altro in quelle rocce, qualcosa che aumenti la radioattività. Il vostro lavoro sta tutto qui: isolare e caratterizzare questo “qualcosa”. La chimica, questa chimica qui, diventa un lavoro brutalmente manuale. Trasformate lo stabile dove si trova il laboratorio di Pierre in un deposito dove stoccate tonnellate e tonnellate di pechblenda in arrivo dalla Boemia. Poi si comincia, a una ventina di chili per volta: fondi, filtra, precipita, raccogli. E ripeti. Poi, ci sono i gas tossici come il solfuro di idrogeno per aiutarvi nelle separazioni, con il rischio continuo di dover buttare via tutto se ci fosse una minima contaminazione. Venti chili alla volta per tonnellate di pechblenda. Il tutto per ottenere pochi milligrammi di ciò che andate cercando. La tesi di dottorato di Marie Curie – Recherches sur les substances radioactives Qui la sorpresa. Eravate convinta di trovare un nuovo elemento e, invece, ne scoprite addirittura due! Il primo sarà battezzato Polonio, mentre il secondo, ancora più radioattivo, Radio. Con questi risultati ottenete il dottorato di ricerca a coronazione del vostro lavoro, mentre con il nome Polonio arriva anche una piccola, ma significativa, riscossa per la vostra patria natale. Una Polonia ancora non presente sulla carta geografica, ma che adesso e per sempre si troverà sulla tavola periodica degli elementi inventata, sadici giochi del destino, proprio da un russo. Dieci anni sono passati da quando lavoravate come governante per famiglie nella campagna polacca a ora che, dottorato alla Sorbona e due nuovi elementi chimici in tasca, siete sulla bocca di tutta la comunità scientifica e dell’alta società parigina. Niente male, vero? Per di più, siete giovane, avete solamente trentacinque anni e vi si prospetta una lunga carriera davanti. Passa solo un anno, siamo nel 1903, quando ricevete, prima donna in assoluto, il Premio Nobel. Condividete il premio per la fisica con Pierre, scontato, e con Henri Bequerel, altro scienziato con cui collaborate. Con Pierre formate una coppia affiatata fuori e dentro il laboratorio, anche se lui ottiene la prestigiosa cattedra di fisica generale, mentre voi, nonostante tutto, restate un po’ in ombra in quel mondo accademico così patriarcale. Sarà solo l’ennesima tragedia della vostra vita a forzare la serratura di questo meccanismo così meschino. La vita di Pierre, vostro amore e compagno, viene infatti spezzata nel centro di Parigi nell’aprile del 1906. Una disattenzione e, boom, una carrozza lo travolge, uccidendolo. Nuovamente il lutto avvolge la vostra vita. Vi sentite vacillare, ma la vostra forza e la vostra tenacia vi indicano la via: non mollate e, anzi, chiedete di succedere a vostro marito. Non ci sono dubbi, non possono essercene: siete la candidata migliore. Ma siete pur sempre donna. Troppo per i vecchi professori parigini, per i quali restate “solo” quella giovane ragazzetta polacca che spalava pechblenda. Provano in ogni modo a fermarvi: cercano di trovare altri candidati, di convincervi a desistere e a ostacolarvi. Ma la vostra determinazione è troppo forte. E alla fine il vostro momento arriva: il 5 Novembre 1906 salite in cattedra come professoressa di Fisica Generale della Sorbona. Inutile sottolineare come, anche in questo, siate la prima nella storia. Riassumendo, allo stato attuale, avete trentanove anni, siete professoressa alla Sorbona, avete vinto un Premio Nobel e avete ancora molto da dire nel Mondo. una giovane Marie Curie Il vostro lavoro continua, nel ricordo di Pierre, ma senza mai guardarsi indietro. Siete ormai una scienziata di fama mondiale, una fisica che tutti rispettano e le cui opinioni sono ascoltate e dibattute da tutta la comunità scientifica. Per di più, cosa molto insolita ancora oggi, siete quel tipo di scienziata che non brevetta la sua scoperta più importante, la tecnica per isolare il Radio, in modo da favorire la ricerca sull’argomento e il progresso tecnico e scientifico per l’intera umanità. Non siete, in fondo, una donna molto diversa da quella ragazzina che andava a insegnare la matematica nelle botteghe di Varsavia. In tutto questo la vostra vita privata è rimasta sempre tale, soprattutto dopo la morte di Pierre. Almeno fino al 1911, quando, invitata al primo congresso Solvay di Bruxelles, intrecciate una relazione con un vostro collega: Paul Langevin. La società parigina di inizio Novecento non si scandalizzerebbe di fronte a ciò, se non fosse che Langevin è sposato e ha quattro figli. Quando il suo matrimonio naufraga, la colpa ricade interamente su di voi che venite additata addirittura come “sfasciafamiglie”. A Stoccolma, intanto, si vocifera di un possibile nuovo premio Nobel per voi, stavolta in chimica. L’Accademia però tentenna, preoccupata per lo scandalo che vi sta travolgendo. Saranno la vostra fama, il vostro lavoro e i vostri risultati a dipanare ogni perplessità. Così diventate la prima persona in assoluto a ricevere due premi Nobel. Dopo di voi solo altri tre riusciranno a fare doppietta e nessuno accoppierà due discipline scientifiche diverse. Per Marie Curie l’impegno, scientifico e sociale, non si ferma mai. Così allo scoppio della Prima Guerra Mondiale prendete un’automobile, la dotate di un radiografo e partite con vostra figlia Irene verso il fronte. Formate infermieri e medici dell’esercito all’utilizzo di quell’apparecchiatura e curate voi stesse, in prima persona, soldati feriti nelle trincee del fronte occidentale. Dopo la guerra tornate a compiere studi di altissimo profilo internazionale e vi dedicate anche alla cooperazione internazionale tra scienziati. Fondate istituti di ricerca in Francia e nella vostra amata Polonia, adesso indipendente. Siete sempre più la signora della scienza, della fisica e della chimica. Anche se il vostro ruolo nei primi anni del XX secolo è ben più globale di questo. Purtroppo la vostra vita verrà stroncata proprio dall’amore verso i vostri elementi radioattivi. Anni e anni di studio sul Radio e sul Polonio vi causano una grave forma di anemia. Non c’è niente da fare, per questo decidete di ritirarvi a Passy, sulle Alpi. Lasciate questo Mondo il 4 Luglio del 1934. Avete 67 anni. Poco più di anno dopo, da Stoccolma arriva un’altra lettera. Non è per voi, non può esserlo. Eppure il vostro influsso si fa sentire. Saranno vostra figlia Irene e suo marito Frédéric, che sarà anche partigiano, ad essere premiati con il Nobel per la chimica. Sareste fiera di loro, del loro impegno e del loro Nobel. E anche di come abbiano deciso di condividere tutto, perfino il cognome. Entrambi, dopo il matrimonio, si chiamano infatti Joliot-Curie. Paritetici e uguali. Come eravate voi, Maria Skłodowska, e il vostro amore, Pierre Curie. E come siete ancora oggi voi, nella vostra tomba al Pantheon. A pochi passi da quel cortile della Sorbona che fu casa vostra per tanti anni. La due volte premio Nobel, Marie Curie (Varsavia, 7 novembre 1867 – Passy, 4 luglio 1934)... Read more...Luoghi, edifici, architetture: il mondo attraverso gli scatti di Roberto Conte, di G. Silvestrelli || THREEvial Pursuit12 Gennaio 2022Luoghi, edifici, architetture Il mondo attraverso gli scatti di Roberto Conte di Giorgio Silvestrelli Sin dalla notte dei tempi, appena uscito dalle caverne, il genere umano si è cimentato nel rendere il luogo in cui vive più sicuro, funzionale e, perché no, piacevole alla vista. L’architettura degli edifici ha segnato le epoche storiche ed è sempre protesa verso il futuro. Roberto Conte è un fotografo giramondo molto conosciuto nell’ambito della architecture photography. I suoi scatti ritraggono spesso palazzi, luoghi abbandonati o i suggestivi interni degli edifici. Attraverso l’obbiettivo della sua macchina fotografica, Conte è capace di raccontare una realtà concreta e materiale ma, allo stesso tempo, di regalare tante emozioni. Così, questo fotografo italiano ci prende per mano e ci fa fare un giro per il mondo accompagnandoci a visitare luoghi conosciuti, vitali o abbandonati e decadenti. Di ritorno da uno dei suoi tanti viaggi lo abbiamo intercettato e gli abbiamo proposto l’intervista che state per leggere. O meglio, un’istantanea sul lavoro di Roberto Conte. Giorgio Silvestrelli: Ciao Roberto e grazie per avermi concesso un po’ del tuo tempo. Che ne dici di partire raccontandoci chi sei o cosa fai? Roberto Conte: Ciao Giorgio, grazie a voi per l’interesse. Mi occupo di fotografia di architettura da una quindicina d’anni. Ho fotografato in Italia e all’estero centinaia di luoghi abbandonati e un numero ancora più grande di architetture in generale, dalle strutture razionaliste alle avanguardie, dal brutalismo al modernismo sovietico. Collaboro con studi di architettura e design, artisti e accademie. Insieme al mio collega Stefano Perego ho pubblicato nel 2019 il libro Soviet Asia, dedicato alle architetture moderniste sovietiche in Asia Centrale. GS: Come e quando hai iniziato a fare foto? RC: Ho iniziato esplorando luoghi abbandonati attorno al 2006, inizialmente nelle aree industriali dismesse attorno a Milano per poi ampliare progressivamente e in modo sempre maggiore l’ambito geografico e tipologico delle mie incursioni. In un certo senso sono cresciuto circondato da fabbriche in abbandono o in procinto di esserlo ed è stato quindi abbastanza naturale sentire la necessità di entrarci a un certo punto. GS: Che rapporto hai con la macchina fotografica? RC: Con il mezzo fisico ho un rapporto squisitamente strumentale, lo vedo davvero come un puro mezzo/strumento e mi interessano in genere molto di più le fotografie che le macchine fotografiche in generale, infatti trovo noiosissime le fiere di settore. Dato che tra macchina fotografica e attrezzatura il peso poi non è indifferente, sono tra coloro a cui ogni tanto piace staccare. GS: Che tipo (o tipi) di macchina fotografica usi? RC: Reflex digitale. GS: Analogico vs. digitale. Tu cosa preferisci? Perché? RC: Come fotografo “impegnato” sono nativo digitale e mi sono sempre trovato a mio agio con questo tipo di strumenti. Ho fotografato per un certo periodo a pellicola sviluppando i negativi, ma ero diventato fin troppo maniaco nello scattare solo in determinate condizioni e alla fine mi sono annoiato, posto che come “fruitore” di immagini naturalmente apprezzo molto anche quel tipo di estetica. GS: Puoi raccontarci brevemente la tua giornata tipo? RC: Fortunatamente non ho una giornata tipo, anche perché viaggio molto! Diciamo che faccio davvero di tutto per non averla affatto una giornata tipo. GS: Partiamo dall’inizio del tuo percorso artistico. Cosa ti ha spinto ad andare alla ricerca e a fotografare luoghi abbandonati? RC: Molto è dovuto sicuramente alla mia curiosità, a tratti furiosa, oltre al puro desiderio di provare le emozioni legate a questo tipo di esplorazione. All’inizio sono stato condizionato molto anche da un genere musicale, noto come dark ambient, che prediligeva immagini di luoghi abbandonati nell’artwork degli album e anche perché seguivo già alcuni fotografi (decisamente pochi all’epoca rispetto ad oggi) che creavano immagini di questo tipo. In particolare ascoltavo molto il progetto musicale svedese Raison d’être che ha poi utilizzato alcune delle mie immagini per copertine di alcuni suoi album (con mio grande piacere, naturalmente). GS: Che sensazioni si provano ad entrare in un edificio rimasto chiuso per molto tempo? RC: Penso che le sensazioni cambino molto in base alla persona che le vive e in base al posto stesso che stai visitando, ad esempio alcuni luoghi provocano una certa ansia (tipo gli ospedali psichiatrici). Nei casi in cui c’è la possibilità di essere scoperti dai servizi di sicurezza invece è l’adrenalina a essere al primo posto. In generale per quanto mi riguarda, direi che nei luoghi abbandonati l’emozione prevalente è la serenità anche se non è semplice in poche righe spiegare perché. In parte per il silenzio di questi luoghi, in parte per la bellezza che li contraddistingue, ma anche la consapevolezza che la natura e il tempo metabolizzano tutto. GS: Ci sono differenze nel fotografare un luogo abbandonato e uno ancora utilizzato? E se sì, quali? RC: Per alcuni aspetti senz’altro, per altri meno. Diciamo che nel primo caso c’è l’intervento del tempo sulle strutture, quindi a volte un punto di vista anche piuttosto banale diventa più interessante proprio in funzione del decadimento materiale (ad esempio un muro scrostato o un elemento naturale che emerge da un muro). Per altri versi invece la composizione, la gestione della luce, la necessità di dare un senso visivo in un formato bidimensionale a una struttura tridimensionale eccetera, restano i medesimi. GS: La maggior parte della tua produzione artistica è incentrata sull’architettura. Cosa vuoi trasmettere attraverso i tuoi scatti? RC: Riassumendo al massimo direi che mi fa piacere far conoscere l’esistenza determinati luoghi o strutture e proporre punti di vista magari nuovi di architetture già note. Non cerco cose belle o brutte, ma cose che in qualche modo considero interessanti e mi fa piacere scoprirle. GS: Fare foto è il tuo lavoro. Trovi delle differenze nel fare scatti su commissione e quelli che invece fai per tuo piacere personale? RG: Senz’altro. Nelle foto su commissione c’è naturalmente un confronto/dialogo con il committente rispetto al risultato finale, mentre nei miei percorsi di ricerca personale sono del tutto autonomo. GS: Il tuo lavoro ti permette di viaggiare molto. C’è un luogo che non hai ancora visto e ti piacerebbe visitare? RC: L’Iran, senza dubbio. Sto preparando un viaggio discretamente articolato da tempo, ma per un motivo o per l’altro lo rimando continuamente. GS: Ti piacerebbe vivere all’estero? E se sì, dove? RC: Tempo fa ho vissuto per due anni a Berlino ed è stata un’esperienza molto importante per me. Sto benissimo in Italia ora, ma se tornassi indietro nel tempo probabilmente vorrei provare a vivere anche a Mosca per un anno. GS: Per te cos’è lo “scatto perfetto”? RC: Per me è la fotografia in grado di mostrare un oggetto o un progetto in modo chiaro ma che allo stesso tempo riesce a provocare un certo tipo di emozione. GS: C’è una foto nella storia della fotografia che avresti voluto scattare tu? RC: Le foto scattate da Gabriele Basilico a Beirut nel 1991, ma non sono affatto Gabriele Basilico, quindi va bene così! GS: Vorrei che mi dicessi se c’è un edificio che avresti voluto fotografare, ma che ora non esiste più. RC: Ce ne sono molti, ma il primo che mi viene in mente è il Prentice Women Hospital di Bertrand Goldberg a Chicago, capolavoro barbaricamente demolito nel 2014. GS: C’è uno scatto, tra quelli che i nostri lettori possono vedere in questa intervista, uno scatto che è legato a un momento particolare della tua vita e/o a un evento che resterà indissolubilmente nella tua memoria? RC: Certo, la foto dello stabilimento SAVA di Porto Marghera, vicino a Venezia. Fu costruita nel 1964 ed era uno dei centri di produzione di alluminio più importanti in Italia, prima di essere abbandonata nel 1993. Io l’ho esplorata in una giornata piovosissima del 2010, tre anni prima che fosse completamente demolita. Si tratta di un buon esempio di esplorazione di cui ho un ricordo personale molto bello di un luogo che di fatto non esiste più, cosa che conferisce alle foto un valore diverso. GS: Cosa puoi suggerire a chi vuole intraprendere la carriera di fotografo professionista? RC: Non ho ricette particolari, credo – magari in modo un po‘ banale ma sincero – che sia necessaria molta passione, molta pratica e parecchio ragionamento rispetto a quello che si vuole raccontare, come farlo e al modo di comunicare il proprio lavoro. L’improvvisazione e la mancanza di dedizione non pagano, secondo me. GS: Grazie alla tecnologia, oggi tutti possono scattare foto in qualsiasi momento. E naturalmente condividerle. Che valore ha oggi la figura del fotografo rispetto al passato? RC: Tutti possono scattare foto in qualsiasi momento, vero, ma non tutti possono fare foto curate e ragionate in qualsiasi momento. Questa cosa vale tuttora, anzi forse in questo periodo a maggior ragione. Tutte le fotografie sono state fornite da Roberto Conte e sono di proprietà di Roberto Conte Sito: http://www.robertoconte.net Pagina Facebook: Il Conte Photography Pagina Instagram: @ilcontephotography... Read more...Hellbound: una riflessione. Un articolo di C. Francioni || THREEvial Pursuit15 Dicembre 2021Hellbound: una riflessione di Chiara Francioni – ATTENZIONE: POSSIBILI SPOILER! – Mi sono vista Hellbound (Jiok, in lingua originale), nuova serie coreana lanciata da Netflix, in una giornata. Sì, lo so… ho dei problemi con il binge watching e neanche cerco di nasconderlo. A mia parziale discolpa però ci tengo a dire che non è stata una visione passiva (nel senso che non c’era la moschina a gironzolare intorno alla bocca aperta) anzi, ne sono uscita con la mente in subbuglio, gravida di domande e desiderosa di decifrare i messaggi che Yeon Sang-ho, regista della serie, voleva mandarmi. Così, eccomi qua, davanti a un computer, intenta a cercare le parole giuste per raccontarvi cosa ho visto o, più precisamente, cosa penso di aver visto. Quella che seguirà, infatti, non è una recensione canonica, bensì una riflessione, forse vaneggiante… giudicate voi. Iniziamo dalla premessa. In giro per il mondo stanno accadendo fatti alquanto strani: individui in apparenza non collegati tra loro ricevono sentenze di morte da un essere sovrannaturale con annessa condanna alla dannazione eterna. La pena comminata viene eseguita da tre creature demoniache che, comparendo dal nulla, raggiungono il sentenziato nel giorno e nell’ora profetizzati, lo massacrano di botte e, per finire, lo bruciano vivo. Terminato il proprio incarico, i misteriosi e temibili boia scompaiono, lasciandosi dietro solo i resti carbonizzati del malcapitato. L’incipit è chiaro: il sovrannaturale irrompe con violenza nella quotidianità. Le creature demoniache che in Hellbound eseguono la condanna I fatti si svolgono a Seul dove una setta in ascesa, conosciuta come La Nuova Verità, offre alla popolazione, stordita dall’incapacità di comprendere l’assurdità degli avvenimenti di cui è testimone, una possibile spiegazione. Il carismatico leader Jeong Jin-soo rivela agli adepti la natura divina del fenomeno: Dio, ormai stanco di vedere i propri figli perseverare nel peccato, ha deciso di guidarli verso l’irreprensibilità mediante la forza dissuasiva della pena esemplare. A ricevere la condanna, pertanto, sono solo i peccatori, per i quali è ormai spirata ogni possibilità di redenzione tanto che ad attenderli c’è solo una morte cruenta e l’inferno. Rendendo pubbliche le esecuzioni, i membri della Nuova Verità riescono, anche grazie al potere amplificatore della rete, a moltiplicare la portata generalpreventiva delle condanne, assicurandosi così un seguito di fedeli devoti e rispettosi del volere di Dio. Incuriosita dalla scelta narrativa, dopo aver rievocato ricordi legati alla Chiesa dell’Unificazione e al reverendo Sun Myung Moon che, da Seul, era riuscito a compiere opere di fidelizzazione anche in Italia, mi sono trasformata in una piccola nerd dell’internette e ho fatto un po’ di ricerche, scoprendo che in Corea la questione religiosa è piuttosto complessa. Sebbene, infatti, dalle ultime indagini sia emerso che una buona parte della popolazione sia essenzialmente atea, continua a esistere un pronunciato pluralismo di fedi (buddhismo, cristianesimo – sia protestante che romano –, confucianesimo, sciamanesimo e culti minori). Inoltre, negli ultimi decenni, anche per effetto del ritorno alla democrazia dopo anni di dittatura militare più o meno esplicita, si è assistito alla nascita di numerose “chiese” fuoriuscite dall’alveo del cristianesimo protestante, molte delle quali sono di stampo millenarista e cioè fondate sulla credenza nell’imminente avvento di una nuova era, dove i giusti avranno la meglio e il male sarà sconfitto per sempre. Si tratta di culti settari, nati e cresciuti attorno alla figura carismatica del leader di turno e sostenuti da importanti campagne di proselitismo. Ad oggi se ne contano centinaia e, come insegnano recenti fatti di cronaca, il fenomeno viene vissuto con preoccupazione. A tale proposito, appare emblematico il caso della Grace Road Church e della sua fondatrice, Shin Ok-ju, recentemente condannata per aver costretto centinaia di fedeli a tollerare pesanti abusi fisici e psichici giustificando tali pratiche come rituali necessari per liberarsi dal maligno. Senza contare che un’altra setta, il Tempio del Tabernacolo della testimonianza (Shincheonji Chiesa di Gesù) è stata più volte accusata in tutto il mondo di infiltrarsi all’interno delle altre chiese per convertirne i membri. La stessa è poi finita sotto i riflettori perché parrebbe aver avuto un ruolo cruciale nella diffusione del Coronavirus all’interno del paese. Tornando a Hellbound, mi appare evidente come La Nuova Verità, che chiaramente si rifà alla struttura dogmatica tipica del millenarismo, venga presentata da Yeong Sang-ho con taglio critico, mettendo cioè in risalto gli aspetti controversi del fenomeno. Il culto, dapprima timido e non istituzionalizzato, si trasforma col tempo in una vera e propria potenza politicamente strutturata. Sfruttando il timore della dannazione eterna, che è ormai divenuto pervasivo a causa dei recenti fatti, la Nuova Verità si pone infatti al vertice di un sistema basato sulla repressione violenta e intransigente del male, individuando nel peccatore il nemico comune da combattere. Risulta emblematico che non si parli più di “criminali” ma solo di “peccatori”, a testimonianza del fatto che la setta – e la dimensione religiosa – hanno ormai soppiantato le istituzioni e la legge dell’uomo, che continuano a esistere solo formalmente, colpevoli di non essere riuscite a placare i trasgressori comminando punizioni inadeguate. Si assiste, dunque, all’avvento della tanto agognata “nuova era” che coincide con l’instaurazione di una sorta di regime del terrore, giustificato dal volere di Dio e volto al perseguimento ossessivo della rettitudine. La strategia di conservazione del potere si regge sul meccanismo della gogna pubblica, in quanto coloro che ricevono la “sentenza” vengono caldamente invitati a confessare pubblicamente i propri peccati, cosicché tutti possano conoscere le ragioni della punizione subita e, infine, assistere all’inflizione della stessa. La stigmatizzazione sociale raggiunge quindi livelli apicali, tanto che l’onta del peccato non si riversa solo sull’autore, ma anche sulla famiglia e sugli amici che, implicitamente, vengono spinti alla delazione nel tentativo di salvarsi l’anima. Mentre assisto allo scorrere delle vicende, tra un episodio e l’altro, mi trovo a pensare a quello che succede nella nostra società civile, alla drammatizzazione di ogni singolo evento e alla perversa attenzione che viene data ai fatti giudiziari: nomi e cognomi sbattuti in prima pagina, vicende familiari rese pubbliche, vanificazione del segreto istruttorio. Rifletto su come una simile tendenza, se esasperata, possa condurre all’annientamento della presunzione di innocenza, almeno a livello sociale. L’opinione pubblica viene da subito portata a identificare l’indagato con il colpevole. Poi, spesso e volentieri, ci si dimentica della vicenda, rapiti dall’incessante susseguirsi di scoop che ci vengono propinati ogni giorno, salvo apprendere, solo dopo anni, l’esito del processo. A quel punto si scatena la folla, e fioccano giudizi sprezzanti del tipo “ah, gli hanno dato troppo poco”, se l’indagato è stato rinviato a giudizio e infine condannato, oppure ”ecco, come al solito la magistratura ha sbagliato” se, invece, è stato assolto. Giudizi inquinati, che provengono dal nostro primo contatto con la vicenda, distorto dalla spettacolarizzazione delle indagini, dalla necessità di dare un volto al male affinché se ne parli il più possibile, alzando gli indici di ascolto. Un sentire collettivo che alimenta sempre più la sfiducia nelle istituzioni preposte, favorendo l’emersione del populismo e di posizioni sempre più estreme. Sarebbe opportuna, dico a me stessa, una maggiore consapevolezza che guidi la definizione dell’agenda setting al di sopra del becero sensazionalismo. Recuperando poi l’analisi di Hellbound, mi è piaciuto notare come sia stata scelta una donna, figura da sempre emblematica nell’immaginario pseudo-cristiano, per contrastare la follia religiosa scatenata da La Nuova Verità. Si tratta dell’avvocato Min Hyun-joo (peraltro fautrice della “legge degli uomini” per professione), che troviamo alle prese con una pericolosa missione: aiutare coloro che il culto condanna. Poiché non vi è apparente possibilità di sottrarsi al verdetto, l’unico aiuto che può essere fornito è l’anonimato. L’obiettivo è dunque quello di strappare i malcapitati dalle grinfie della setta, favorendone la scomparsa (ad esempio simulando la fuga per motivi plausibili) e consentendo loro di trovare la morte lontano dai riflettori, senza dunque esporre sé stessi e i propri familiari alla gogna pubblica che, spesso e volentieri, si traduce in atti di efferata violenza. L’avvocato Min Hyun-joo in Hellbound, interpretata da Kim Hyun-joo in Hellbound Ciò che spinge la donna è la certezza, fondata su fatti che non vi sto a spiegare (se avete visto la serie sapete, altrimenti guardatela), che l’assurdo fenomeno presentato dalla Nuova Verità come frutto della volontà divina, sia invece effetto del caso e che i sentenziati siano esclusivamente vittime contingenti di un sadico gioco sovrannaturale. Il fatto che, nel passato dei presunti peccatori, emergano sempre azioni qualificabili come peccaminose non è infatti argomento vincente per la tesi sostenuta dalla setta, in quanto, se si abbassa l’asticella del giudizio, qualsiasi azione potrebbe teoricamente apparire come deprecabile a prescindere dal disvalore espresso (rubare la caramella dell’amico, per esempio). Dunque, nell’universo di Hellbound, la battaglia non si consuma, come di consueto, tra l’umanità e le creature demoniache, ma tra due fazioni della stessa specie, quella umana. Da un lato si schiera chi ha inteso demonizzarne la natura, fondando il proprio potere sull’unica medicina che potrebbe consentire di purificarla – la paura della dannazione eterna – e, dall’altra, chi invece cerca di preservare la dignità del complesso sistema che il nostro essere rappresenta, tollerandone anche le imperfezioni. Del resto è proprio questo il lato interessante della serie, ossia la capacità sfruttare il sovrannaturale come detonatore di fatti che si svolgono prevalentemente sul piano della realtà e permettono di indagare le più intime paure e pulsioni umane. Mi ricordo infine che in Corea c’è la pena capitale e che, anche se non vengono eseguite condanne dal 1997 e si susseguono moratorie per la sua eliminazione, ci sono ancora molti detenuti nel braccio della morte. Finisco quindi per leggere, nell’opera di Yeon Sang-ho, anche una critica a tale istituto. Non occorre infatti scomodare Beccaria e le sue posizioni in proposito per argomentare un vincente attacco a un simile eccesso retributivo, il quale vanifica ogni possibilità di redenzione e recupero del condannato. Senza contare che “se si abbassa l’asticella del giudizio” qualunque azione che si discosti dal dover essere prescelto dal centro di potere di turno potrebbe, in linea di principio, condurre alla pena capitale. Regista coreano autore della saga di “Train to Busan”, nonché cocreatore (insieme a Choi Gyu-seok) del webtoon “Jiok” (in inglese “hellbound”) di cui la serie è una trasposizione.... Read more...Dissipatio H.G., un articolo di R. Cannarsa || THREEvial Pursuit1 Dicembre 2021Dissipatio H.G. di Rocco Cannarsa “Infine ci si deve accettare in blocco, ci si deve lasciar vivere”.Dissipatio H.G. di Guido Morselli Dissipatio H.G. è un romanzo complesso. Troppo colto, troppo filosofico. Le 142 pagine che lo compongono richiedono un lettore disposto a viaggiare attraverso la frase, capace di un’analisi fredda e sentimentale. Lo stile è completamente innaturale, cervellotico, addirittura spocchioso. Ciò fa tentennare nelle prime pagine tra svariate pause e riletture. Poi, all’improvviso, quanto sembrava un limite, un ostacolo, diventa bellezza. La storia è ambientata principalmente a Widmad, tra le montagne della Svizzera, una cittadina a pochi chilometri da Zurigo (Crisopoli nel romanzo). Il protagonista, un io anonimo che è tutta l’umanità, decide di uccidersi, annegandosi in un sifone nella notte tra l’1 e il 2 giugno, giorno del suo quarantesimo compleanno. Giunto nella grotta, però, non agisce. Un sorso di cognac lo porta a una riflessione che lo paralizza sulla differenza tra il distillato spagnolo e quello francese. Tornerà a casa, dove ha una soluzione più semplice: “Sono andato a prenderla, la mia ragazza dall’occhio nero, mi sono ridisteso sul letto con lei. Ho premuto la bocca sulla sua, a lungo. L’ho sollecitata col dito, una prima volta. Non abbastanza a fondo. E una seconda volta, sempre con la bocca sulla sua. Non la terza, perché d’un tratto l’ombra mi ha avvolto. E la quiete”. Copertina di Dissipatio H.G. di Guido Morselli Importante soffermarsi sulla quiete, sul silenzio. La particolarità del romanzo, infatti, è che dal momento in cui preme il grilletto è il suicida a essere vivo, mentre ‘i vivi’ sono morti, spariti, evaporati: “C’è una vecchia lettura, un testo di Giamblico che ho avuto sott’occhio non ricordo per che ricerca. Parlava della fine della specie e s’intitolava Dissipatio Humani Generis. Dissipazione non in senso morale. La versione che ricordo era in latino, e nella tarda latinità pare che dissipatio valesse ‘evaporazione’, ‘nebulizzazione’, o qualcosa di ugualmente fisico, e Giamblico accennava nella sua descrizione appunto a un fatale fenomeno di questo tipo”. Il senso di questa quiete, da sempre legata all’idea di morte, viene stravolto totalmente. È il silenzio dell’essere solo al mondo, vigile nell’attesa di un qualche cenno di vita: “Vedrò le luci intermittenti delle fusoliere, se la nebbia me lo impedisce sentirò il rombo dei motori. Non dormirò, starò di vedetta, o in ascolto”. “Ciò che ‘fa’ il silenzio e il suo contrario, in ultima analisi è la presenza umana, gradita o sgradita; e la sua mancanza. Nulla le sostituisce, in questo loro effetto. E il silenzio da assenza umana, mi accorgevo, è un silenzio che non scorre. Si accumula”. Blaise Pascal faceva derivare l’infelicità umana dall’incapacità di starsene da soli in una stanza. E questa incapacità è legata al pensiero, effetto ineluttabile della solitudine. Per questo lo stile di Morselli è tanto complesso, quasi incomprensibile, perché lontano dal parlato, lontano dalla narrativa che si è abituati a farsi passare sotto gli occhi, più vicino al privato; è propriamente linguaggio sub-vocale messo per iscritto. È il carattere fantasioso del paradosso dell’evento narrato ad aver portato molti a etichettare il romanzo come ‘fantascienza post-apocalittica’. La trovo una definizione riduttiva. Con questo non voglio svalutare un genere letterario, è solo che ritengo che questa classificazione sia limitante e poco puntuale per l’opera e, soprattutto, che la vera letteratura non possa esaurirsi in una categorizzazione. Dissipatio H.G., piuttosto, è una riflessione sul genere umano, sulla direzione che sta prendendo. Questo non vuol dire che il romanzo nasca come una satira, una critica: “Ricordo numerose persone della mia stessa categoria (genìa) professionale, che di questa mia presente situazione, se fossero stati in grado d’inventarla, avrebbero detto: non si può supporre se non in chiave di paradosso farsesco. In vista di conclusioni socio-satireggianti. Ma è un tale tipo di supposto che sarebbe, non paradossale: idiota”. Morselli dà uno sguardo oggettivo sull’essere umano e il suo rapporto con il mondo, con il denaro e con la morte. Certo, a più riprese il narratore si pone in aperto contrasto con il capitalismo e l’individualizzazione che caratterizzano la società contemporanea, a partire dal fatto che gli uomini evaporino ma le auto continuino ad accendersi: “e una sostanza così concreta non si sprofonda per maleficio del diavolo, non si vanifica per grazia o castigo celeste. Le sue radici attingono l’aeternum del capitale, quintessenza della realtà”. O ancora, con estrema ironia: “Per un analogo contrappasso puntuale, materialismo estremo avrebbe prodotto immaterialismo. Ontologico”. Ritengo, poi, non ci sia contesto che possa rendere l’opera più attuale. Si ricorda l’angoscia che arrecavano le immagini, sembra che siano già così lontane e vaghe, delle città silenti e vuote durante la quarantena: “La situazione certamente è strana, anzi inspiegabile: vuol dire che non è vera? Solo gli ottimisti si illudevano che il reale fosse razionale, e io non sono mai stato ottimista. Ora, poi, mi sto convertendo al realismo più piatto. Il reale avendo dalla sua la durata e la coerenza (coerenza nel senso di uniformità e solidità), si può permettere il lusso di essere irrazionale e inspiegabile”. Altro tema più volte trattato, e mai così attuale, è quello dell’inquinamento, nonché del rapporto uomo-natura: “Non ci sono più fumi nell’aria, a terra non ci sono più puzzi e frastuoni. (O genti, volevate lottare contro l’inquinamento? Semplice: bastava eliminare la razza inquinante)”. O se volessimo (è lecito?) pensare alla questione Green Pass: “Giosafat era questo nostro secolo, che discriminava, non faceva altro che discriminare, secondo i suoi codici rigorosi e innumerevoli”. I macro-temi trattati nell’opera, però, sono due, anzi i due: la vita e la morte. L’evaporazione collettiva rende il suicida, il reduce, l’umanità: “ dal 2 giugno, la terza persona e qualunque altra persona, s’identificano necessariamente con la mia”. Da questo momento, così, l’opera diviene universale. E il morto, che crede di essere il sopravvissuto – l’unico – alla catastrofe, soppesa dubbioso se in realtà non sia l’unico dannato dall’ascesa. Questa doppia probabilità è molto interessante dal punto di vista filosofico: scampare alla morte (o morire in questo mondo) è sopravvivere o dannarsi? D’altronde vivere è, inevitabilmente, morire. “L’umanità non ha responsabilità, non ha colpe, subisce un destino: amiamo la morte. La morte degli altri, e più ancora, in questo precipitare dei tempi, senza saperlo la morte nostra. Ma non è furore suicida, non è l’istinto di morte supposto dalla psicologia. L’uomo in realtà è passivo. È la Morte che agisce, e lo chiama a sé. E il suo è un appello a cui non si resiste. Soddisfatta del nostro consenso, tacito ma unanime, stanotte Essa verrà a prenderci, senza agonia per noi, senza angoscia. E questo epilogo, per moltissimi o per tutti, sarà la soluzione di problemi insolubili, il rimedio insperato di mali insoffribili. Strano che in altre epoche si temesse il millennio, la fine universale, come un crudele castigo, quando è così equa e benefica. Quanto a me, che ho 27 anni, verrà prematura? No. Sono con loro e come loro. Prima strumento involontario, ora offerto oggetto di morte”. La solitudine, però, quella stessa solitudine bramata tanto da portare all’eremitismo sui monti, diventa qualcosa che atterrisce, qualcosa che rischia di portare alla follia. Non solo la natura sembra perdere la sua consistenza: “Per vivere poeticamente la natura, mi occorreva qualcuno a cui contenderla, qualcuno da tenere lontano? Sconfortante: la natura era bella e tremenda, ma in funzione a-sociale. Supponeva, negativamente, l’uomo. Io la volevo inviolata, però violabile. Mi sto domandando: per goderla c’era bisogno dei cartelli: « Vietato l’ingresso »?” Ma il silenzio diviene qualcosa che (ri)porta pensieri suicidi: “Ho trascorso ore a esaminare se ricorrerò alla ragazza-dall’occhio-nero. Che probabilità ci siano che io ritenti. Nessuna, mi dico. Perché il suicidio richiede un destinatario o dei destinatari. Qualcuno che noi decidiamo di punire, o viceversa di ammaestrare (vedi: Bruto). Non avendo destinatari, non posso più uccidermi, come non posso più spedire telegrammi”. “Fatemi morire, nel bene o nel male li devo raggiungere. Non ero diverso da loro, mi assomigliavano tutti. Ignoranza e superbia incluse”. “È che sono solo. Il mondo sono io, e io sono stanco di questo mondo, di questo io”. I continui interventi del narratore, la complessità del linguaggio, la forza con cui costringe il lettore a sobbalzare nel tempo attraverso i numerosissimi flashback e flashforward. Ma cos’è il tempo? È proprio l’elemento più complesso dell’opera, per il suo svuotarsi di senso: “Problema coevo all’umanità e suo, verosimile, peccato originale, chiedersi: e dopo, che cosa farò? – Io non me lo chiedo. Sto scoprendo che l’eterno, per me che lo guardo da un’orbita di parcheggio, è la permanenza del provvisorio. La dilatazione estrema dell’attimo ”. Guido Morselli scrisse Dissipatio H.G. nel 1973, il medesimo anno della sua morte, ossia del suo suicidio. Tratta il tema, però, con un distacco che non richiama un vissuto, ma il gelo del morire. Questa non può essere che una breve panoramica sulla forza espressiva e sulla ricchezza tematica di quest’opera. Scelgo, perciò, di chiuderla con uno dei passi più affascinanti: “Se c’è stata l’umanità e ora ci sono io, solo io, decido di assumermi i compiti che ‘loro’ hanno dovuto abbandonare. Che cosa facevano ‘loro’ in sostanza? Che cosa facevano? Beh, è abbastanza semplice: agivano in vista di utilità. Inoltre, ragionavano sulle cose che si vedevano intorno, o che credevano di vedersi dentro. Poi, le rappresentavano, parole, segni, suoni. Altro non facevano. Sarò un riduttivo (un semplificatore) , ma ho idea di non avere tralasciato nulla. Continuarli, o sostituirli, non è un’impresa da farmi tremare, non farebbe tremare nessuno. In fin dei conti non avevano troppe pretese, né ambizioni”. All photos by http://www.guidomorselli.org... Read more...Collezionismo: il tesoro del bel tempo, un articolo di M. Barucci || THREEvial Pursuit17 Novembre 2021Collezionismo: il tesoro del bel tempo di Marco Barucci Collezionismo: action figures Transformers Quando ai pranzi di famiglia mia mamma si auto condanna per aver messo al mondo un disagiato, per farmi due risate e per rincarare la dose, io la apostrofo così: «Per forza sono così, ricordi quando mi hai venduto tutti i giocattoli dei Masters? Potevamo essere ricchi a quest’ora. Tutta colpa tua». Ovviamente sarebbe impossibile conservare ogni singola cianfrusaglia che ognuno di noi accumula nel corso della vita a partire dai primi anni dell’infanzia. Altrettanto improbabile è inoltre prevedere l’aumento di valore di un oggetto apparentemente “futile” come un giocattolo. E proprio questo è un concetto che merita una riflessione, perché è esattamente ciò che accade. Quotidianamente si vede una folle corsa all’oro, nei negozi, nei mercatini fisici e online, comprese le principali piattaforme di e-commerce. Questo perché alcuni oggetti diventano artefatti carichi di intrinseca energia che si va a contestualizzare in un determinato momento del tempo, facendo si che alcune corde dell’animo umano vibrino di passione. Una carta Pokemon, un set Lego, una Barbie o una Transformers, sono giocattoli vecchi. Pezzi di plastica o carta che prendono solo polvere e che non servono più una volta che qualcuno ha superato l’età per giocarci. Ma i più lungimiranti, che li hanno conservati e che li hanno traghettati fino ai nostri tempi, li mostrano a questo nostro futuro con una veste nuova. Collezionismo: Pokémon Card Scomodando Sartre: “Gli oggetti son cose che non dovrebbero commuovere, perché non sono vive. Ci se ne serve, li si rimette a posto, si vive in mezzo ad essi: sono utili, niente di più. E a me, mi commuovono, è insopportabile. Ho paura di venire in contatto con essi proprio come se fossero bestie vive. Ora me ne accorgo, mi ricordo meglio ciò che ho provato l’altro giorno, quando tenevo in mano quel ciottolo. Era una specie di nausea dolciastra. Com’era spiacevole! E proveniva dal ciottolo, ne son sicuro, passava dal ciottolo nelle mie mani. Sì, è proprio così, una specie di nausea nelle mie mani”. La sua nausea, intesa come dimensione metafisica, attribuisce anche agli oggetti circostanti il riflesso della solitudine e dell’angoscia che compongono il suo orrore di esistere. Nel caso di questi vecchi oggetti, emersi come zombi da qualche scantinato, vanno invece visti come tante piccole macchine del tempo che a distanza di anni ci fanno sentire ancora la bocca sporca di Nutella. I figli del boom economico e dell’esplosione demografica, sono un discreto numero di persone. Una generazione intera che ancora sogna la portaerei dei G.I. Joe. Eppure lo stesso tipo di modello è applicabile anche alla generazione successiva, che brama quel Charizard gradato sfoggiato come una reliquia da youtubers di successo. Nessuno aveva la sfera di cristallo, ma ha comunque deciso di tenere con sé con sé questi frammenti di ricordi. Questa infanzia tangibile che fungerà per loro un tesoro inestimabile. Un rifugio confortevole nel quale rintanarsi, quando la vita si fa più dura. E qui scatta lo step successivo. La domanda e la richiesta. La mercificazione delle emozioni. Matematicamente parlando, vedere i ragazzetti di adesso sbavare sull’influencer di turno mentre si pavoneggia sulla sua collezione di Pokemon, mi fa pensare a un’ipotetica nostra reazione se, trent’anni fa, avessimo visto Piero Angela mentre si segava su un cranio di T-rex. L’arte si è mercificata e il valore è cambiato, ha traslato totalmente di luogo. Portando le persone a diventare o a improvvisarsi collezionisti. Prima andavamo al Louvre, pagavamo i nostri sette euro e vedevamo la Gioconda. Hey, ho detto vedevamo. Quindi giù le zampe a tutti gli aspiranti Vincenzo Peruggia. Ma ne portavamo via comunque l’emozione, la scintilla che faceva scaturire in noi il sentimento di un’esperienza unica che uno avrebbe potuto fare solo in quella determinata occasione. Collezionismo: fumetti Marvel Oggi invece si creano copie industriali della medesima statuetta di Spawn con il collezionista di turno che, data la tiratura limitata si prodiga per accaparrarsi il suo esemplare da sfoggiare nella propria abitazione che ormai è diventata una cazzo di gipsoteca. Il valore non è più dato dalle emozioni, ma dal denaro. Se ne vedono tante nei negozi specializzati, gente che mentre sta acquistando un fumetto, una figures o una carta, chiede contestualmente quanto varrà tra qualche mese, in caso volesse venderla. Una volta addirittura un ragazzetto rubò qualcosa come settecento euro ai genitori nell’arco di un anno, sfilandogli banconote di piccolo taglio dal portafogli mentre dormivano. Tutto questo per comprarsi le carte più rare di Yugioh! Bisogna tracciare una linea ben marcata tra passione, emozione e ricordo nostalgico, e tra ossessione e avarizia. Mazzarò avrebbe dovuto leggere Fight Club. I ricordi sani fungeranno da lastricato nel cammino delle nostre vite. Post ScriptumNon sono stato completamente sincero con voi. Quei Masters, fui io a decidere di venderli. A un mercatino di beneficienza per la lotta contro i tumori. Collezionismo: action figures He-Man and the Masters of the Universe... Read more...La sottile linea nera: da Sant’Anna di Stazzema al G8 di Genova (Part 2) || Intervista a Lorenzo Guadagnucci || THREEvial Pursuit10 Novembre 2021La sottile linea nera: da Sant’Anna di Stazzema al G8 di Genova Intervista a Lorenzo Guadagnucci Parte 2 di Andrea Biagioni e Gianluca Bindi (Prima Parte)GB: Adesso facciamo un salto di quasi sessant’anni. La tua storia familiare purtroppo passa anche dall’eccidio nazifascista di Sant’Anna di Stazzema, del 12 agosto ’44. Leggendo le storie degli eccidi in Toscana, tante volte c’è questo dettaglio che risalta, quello della ‘bava alla bocca’ che non si capisce come sia stato indotto. Parlavi prima di catena di comando e di eseguire gli ordini e basta: come Kesselring nel ‘44 che ha dato proprio la ‘cambiale in bianco’ a tutte le truppe naziste. Quindi in entrambi i casi Sant’Anna e Genova c’entra il fatto che i peggiori istinti sotto certe ideologie vengono fuori soprattutto quando ci sono queste cambiali in bianco? Potresti tracciare dei parallelismi e delle differenze fra questi due tipi di macelleria? LG: Sono contesti ovviamente molto diversi, per questo si parla di una guerra da un lato e di una situazione invece di diritto civile e di ordine pubblico dall’altro. Ci sono però delle affinità sicuramente, perché mi colpisce questo uso estremo della violenza con intensità diverse. Ci sono dei punti di contatto che hanno a che fare secondo me proprio nella relazione fra le persone, fra chi pratica la violenza e chi la subisce. Quello che si nota nell’uno e nell’altro caso è una sorta di deumanizzazione dell’altro. Quello che è successo a Sant’Anna, ma anche nelle altre stragi, è che si arriva a sopprimere vite con grandissima disinvoltura senza apparente rimorso, con grande freddezza, perché l’altro in quel momento non è più una persona, è una non-persona rispetto a te.Questa è una delle modalità che rendono possibile tenere certi comportamenti da parte di persone ‘umane’, perché comunque anche chi apparteneva alle SS lo era e inoltre le stragi anche in Toscana non sono state fatte solo dalle SS – che erano i reparti più fanatizzati e che quindi avevano anche una componente ideologica personale di trasporto, di furore legata anche a un vissuto – c’erano reparti della Wehrmacht, quindi civili che erano stati impiegati in guerra, richiamati alla bisogna, e anche loro hanno fatto compiuto azioni di questo tipo. Il contesto e la situazione ti portano a sentirti poco responsabile per cose che altrimenti non faresti mai, che neppure in una vita precedente e neanche in quella successiva riterresti inconcepibili. GB: Insomma, ti hanno convinto che quelle persone siano il nemico da abbattere, pur non essendolo, e quindi arrivi anche a commettere certi atti. LG: Il problema nasce dal fatto che le vittime sono bambini, sono persone inermi, non armate, inoffensive verso le quali potresti fare una gradualità enorme di cose possibili, prima di chiuderli in una stalla e buttarci dentro una bomba a mano e poi smitragliare a casaccio.Nel libro che ho scritto su Sant’Anna di Stazzema c’è questa particolarità legata alla mia famiglia e a quell’episodio – ed è un ragionamento che riguarda anche gli animali – perché a Sant’Anna molte persone, tra cui mia nonna, furono rinchiuse nelle stalle; furono tolti gli animali dalle stalle, messe dentro le persone, tirate le bombe a mano, aperte le porte e smitragliato chi era ancora vivo, un po’ a casaccio, non in maniera precisa e infatti alcuni si sono salvati. Poi però furono ammazzati anche gli animali, le mucche furono fucilate. Spesso questa cosa è stata descritta come un elemento che indicava la crudeltà: “Guarda quanto sono feroci queste SS, che bisogno c’era di ammazzare gli animali?” In Era un giorno qualsiasi, Lorenzo Guadagnucci ricostruisce sulla strage di Sant’Anna di Stazzema: tra le 560 vittima anche sua nonna, Elena Guadagnucci, mentre il padre di Lorenzo, Alberto, si salvò per puro caso In realtà, la spiegazione che ho cercato di dare è che in quel momento erano tutti animali, c’era stato un processo di deumanizzazione delle persone ridotte tutte alla condizione di animali, cioè delle vite che si possono sopprimere senza riguardo e senza rimorso. Io la penso diversamente sugli animali, quindi non sto facendo un discorso di buon senso che non condivido, però questo è forse il percorso per cui a Sant’Anna sono stati ammazzati tutti allo stesso modo, perché facevano tutti parte della stessa categoria. Sarebbe stato paradossale salvare gli animali, perché avrebbe voluto dire attribuire agli animali nella ‘loro gerarchia’ un valore addirittura superiore agli umani deumanizzati: dalle SS è un po’ troppo forse aspettarsi un capovolgimento, una considerazione superiore degli animali rispetto agli umani deumanizzati. D’altra parte, anche la campagna contro gli ebrei si era basata molto sulla metafora animale: gli ebrei come topi da sopprimere perché sono infestanti, portano infezioni, malattie. Una subumanità, una non-umanità insomma; l’inferiore che è più di un nemico: è un non-umano, un’erbaccia da estirpare. E anche dentro la Diaz, alla fine, noi per loro non eravamo delle persone. Alle persone si chiede il nome, si dà un’identità e si riconosce una possibilità di dialogo perché anche in un rapporto di potere o di squilibrio di potere si può riconoscere una dignità. Lì non c’era, siamo stati trattati come dei sacchi di patate; di nuovo, come degli animali. Io su questa cosa qui ci ho ragionato su anni dopo, quando ho scritto un libro animalista Restiamo animali che comincia proprio dalla mia esperienza alla Diaz. Un libro in cui racconto la prima intervista che io ho fatto, da intervistato, dopo la Diaz e che mi è venuta in mente ad anni di distanza. Erano domande che mi fece una collega amica, quando era venuta a prendermi in ospedale per portarmi a casa, e nel tragitto in macchina ne approfittò per farmi un’intervista per un giornale online dell’epoca. Lei mi chiese non tanto di raccontare i fatti ma di dare un’immagine di quello che era successo alla Diaz. “Ma come la descriveresti?” mi chiese. “C’è un’immagine che restituisca quello che avete vissuto lì dentro?”E io le dissi: “Hai presente una tonnara?” Effettivamente a pensarci, noi eravamo dei tonni in quel momento per la nostra condizione, perché eravamo come in una tonnara dove i tonni aspettano il loro turno: sei ingabbiato, vedi i pescatori che pescano e uccidono altri tonni e poi tocca a te. È una questione fisico-geografica: sei dentro un recinto, prima uno e poi l’altro. Prima hanno picchiato quelli vicino a me, poi è toccato a me. Io ero un tonno per loro, per i Canterini-boys, perché loro si sono comportati con noi non come ci si comporta con delle persone. Non eravamo niente per loro, non avevamo la dignità della persona perché a una persona gli si riconosce quanto meno un diritto all’identità. Nelle perquisizioni si chiede il nome, si dice: “Questa è una perquisizione”. Quando c’è uno scontro fisico in piazza, per dire, c’è il Black Bloc che è disposto a un confronto fisico e tu sei attrezzato con manganelli, con scudi, con delle regole che puoi infrangere. Noi in quel caso non lo accettavamo lo scontro fisico, noi eravamo con le mani alzate a difenderci dalle botte. C’era troppa sproporzione. AB: C’è anche un altro parallelismo, che mi sovviene ascoltandoti. Nel 1944, il capro espiatorio erano i partigiani, che furono usati come scusa dai tedeschi così che potessero rifarsela sui civili; nel 2001, la scusa sono stati i black bloc e anche lì le forze dell’ordine se la sono presa con gente che non c’entrava niente. Nel 2001, e nel caso particolare della Diaz, si sono schermati dietro al 41 Tulps in quanto loro sostenevano che ci fossero lì sia le armi con cui erano stati creati i disordini sia un pericolo terrorismo e quindi poterono agire come hanno agito; mentre nel ’44 si schermarono dietro appunto i famosi ordini scritti o presunti tali. LG: Sì, con la differenza che alla Diaz applicarono il 41 Tulps perché se avessero chiesto l’autorizzazione al magistrato, dubito che gliela avrebbe data. GB: Tornando al ’44, mi verrebbe da farti una domanda più tecnica, che in certo senso è affine al punto da cui siamo partiti parlando di Genova: cos’è successo veramente a Sant’Anna? Era la solita tattica tedesca, come in tanti altri eccidi, di seminare il terrore fra la popolazione per allontanarli dalle zone di copertura tedesche – e allontanare anche il consenso che la Resistenza aveva fra i civili; oppure, come ricostruisce Paolo Paoletti nel suo libro (Sant’Anna di Stazzema: 1944, La strage impunita, ndr), è stato più un fatto isolato, una reazione a caldo per un proiettile sparato da un civile a Vaccareccia che ha colpito un sottufficiale tedesco? Perché i partigiani non c’erano più dall’8 di agosto, anzi la banda garibaldina del luogo si era proprio divisa, e per sessant’anni si è cercato di incolpare in tutte le maniere Walter Reder che era responsabile di altri eccidi in Italia, però fondamentalmente lui lì non c’era. Ti sei fatto un’idea su questo? Scattata nella piazza della chiesa di Sant’Anna di Stazzema pochi giorni prima della strage. Solo una bambina in questa foto si salvò. LG: La tesi dello sparo mi sembra sia stata ampiamente smentita dalla ricerca storica e anche dai processi, quindi non la ritengo credibile. Mi pare che si possa dire qualcosa sia sulla base della ricostruzione storica sia del lavoro fatto dai magistrati, anche attraverso le testimonianze che ci sono state. Sicuramente la strage di Sant’Anna rientra dentro questa strategia di fare terreno bruciato intorno ai partigiani, che era una strategia decisa dai tedeschi, ma era già stata praticata anche altrove. GB: In Est Europa, per esempio. LG: Tant’è che fu importato dalla Polonia, dalla Romania il reparto della 16.a divisione. Fu fatto arrivare in Italia quando il fronte si spostò lì e si capì che ci sarebbe rimasto per un lungo periodo. Quindi, quel reparto serviva per gestire questo tipo di situazioni: un esercito in ritirata, con lunghi periodi di sosta lungo le fortificazioni e col problema di questo fastidio dei partigiani – che quindi erano un fastidio, non erano un elemento ininfluente. Per lo specifico di Sant’Anna, a me sembra abbastanza convincente questa tesi, cioè che sia stata la prima di una serie di stragi che sono state definite eliminazioniste, nel senso che non avevano la caratteristica di mirare a un preciso gruppo partigiano; non c’era un gruppo operativo da colpire, non c’era neanche una rappresaglia da fare, perché non c’era stato un episodio che potesse essere inserito in una dinamica causa-effetto, un episodio di azione partigiana che avesse causato la strage di Sant’Anna. Quindi è una strage eliminazionista, decisa a freddo sostanzialmente, con premeditazione, organizzata, con un fine terroristico: spaventare. Quindi sacrificare quel posto, attuare questa strage voleva dire trasmettere un messaggio ben più ampio e infatti ce ne sono poi state altre in seguito con le stesse caratteristiche, pensiamo a Vinca. GB: Al padule di Fucecchio. LG: Appunto; ce ne sono state una serie che non hanno una spiegazione militare, dove si colpiscono civili inermi, in maniera massificata, perché più di 500 persone sono veramente tante da eliminare nell’arco di una mattinata. Mi sembra che sia la spiegazione più plausibile e quella più coerente con i fatti che conosciamo. GB: Quindi scarti completamente l’ipotesi del Paoletti. LG: Francamente sì. Non mi sembra che abbia avuto riscontri tra l’altro. Non torna anche con il tipo di organizzazione che c’era. Fu attuata proprio una strategia: le quattro colonne che arrivano, le vie di fuga bloccate, il raggruppamento delle persone e la concentrazione nelle stalle a Vaccareccia. Onestamente non mi sembra una reazione, ma sembra molto più una strategia di caccia e di gestione efficiente di un disegno d’eliminazione: è cominciato la mattina alle 7 a mezzogiorno era già finito tutto. GB: Con l’aggravante poi dei corpi incendiati per cancellare tutto. LG: Sì, cancellare poi sommariamente, perché in realtà hanno incendiato i corpi lì sul sagrato della chiesa. Anche tutti gli altri gruppi non erano pochi, solo a Vaccareccia erano 70 persone, pure lì hanno un po’ incendiato, però è stata una cosa non del tutto scientifica, nel senso che la tecnica probabilmente era codificata perché è stata replicata in tante situazioni. Ripeto: tolgo gli animali dalla stalla, metto le persone la stalla, chiudo le porte, tiro dentro le granate, apro le porte, i più sono morti, qualcuno si muove ancora, metto il mitra, smitraglio e poi do fuoco; però volevano evidentemente fare in fretta, non avevano questo bisogno di eliminare tutti. Se qualcuno scappava, se qualcuno gemeva, pazienza. Non è che c’avessero da nascondere qualcosa, perché avevano il controllo del territorio e non c’era qualcuno che gli inseguiva. Bisogna mettersi nell’ottica terribile, spietata della situazione. AB: Si torna sempre sulle convergenze: arrestiamone il più possibile, eliminiamone il più possibile. LG: Sì, ciò che voglio dire è che quello che è successo a Sant’Anna, s’è visto anche a Marzabotto, s’è visto anche a Vinca e così via. Non è che hanno ammazzato tutti, ci sono testimoni perché qualcuno è sfuggito. GB: Si dice che abbiano ucciso anche militari tedeschi, perché si rifiutarono di sparare a donne e bambini. Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini, i due pm che hanno portato alla sbarra i vertici della Polizia nel processo sui fatti della Diaz, basandosi anche su precedenti riferibili alla strage di Sant’Anna di Stazzema LG: No, questo non è vero, almeno secondo me no. Questo è un punto che è stato affrontato nel processo, sono state richieste anche testimonianze di storici, perché effettivamente questa è una delle cose che hanno cercato di introdurre a discolpa del comportamento di singoli militari e cioè che non potevi esimerti dall’eseguire degli ordini. In realtà il processo di Sant’Anna va in direzione opposta a questo, se andiamo a vedere cos’hanno detto i magistrati militari. E c’è anche un nesso molto stretto, che io cito nel mio libro, fra Sant’Anna e la Diaz perché incredibilmente – per me incredibilmente, perché nella mia famiglia c’era anche il processo di Sant’Anna – i magistrati Zucca e Cardona Albini nella loro requisitoria al processo sulla Diaz, ovvero nella sintesi finale quando sono arrivati a chiedere le condanne, hanno costruito l’accusa sulla ‘catena di comando’ e quindi non solo sugli autori materiali dei pestaggi, sostenendo che c’era una responsabilità di tutti, anche della gerarchia perché erano stati loro che avevano organizzato e reso possibile l’esito finale del pestaggio. Questa è una costruzione giuridica non scontata, che ci siano responsabilità di uno che non ha fatto niente, perché non ha torto un capello a nessuno il caposquadra Canterini, non ha picchiato nessuno. E allora nel costruire questo piano giuridico, questo tipo di responsabilità, i giudici del processo Diaz si sono rifatti al processo di Sant’Anna di Stazzema, perché è stato il primo processo a parlare di ‘catena di comando’, rispetto ai processi fatti su altre stragi; perché c’era stato qualche processo, come per la strage di Marzabotto con il processo Reder negli anni Cinquanta e Reder fu condannato. In quei processi, però, si dava per scontato che la responsabilità fosse dei singoli capi, per cui si chiama solo Reder a processo perché era il responsabile di quella squadra che faceva pattugliamenti e che fu protagonista dei massacri a Monte Sole; si chiama Max Simon che era capo della 16.a Divisione, e ci fu un processo Simon a Venezia, condannato. D’altro canto, si dava per scontato che i sottoposti non fossero responsabili di questi eccidi. A Sant’Anna non si è fatto un processo così, si è fatto un processo completamente diverso e si è detto che i responsabili sono esattamente quelli che rendono possibile tecnicamente la strage. I dieci che hanno avuto l’ergastolo, noi non lo sappiamo se hanno fatto qualcosa, probabilmente no. È probabile che non abbiano toccato un capello a nessuno, però erano tutte persone che avevano un ruolo di comando dentro una catena gerarchica e sono stati tutti condannati per la strage all’ergastolo. Allora quel tipo di sentenza non significa che tu vieni esentato perché hai dovuto obbedire, perché eri dentro una scatola gerarchica; vieni condannato proprio perché hai obbedito. Tu dovevi disobbedire. Filosoficamente e giuridicamente è tutto un altro mondo, quindi c’era un dovere di disobbedienza e gli storici interpellati sul punto hanno detto due cose: uno, che nelle regole di ingaggio dell’esercito tedesco questa regola dell’obbedienza dovuta non c’era, neanche nelle SS. Non c’era questa sentenza di morte in arrivo se ti rifiutavi di sparare alla Vaccareccia, non c’era una normativa che potesse far pensare che uno che alla Vaccareccia non volesse sparare con una mitragliatrice, sarebbe incappato in un procedimento penale fino a la pena di morte, non risulta; secondo elemento, che fu riportato dal professor Paolo Pezzino, a precisa domanda se ci fossero casi di procedimenti penale, esecuzioni addirittura di personale delle SS che avesse disobbedito a ordini di questo tipo, rispose di no. Anzi, ci sono casi che semmai testimoniano l’opposto. Lui fece l’esempio della strage delle Fosse Ardeatine, che originava da un attacco a questo reparto ausiliario altoatesino (Polizeireegiment “Bozen”, ndr). Quando fu fatta la rappresaglia, raccolte le persone e furono messe al muro, i capi (il generale Kurt Mälzer e il tenente colonnello Herbert Kappler, ndr) diedero l’opportunità al maggiore Dobek, capo del reparto altoatesini attaccato e vittima quindi dell’attentato di via Rasella, di essere il reparto incaricato delle esecuzioni. Una sorta di vendetta sostanzialmente, di risarcimento: “Vi hanno ammazzato i vostri commilitoni, voi fate il plotone di esecuzione”. E lui rispose di no, che non se la sentivano, che loro erano cattolici e questa cosa non la volevano fare e non l’hanno fatta. L’esecuzione è stata fatta da altri, ma non è che questo comandante o i suoi sottoposto hanno avuto procedimenti penali militari, assolutamente. Semplicemente lo ha fatto qualcun altro, quindi ci si poteva esimere, certo. E giuridicamente è stato detto che ci si doveva esimere. AB: Questo trincerarsi dietro la scusa del “stavamo eseguendo gli ordini” si è sentito ripetere con costanza anche a Norimberga. LG: Ed è una leggenda. AB: È un modo per trovare il capro espiatorio, anzi i capri espiatori – fra virgolette, perché non lo erano – scaricando la responsabilità sui gerarchi nazisti o fascisti che stavano in alto: “scarichiamo tutta la colpa solo su Hitler e simili, tanto sono già morti o condannati, noi abbiamo solo eseguito gli ordini”, appunto. È un po’ la stessa cosa che fanno Canterini o altri che come lui sono stati processati per i fatti del G8: si incolpa qualcuno che o per vari motivi non si può difendere o non esiste o, se c’è, è molto fumoso. LG: Ecco appunto, è tutto molto fumoso, perché gli autori materiali dei pestaggi alla Diaz hanno avuto cura di non rendersi riconoscibili. E quando qualcuno si poteva riconoscere, è stato detto che non sapevano come si chiamava. Per cui in realtà si sono protetti, non è che hanno detto: “Potevamo picchiare perché ce l’ha detto Canterini o quello sopra Canterini”. Lui sapeva bene che non poteva picchiare, perché non c’è nessuna legge che ti autorizza a picchiare chi è seduto in terra con le mani alzate. AB: Però si sono difesi, anzi si è difeso in particolare Canterini dicendo che lui non sapeva niente, che i suoi uomini sono arrivati, che a fare i pestaggi sono stati altri reparti mobili che lui non conosceva e così via, anche se poi è risultato evidente che i primi a entrare e picchiare sono stati i suoi uomini. LG: Diciamo che essendo imputato ha il diritto di mentire, ecco. Facoltà più che diritto. Arturo Bocchini, capo della Polizia italiana tra il 1926 e il 1940 (anno della sua morte), in visita a Berlino nel 1936, al fianco dell’ufficiale delle SS, Kurt Daluege. (Foto del Bundesarchiv, Bild 121-0140) AB: Abbiamo parlato dei processi di Sant’Anna, di Marzabotto, eccetera. Molti sono stati interrotti, tanti altri non sono mai iniziati e molte stragi sono state lasciate a marcire nel famoso ‘armadio della vergogna’, scoperto nel ’94, in un periodo peraltro decisamente particolare per la Repubblica Italiana, perché erano gli anni successive allo stragismo mafioso e quindi si era nella fase in cui si sarebbe raggiunto il cosiddetto ‘accordo Stato-Mafia’. In quell’armadio c’erano nomi e cognomi di persone, non solo italiane, che dopo la guerra hanno comunque avuto una carriera politica o nelle forze dell’ordine – fossero Polizia, Arma dei Carabinieri, Esercito o Servizi Segreti – che è un po’ la stessa cosa avvenuta dopo Genova, dove i responsabili hanno addirittura ottenuto delle promozioni. Nel mezzo, tra le stragi nazifasciste e il G8 del 2001, sono accaduti molti fatti ancora oggi meno chiari di quanto dovrebbero essere: dai golpe, su tutti il Golpe Borghese, a Capaci e agli altri attentati mafiosi passando per il terrorismo nero, la strage di Bologna, il Gladio e la P2, in una parola la ‘strategia della tensione’. Insomma, c’è stata e c’è tuttora una serie di misteri italiani che ancora non trovano chiarezza e sono talmente tanti che quasi ce la battiamo veramente con gli Stati Uniti in quanto a ‘cospirazioni’, reali o presunte, e informazioni o documenti secretati dalle istituzioni su eventi che hanno avuto risvolti anche a livello internazionale. Apro una parentesi: in molti casi, c’è una palese contiguità tra alcune zone d’ombra della storia americana del dopo guerra e quelle della storia repubblicana italiana; penso in particolare all’Operazione Condor attuata dalla Cia in Sudamerica, in cui per esempio emergono, tanto per dirne una, i legami tra la P2 e alcune dittature militari come l’Argentina. Chiudo parentesi e ti chiedo: il fatto che in Italia si sia sempre tentato di oscurare questi fatti, di nasconderli sotto il tappetto, fa parte di una strategia appunto, o è la conseguenza dell’indolenza di un Paese che non riesce fare i conti con sé stesso e col proprio passato, concedendo involontariamente e ingenuamente a queste frange più estreme e ai loro istinti autoritari un margine di manovra che consente loro di agire nell’ombra, di infiltrarsi e di emergere in aree strategiche del potere politico ed economico, anche attraverso reazioni, atti estremamente violenti, come alcune delle vicende che abbiamo citato. Sono insomma fenomeni politici e sociali che hanno una medesima origine magari, ma sono slegati tra loro, non consequenziali l’uno con l’altro, oppure c’è un filo rosso, anzi un filo nero che li unisce. LG: Ecco appunto, forse il filo è nero. Sì, io penso che ci sia un po’ un filo nero, nel senso che si può fare una storia delle istituzioni italiane, anzi è stata fatta, ci sono delle fonti alle quali attingere. Anche limitandoci alla storia unitaria, dove tutto sommato non è che si parli di chissà quanto tempo e certamente sono cambiate storicamente tante cose, però se vai a vedere, non ci sono stati dei grandi punti di rottura. Per esempio, concentriamoci sulle forze dell’ordine, sugli apparati polizieschi e militari, partendo dal modello della polizia del re. È un fatto storico, le polizie nascono dentro situazioni non democratiche. C’è il re e la sua polizia: la gestione dell’ordine pubblico è una cosa autoritaria. Ci sono i diritti dei cittadini da garantire, la polizia del re rimane per un periodo 1ungo, quindi si consolida, si forma una cultura, si allarga il numero degli appartenenti a queste forze dell’ordine, ai carabinieri e si cresce dentro una cultura di tipo militare. Non si ipotizza neanche che possano essere non militari, la polizia, i carabinieri eccetera. Ci sono gerarchie, ci sono gradi, ci sono le mostrine, il cappello e così via. Poi si arriva al fascismo. GB: Nel fascismo c’è un altro tipo di polizia, quasi ‘privata’ fondamentalmente. LG: Il fascismo ci mette dentro qualcos’altro ancora, un carico da novanta. AB: C’è una forza paramilitare che si unisce… LG: E che si affianca in qualche modo. C’è una convivenza fra il fascismo e le forze dell’ordine, perché c’è il Fascismo inteso come movimento e il fascismo che diventa Stato, che eredita tranquillamente quella tradizione di tipo militare, che mette i suoi semmai a guidare, a controllare. Arturo Bocchini, allora capo della polizia per esempio, è un personaggio che viene comunque da una sua storia militare che diventa poi fedele al regime. AB: Anche i reparti militari non è che si trovassero a disagio con il fascismo. LG: Non mi pare che ci sia stata una contestazione nei reparti militari, anzi penso che il grado di consenso degli apparati militari e della polizia per il fascismo sia stato piuttosto alto, non si sono avute notizie di disagi per un nuovo corso che non era poi così nuovo. AB: Anzi, forse meglio, almeno leggendo alcune fonti storiche su figure come il generale Cadorna per dire, che esaltò Mussolini scrivendo più o meno che se ci fosse stato lui nel ’17 non ci sarebbe stata Caporetto. LG: Esattamente. Quindi poi arriviamo all’unico punto di rottura possibile, quello del passaggio dal fascismo alla Repubblica, dove indubbiamente ci sono stati dei cambiamenti, però le linee di continuità sono state fortissime sia negli uomini sia nelle forme. Per cui la polizia del fascismo non è stata smantellata. Se andiamo a vedere addirittura le biografie dei prefetti, dei capi della polizia, è il personale che è stato fascista e che diventa antifascista. GB: E poi anticomunista. LG: Sì. Intendo antifascista, per dire che si inseriscono nello stato democratico, che è antifascista. Forse il termine antifascista non è proprio il termine corretto… AB: Però in effetti, anche nella Democrazia Cristiana, che faceva parte della Resistenza ed era quindi un ‘reparto’ dell’antifascismo, sono entrati molti che avevano un passato fascista. LG: Esatto, non c’è stata una rottura vera in quel momento, in cui può veramente cambiare qualcosa. C’è stata una continuità sostanzialmente. La gestione di Scelba per dire, non ha avuto niente da invidiare alla modalità d’azione della polizia del re o della polizia fascista, era più o meno la stessa cosa. È chiaro che quando dura così tanto, che nemmeno la frattura fascismo/democrazia riesce a cambiare veramente indirizzo, è difficile poi riportare le forze di polizia dentro i binari della cultura democratica che nel frattempo si è consolidata. C’è stato questo sforzo, perché nel 1981 fu fatta una riforma della Polizia, ci fu un movimento anche all’interno delle forze di polizia che agivano clandestinamente, perché il sindacalismo era vietato. Ci sono poliziotti che sono andati in galera per tentata costruzione di un sindacato interno e che è stato possibile organizzare solo dopo l’81, cioè quando il Parlamento ha votato questa riforma di smilitarizzazione della Polizia di Stato con l’ammissione del sindacalismo, che era uno dei portati di questo cambiamento sociale che c’era in Italia negli anni Settanta, quando ci son state riforme di tutti i tipi: la chiusura manicomi (meglio conosciuta come ‘Legge Basaglia’, ndr), la riforma scolastica, la riforma sanitaria, la legge sul divorzio, la legge sull’aborto, la legge sull’obiezione di coscienza. E fra queste c’era anche una riforma della Polizia. Per cui c’è stata questa finestra, però francamente le esperienze del G8, per come è stato vissuto il G8 dopo dalle forze di polizia, ci fanno dire che la riforma dell’81 è morta e sepolta. È ancora formalmente vigente, ma non nel suo spirito. GB: Che la riforma fosse stata attuata in seguito alla scoperta della P2, sempre nell’81, e per i relativi processi o conseguenze è possibile? LG: No, secondo me no. La riforma dell’81 si spiega con i movimenti degli anni ’70, con la democratizzazione della società italiana in quegli anni, che oggi vengono descritti come gli ‘anni di piombo’ e gli anni delle BR, che è anche vero, però sono soprattutto gli anni delle riforme. Tutte le riforme importanti italiane sono state fate negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta. La legge sul divorzio è del ’74, la riforma sanitaria è del ’78, la legge sull’aborto è del ’78 e fu confermata nell’81, la chiusura dei manicomi è ancora del ’78, la riforma scolastica del ’77. Tutte le riforme sono state fatte in quella stagione di enorme mobilitazione. Manifestazione contro il referendum abrogativo della legge sull’aborto – Roma – 18 maggio 1981 (fonte L’Espresso) AB: Sono concessioni che uno Stato è costretto a un certo punto a fare per evitare l’implosione. LG: C’era una richiesta della società fortissima. C’erano i movimenti dentro la scuola, non solo di studenti ma anche di professori. C’era una richiesta da parte del movimento delle donne, per cui la legge sul divorzio e sull’aborto. Sono cose che nascono dalla società e poi arrivano in Parlamento. Non è che il Parlamento si è messo lì a decidere di sua iniziativa. AB: In pratica, si trattava di un momento storico in cui si richiedevano dei cambiamenti sociali alla grande forza politica di maggioranza dell’epoca, che era appunto la Democrazia Cristiana, la quale di fronte a queste spinte si rese conto che la pressione sociale aumentava, aumentava il rischio di perdere il controllo della situazione e quindi venne un po’ costretta a fare delle concessioni. Ed è un po’ anche il processo che aveva dato il via al Compromesso Storico col Partito Comunista Italiano, che avvenne proprio in quegli anni e che in qualche modo ‘giustificava’ quelle concessioni della DC. LG: Però, questo ragionamento è un po’ viziato dalla situazione che viviamo oggi, dove l’attenzione è tutta sui partiti e sui governi. In realtà, negli anni Settanta non era così. C’era una centralità del Parlamento per cui queste leggi, tutte quelle che abbiamo nominato, sono state approvate in Parlamento con maggioranze che non corrispondevano affatto alle maggioranze di governo, che era guidata dalla DC con nel mezzo i partiti di centro/centrodestra e al massimo il PSI (Partito Socialista Italiano, ndr); per cui, la maggioranza per fare la riforma sanitaria o per approvare la legge per la chiusura dei manicomi o la legge di polizia e così via, si trovava in Parlamento con i voti dell’opposizione e spesso con la contrarietà del governo. La legge sul divorzio è stata fatta con la DC contraria ed era la DC, che esprimeva il Presidente del Consiglio, a organizzare per esempio un referendum per abrogare una legge che era stata appena approvata. Il governo era contro. Fanfani era il capo della DC, che aveva il controllo governo, ed è lui che organizza le firme per abolire una legge approvata dal Parlamento. Quindi, in quel momento il Parlamento aveva una centralità, per cui era normale che vi si facessero delle leggi indipendentemente dalle scelte del governo, dalle sue opinioni. Oggi non sarebbe più possibile, perché oggi le maggioranze sono blindate, il Parlamento è terreno di scontro. Non fanno una legge nemmeno a morire. La legge sullo ius soli perché non l’hanno votata nella scorsa legislatura? C’era la maggioranza, ma il governo in quel momento riteneva che se si fosse approvata quella legge, non avrebbe più retto. Ci sono altre dinamiche, altri modi di ragionare. Allora non funzionava così. AB: Se oggi il PSI della situazione o comunque le forze che sono all’interno di un governo di “larghe intese”, votassero una legge proposta dall’opposizione sulla quale la maggioranza di governo è contraria, crollerebbe il governo e bisognerebbe ripartire da capo. Non che ci fosse tutta questa stabilità anche negli anni Settanta, però magari si andava ai rimpasti. In ogni caso, il Parlamento aveva comunque una centralità che a tuo avviso oggi manca. LG: Aveva un’autonomia. Gli stessi parlamentari ragionavano diversamente, perché quando è stata presentata la legge sui manicomi, il relatore era un deputato democristiano, non è che l’ha fatta chissà chi. AB: E qui, rimanendo sugli anni Settanta, viene da pensare che all’interno del lato più conservatore della DC – il quale ebbe risvolti anche estremi e di contatto per esempio con l’MSI (Movimento Sociale Italiano, partito neofascista, ndr) e con certe forze dell’estrema destra extraparlamentari che erano legate fra loro e formavano proprio una sorta di “sottobosco nero” dell’epoca – in una situazione come quella che hai descritto insomma, forse questa ala più estrema riteneva che la Democrazia Cristiana o comunque il governo si fosse indebolito progressivamente e stesse concedendo troppo, arrivando quindi a dire “ora basta concedere” e cercando a più riprese di dare una svolta più conservatrice e magari anche autoritaria al Paese. Proprio in quel periodo poi viene fuori il discorso che riguarda la P2 e molto altro e a quel punto sembra la strategia cambi; si cerca di dare un altro tipo di svolta, magari meno autoritaria ma più adatta a conservare certi interessi di potere. E infatti, è una strategia che sembra pagare, perché da lì in poi, come dicevi, basta riforme. LG: Le cose effettivamente sono cambiate. Quello che poteva succedere negli anni ’70-’80, adesso non succede più, perché non c’è più questo collegamento fra Parlamento, partiti e resto della società. Adesso il parlamento e i partiti si concepiscono come altro dalla società: non hanno più relazioni con essa. AB: Quando c’è stato questo cambiamento che ha di fatto svalutato il Parlamento in favore dei partiti di maggioranza? LG: Ha cominciato a sgretolarsi quando sono comparse queste figure tipo Craxi, che hanno cominciato ragionare su forme di presidenzialismo, sulla personalizzazione della politica; e sul piano normativo, quando si è passati a preferire al ‘principio di rappresentanza’ il ‘principio di governabilità’. Per cui all’inizio degli anni Novanta cominciarono a dire basta a “questi governi che cadono, che si succedono di continuo, perché ci vuole più stabilità”. Nel frattempo, crescevano questi fenomeni sociali e politici di disinteresse per la politica, di perdita di peso politico dei partiti, anche di minore peso delle ideologie con il 1989 e il crollo dei partiti comunisti, in particolare del PCI in Italia che fu un disastro. A livello normativo, forse gli anni più significativi sono quelli del cambiamento della legge elettorale, dell’elezione diretta dei sindaci, dove il sindaco diventa un individuo che risponde alla collettività ogni 5 anni, non ci sono più delle forze politiche che si relazionano costantemente con la società. Lì te la giochi tutta in due mesi di campagna elettorale: e poi? Non c’è da rispondere a un consiglio comunale, tu hai già la tua legittimazione una volta vinte le elezioni e il discorso è chiuso. AB: Come se ci fosse un’onda lunga che dagli anni ’80 si indebolisce sempre di più – o si rinforza, dipende dai punti di vista – arrivando poi ai primi anni Duemila, al G8 appunto, al governo Berlusconi e tutto quello che ne consegue successivamente. Che poi non a caso quel governo Berlusconi è l’unico governo della storia repubblicana, a parte quello di De Gasperi forse, che fino a prova contraria è durato cinque anni. LG: Sì, poi appunto questa stabilità si è rivelata un mito, anche perché l’idea di proporre questi sistemi maggioritari bipolari, in culture politiche che non sono bipolari, non ha funzionato, mi sembra. Ci sono sempre almeno tre o quattro poli. Quindi ti puoi anche mettere insieme al momento delle elezioni, ma dopo le elezioni poi ti spacchi. È successo anche a Berlusconi con Fini. È un mito più che altro questo del bipolarismo, che però ha delle conseguenze pesanti, perché la rappresentatività si perde, il ruolo del Parlamento si perde, la democrazia è sempre meno democratica e tende a privilegiare la parte esecutiva rispetto a quella rappresentativa: in quello che prima era un bilanciamento, ora conta molto di più l’esecutivo del rappresentativo. I parlamenti oggi hanno un ruolo minimo. Guarda come vengono trattati, anche in questo governo. Draghi gli consentono tutto per cui non c’è opinione pubblica, non c’è giornalismo. Pensa a come hanno dato il Piano Nazionale di Ricoveri e Resilienza, praticamente dalla mattina per la sera, anche in maniera violenta e brutale. Chi aveva osato uno sgarbo del genere? Nessuno. Il Piano è stato presentato a mezzogiorno, alle 3 è iniziata la discussione e la sera alle 8 avevano già votato. Il Parlamento però non ha avuto la dignità di dire: come ti permetti? Insomma, almeno il rispetto dell’istituzione, ma ormai è pacifico che il Parlamento non conta niente. Conta il voto e basta. L’articolo 41 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (Tulps – R.D. 18 giugno 1931 n.773) prevede che ”gli ufficiali e gli agenti della polizia giudiziaria, che abbiano notizia, anche se per indizio, della esistenza, in qualsiasi locale pubblico o privato o in qualsiasi abitazione, di armi, munizioni o materie esplodenti, non denunciate o non consegnate o comunque abusivamente detenute, procedono immediatamente a perquisizione e sequestro”: ciò consente alla polizia giudiziaria di procedere alla perquisizione senza la preventiva autorizzazione di un magistrato. Mario Scelba, ex ministro dell’Interno ed ex presidente del Consiglio della Repubblica Italiana di ala democristiana. La legge n. 898 sul divorzio, o legge Fortuna-Baslini, entrò in vigore il 1° dicembre 1970, ma fu oggetto di scontri e a rischio abrogazione fino al 1974, anno in cui venne effettuato il referendum promosso dalla DC con il sostegno in particolare di MSI e gran parte del mondo cattolico e richiesto già nel gennaio del 1971. Il 12 maggio 1974 alle urne referendarie prevalse il ‘No’ all’abrogazione e la legge Fortuna-Baslini rimase in vigore. La legge n. 194 sull’aborto seguì più o meno lo stesso percorso della legge sul divorzio. Fu promulgata il 22 maggio 1978, fu a lungo oggetto di scontro finché si arrivò nel maggio del 1981 a un referendum, che prevedeva due quesiti sull’aborto: il primo era proposto dal Partito Radicale e richiedeva la totale liberalizzazione della pratica abortiva; il secondo era stato proposto dal Movimento per la Vita e richiedeva l’abolizione della legge stessa. Entrambe le proposte furono bocciate e la legge sull’aborto rimase in vigore, così come promulgata nel 1978. La legge 517 fu emanata il 4 agosto e nei suoi 17 articoli prevedeva, la modifica dell’assetto organizzativo della scuola italiano abolendo le classi speciali e inserendo nelle classi comuni gli alunni disabili, la modifica dell’ordinamento scolastico e delle norme sulla valutazione degli alunni, abolendo gli esami di riparazione. All’epoca dell’intervista, il cosiddetto Pnrr stava svolgendo l’iter di approvazione, che arrivò in maniera definitiva il 13 luglio 2021, dopo essere stato presentato a Camera e Senato rispettivamente il 26 e 27 aprile 2021 e, in seguito al via libera delle camere, trasmesso ufficialmente in data 30 aprile alla Commissione Europea (che avrebbe dato parere positivo) e , subito dopo, al Parlamento italiano.... Read more...La sottile linea nera: da Sant’Anna di Stazzema al G8 di Genova (Part 1) || Intervista a Lorenzo Guadagnucci || THREEvial Pursuit3 Novembre 2021La sottile linea nera: da Sant’Anna di Stazzema al G8 di Genova Intervista a Lorenzo Guadagnucci Parte 1 di Andrea Biagioni e Gianluca Bindi Scuola ‘Armando Diaz’ – Genova 2001 – AFP Photo by Gerard Julien Eccovi di seguito la prima parte dell’intervista integrale a Lorenzo Guadagnucci, apparsa in forma ridotta sul numero 21 di StreetBook Magazine. Buona lettura! Quando Lorenzo Guadagnucci ci ha chiesto dove incontrarci per questa intervista, Le Murate si prestavano perfettamente per quella chiacchierata. Lì, sono stati incarcerati e torturati prima i partigiani che hanno contribuito a liberare Firenze e l’Italia dall’occupazione nazifascista; poi i brigatisti, emblema di quegli “anni di piombo” ancora avvolti da inquietanti zone d’ombra. Oggi, Le Murate sono un luogo di cultura e di memoria ma anche d’intrattenimento, sempre più stritolato dalle spinte di un turismo frenetico e globale, mirato al solo profitto. Un percorso di riqualificazione iniziato nel 2001, l’anno del G8 di Genova, che Lorenzo ha vissuto in prima persona da giornalista e da testimone diretto, suo malgrado, dei fatti della Diaz. Non solo, Lorenzo è anche nipote di Elena Guadagnucci, una delle vittime di Sant’Anna di Stazzema. Sessantasei anni di storia italiana che sembrano avere un legame quasi carsico: una sottile linea nera che unisce le stragi nazifasciste a quella che è stata definita “la più grave sospensione dei diritti democratici in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale”. Andrea Biagioni: Penso sia inutile ripercorrere per filo e per segno quello che è successo in quei giorni a Genova, anche perché è quasi tutto documentato e sappiamo quindi molto sul come certi fatti sono avvenuti da piazza Alimonda alla Diaz, passando per Bolzaneto. Sarebbe inutile anche venire a chiederti di ripetere la tua testimonianza sulla Diaz, con aspetti che hai già riferito mille volte e peraltro in maniera molto dettagliata e approfondita nei tuoi libri. Quindi, la prima domanda è un po’ anticonvenzionale, perché sarebbe l’ultima che dovremmo farti. Sul G8 di Genova ci sono siti, libri, film, documentari, c’è quindi molto materiale e in questi casi può essere difficile raccapezzarsi, penso magari a chi come i più giovani il G8 non l’hanno vissuto, ne hanno appena sentito parlare e ci si vogliono avvicinare, sia a chi l’ha vissuto ma l’ha approfondito in maniera parziale e anche a chi è più esperto però magari gli mancano alcune fonti, alcuni documenti che possono aiutare a capire meglio quello che è successo. Tu per esempio che cosa consiglieresti di andare a guardare, siano dei libri, film, siti, facciamo tipo livello facile-intermedio-difficile. Lorenzo Guadagnucci: Diciamo che per partire si può andare verso l’accesso alle testimonianze raccontate in maniera quasi colloquiale, quindi per esempio il mio libro Noi della Diaz è un accesso. Un altro accesso sempre alla Diaz, è la graphic novel Quella notte alla Diaz. Una cronaca del G8 a Genova di Christian Mirra che era fra noi novantatré e che è l’unica rappresentazione visiva di quello che è successo alla Diaz perché non c’erano immagini, fotografie, niente. Questo penso sia già un livello di accesso facile per lo stile, per come si propone e anche il mio è un racconto che è quasi un diario giorno per giorno. Qualcosa di difficile, ma non so se dire più difficile, quindi direi di più specifico, più ampio, più complessivo sicuramente è il libro di Carlo Gubitosa, Genova nome per nome, che uscì già diversi anni fa, però è – anche per la parte processuale nonostante i processi non si fossero ancora conclusi – una bella ricostruzione di tutto quello che è successo a Genova non solo per la parte degli scontri, ma anche per quella politica e del movimento. È un bel volumone, disponibile gratuitamente in rete, anche se all’epoca uscì su carta. Un’altra testimonianza che però forse potrebbe andare anche fra le prime è quella di Marco Poggi, l’infermiere penitenziario di Bolzaneto, che è stato uno dei pochi – anzi sostanzialmente sono stati due tra le forze dell’ordine – a rompere la consegna del silenzio, dell’omertà: l’altro era il suo collega Ivano Pratissoli. Entrambi all’epoca hanno raccontato tutto al magistrato circa un mese dopo e hanno fatto un libriccino, quasi introvabile, che si intitola Io, l’infame di Bolzaneto. E poi il libro che ho fatto con Agnoletto, L’eclisse della democrazia, credo sia quello più completo; me lo dico da solo ma tanto voglio dire non è che stiamo parlando di grandi vantaggi economici né di altro tipo. Gianluca Bindi: Chiaro. Che sia un testo molto completo, lo si capisce leggendolo. Racconta bene tutta la nascita del movimento e di qual era la situazione politica e sociale all’epoca. LG: Sì, è aggiornato, facciamo nomi e cognomi, è forse la sintesi migliore e sarebbe un livello medio, nel senso che si può leggere o è fatto per essere letto da chiunque. Insieme ci metterei Gridavano e piangevano, che è un libro su Bolzaneto, scritto da Roberto Settembre, ovvero il magistrato che fece da giudice relatore nella sentenza di secondo grado; una volta andato in pensione ha scritto questo libro, in maniera narrativa diciamo così, ma tutto basato ovviamente sulla documentazione: un libro che fu scritto per lo shock provocatogli da quell’esperienza di giudice. A livello di documentari secondo me il lavoro migliore è quello di Blu Notte di Carlo Lucarelli.( All’epoca dell’intervista, nessuno di noi aveva ancora visto il documentario Il G8 di Genova – La Ricerca della Verità di Elio Mazzacane con la consulenza storica di Donatella Della Porta, proposto da Rai 3 all’interno della trasmissione La grande storia – Anniversari, condotta da Paolo Mieli. Il documentario di Mazzacane rappresenta un importante “aggiornamento” riguardo i fatti di Genova e soprattutto l’evoluzione dei procedimenti processuali dopo il 2007, anno in cui venne trasmesso l’ottimo lavoro di Carlo Lucarelli, ndr). AB: C’è anche un sito spesso citato che è processig8.net: quanto è “accessibile”? LG: È ottimo perché è pieno di materiali accumulati all’epoca, però lì bisogna essere un po’ addetti ai lavori per orientarsi. Non l’ho citato perché ti perdi se non sei abituato. Fu usato dalla segreteria legale, cioè questo gruppo di avvocati e tecnici che supportarono i processi per anni, e via via che questi materiali venivano fuori, venivano accumulati lì e messi a disposizione; però sono molto, molto specifici, se non sai di che si parla, ti perdi, non capisci cos’è importante e cosa non lo è. Rimane comunque è una fonte fondamentale per chi si avvicina professionalmente a questo tema. C’è un lavoro dietro professionale molto approfondito, di anni. AB: Chiuso questo capitolo, come dicevamo, è inutile ripercorrere tutto visto che di documenti appunto ce ne sono moltissimi per avere una conoscenza generica dei fatti. Andiamo quindi direttamente al sodo, ai dubbi che ancora ci sono sul G8 del 2001: c’è stata a Genova l’incapacità di gestire l’ordine pubblico, è sfuggito di mano il tentativo da parte delle istituzioni di demonizzare il movimento impropriamente definito No-Global e quindi il Genoa Social Forum, oppure tutto questo faceva parte di una strategia, una sorta di prova generale per un golpe da parte della destra come scrive Andrea Camilleri nella prefazione a “L’eclisse della democrazia” libro da te scritto insieme a Vittorio Agnoletto (portavoce del GSF, ndr)? LG: Ti posso dire la mia verità, la spiegazione che mi do. Credo che il problema sia stato non di ordine pubblico ma di ordine politico, che tutto quello che è accaduto, è avvenuto dentro una cornice di senso e di indirizzo che è quella di un sistema ideologico e di potere: il potere dominante delle forze politiche maggiori, dei governi dell’epoca. Parlo al plurale perché quello che è avvenuto a Genova, per il rilievo che aveva quell’evento, è stato più vistoso nelle proporzioni e per l’importanza delle mobilitazioni, però non è troppo diverso da come fu affrontato quel movimento anche in altri paesi, anche in altri contesti prima di Genova, e da governi di diverso colore politico che gestivano il potere in quelle situazioni specifiche. Quello era un movimento politico, il primo movimento di critica alla globalizzazione liberista e allo stesso tempo il primo movimento globale; un movimento competente, che aveva una capacità di elaborazione molto alta, che aveva alle spalle delle storie anche molto consolidate e che superava gli stereotipi sulla contestazione, perché l’arco ideologico-culturale andava veramente dalle suore missionarie ai centri sociali: tutte organizzazioni e realtà che capivano come per il proprio ambito di azione fosse necessario fare un passo in più, fare un passo politico. Anche solo concentrandoci sulla composizione del Genova Social Forum c’erano migliaia di associazioni (circa 1500, di cui 900 italiane, ndr) con una storia importante in vari ambiti: l’ambientalismo, il sindacalismo, l’associazionismo. C’erano Ong, associazioni legate alla cooperazione internazionale e al commercio eco-solidale, insomma tutte esperienze consolidate. Non erano quindi contestazioni fini a sé stesse o teste calde che scendono in piazza, così. Ricordo che il primo Social Forum Mondiale di Porto Alegre nel gennaio 2001 era, come dire, frastornante quasi per la quantità di argomenti. In questo campus all’Università di Porto Alegre, c’erano decine di seminari, ognuno su un argomento diverso, ognuno con competenze diverse. Quindi era un forum di discussione, l’interesse era per i temi, era per le questioni che erano nuove, c’era voglia di capirle di conoscerle. Era un movimento che poneva una questione politica e apriva un fronte politico nuovo, perché diceva: “Attenzione, il mondo è cambiato. Lo scenario sul quale agire politicamente è quello globale, gli interlocutori non sono più i governi nazionali, i parlamenti nazionali. Sono le nuove organizzazioni sovranazionali che hanno un potere molto maggiore dei singoli governi. I processi politici ed economici si decidono in altre situazioni che non sono quelle canoniche e che siamo abituati a pensare che siano i luoghi di decisione. Non si decide più a Roma, per dire, si decide altrove, alla riunione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization,ndr), si decide nel consiglio di amministrazione del Fondo Monetario Internazionale. Lì si prendono le decisioni strategiche che cambiano le vite delle persone”. Basta pensare ai piani di aggiustamento strutturale che sperimentarono in America Latina, cioè dei piani di ripianamento del debito in cambio delle cosiddette ‘riforme’, dove riforme vuol dire ‘liberalizzare e privatizzare’: ebbene queste erano decisioni che prendevano il Fondo Monetario, la Banca Mondiale, la WTO e che i parlamenti locali subivano, non decidevano. Erano come ricattati e sottoposti a una pressione dovuta alle dinamiche globali. Quel movimento disse: “Il nuovo potere è questo”, a Seattle contestò la WTO. Chi la conosceva prima l’Organizzazione Mondiale del Commercio? Inoltre quello del Social Forum era un movimento che sfondava gli stereotipi, lì superava gli stereotipi sulla contestazione, perché non era etichettabile come un movimento di estrema sinistra. Non si poteva dire questo, perché magari c’era l’estrema sinistra ma l’arco ideologico-culturale andava veramente dalle suore missionarie ai centri sociali passando per i Medici con l’Africa Cuamm o Medici Senza Frontiere: tutte organizzazioni e realtà che capivano come per il proprio ambito di azione fosse necessario fare un passo in più, fare un passo politico. Allora con questo movimento fu deciso, fu scelto di non confrontarsi con gli strumenti della politica e del dialogo, fu scelta la via del rifiuto, della contrapposizione attraverso gli strumenti classici, se vuoi: l’uso della forza e la criminalizzazione. Una criminalizzazione che è stata anche mediatica. Mentre in Italia ci si organizzava, ci si rendeva conto che c’era un fermento che da tanto non si vedeva e che non s’è più visto in questi anni: questa voglia di fare, di organizzarsi, di discutere. Invece, nel pre-Genova politicamente e mediaticamente s’è parlato di tutt’altro rispetto alle questioni che dicevamo prima e che il Social Forum affrontava e voleva affrontare. Si è parlato degli scontri, delle violenze in arrivo, del pericolo che questo movimento rappresentava e basta. GB: A questo punto viene da chiedersi che ruolo abbiano avuto le forze di polizia e in generale le autorità, le istituzioni: al servizio delle organizzazioni sovranazionali a cui accennavi prima come Fmi, WTO eccetera? LG: Sì, diciamo di sì. GB: Secondo te c’è stato anche l’interesse, da parte del nuovo governo Berlusconi appena è instaurato, a dare subito un impatto autoritario al Paese? LG: Io non credo sarebbe andata molto diversamente se non ci fosse stato il governo Berlusconi, perché la risposta e il modo di confrontarsi con quel movimento è stata simile fra governi di centrodestra e centrosinistra. AB: Non a caso, Genova era stata scelta per il G8 dal governo D’Alema: scelta che era già stata contestata. LG: Sì, ma lo trovo poco rilevante. Spesso si cita l’esempio di Napoli qualche mese prima, dove ci fu una manifestazione del Global Forum a marzo che fu affrontata nello stesso modo, cioè con un uso sproporzionato della forza con eventi molto simili a quelli poi avvenuti a Genova, con la gente prelevata nei pronto soccorso, maltrattata nelle caserme. Credo che il punto sia proprio questa risposta politica che fu data, cioè di ostracismo e di criminalizzazione mediatica, di confronto con gli strumenti della forza pubblica. Ce lo conferma la preparazione che ci fu con questa grancassa mediatica di fake news, come le chiameremmo oggi. All’epoca non si usava questa espressione, ma di questo si tratta quando si divulgano notizie come appunto sequestri di poliziotti oppure cose anche più incredibili come il lancio di sangue infetto che se uno comincia a pensarci cosa significa, voglio dire… come si fa per esempio procurarsi del sangue infetto? Eppure erano informazioni che venivano riportate su giornali importanti, rivelandosi poi prive di fondamento. AB: Tra quelle testate c’erano appunto Corriere, Repubblica, Il Secolo XIX e tante altre per intendersi. E quando parlavano dell’imminente G8, ne parlavamo con i termini di una guerra batteriologica, come se all’interno del Genova Social Forum ci fossero delle organizzazioni paramilitari. LG: Sì, ma poi anche molto specializzate, come se ci fosse un laboratorio, perché ripeto, prendiamo quella del sangue, che si diceva fosse infetto di AIDS: intanto procurarsi del sangue, non so, forse una donazione di sangue dei manifestanti, boh; oppure doveva essere infettato da qualcuno che lo sa fare, ma come disse Vittorio Agnoletto che è un medico (a lungo non a caso, presidente della Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS), il sangue che entra a contatto con l’aria smette di essere infetto. Quindi, son cose anche fantasiose che però entravano in questa cornice e quindi venivano accettate per quanto fossero inverosimili. E poi, che ci fosse nei confronti del movimento un ostracismo premeditato, ce lo conferma la preparazione delle forze di polizia a Genova: fu una preparazione di tipo militare, con un impiego direi sistematico di forze speciali da parte dei vari reparti, in particolare i carabinieri che misero in campo i loro reparti di ‘pronto intervento’, direi bellico. C’erano dei reparti che erano reduci dalla Somalia, che poi dopo Genova sono stati in Iraq, per dire, quindi non erano reparti specializzati nella gestione di manifestazioni politiche-sindacali, dove è tutt’altro lo scenario e così la modalità di intervento, perché non hai un nemico davanti, ma dei manifestanti. Tu porti questi reparti specializzati, gli usi in piazza – perché non è che siano stati a guardare, in piazza Alimonda c’erano reparti di questo tipo – e in qualche modo precostituisci quello che poi accadrà ed è puntualmente accaduto. Quindi io non credo che ci sia stata una genesi delle violenze all’interno delle forze di polizia indipendente da questa cornice. Credo che la genesi delle violenze si spieghi dentro questa cornice e le forze di polizia hanno agito con modalità che è difficile sintetizzare, però alcune cose le abbiamo capite anche semplicemente da certi comportamenti. GB: Tu che idea ti sei fatto, riguardo la condotta delle forze dell’ordine? LG: Io credo di poter dire che in generale tutte le condotte sono state attuate nella consapevolezza di avere come minimo una copertura politica rispetto ai propri comportamenti, in molti casi anche una copertura giudiziaria, cioè un’aspettativa di impunità. Non si spiegherebbe altrimenti la quantità di violenze plateali, anche di fronte ai propri colleghi. A Bolzaneto, le torture sono andate avanti per tre giorni e, a parte alcune decine di agenti che le hanno praticate e le hanno attuate in qualche modo o con l’omissione o con l’azione, altre decine se non centinaia di agenti, hanno frequentato questo posto per tre giorni e nessuno ha detto niente, nessuno è intervenuto, quindi come dire, c’era un largo consenso sulla liceità di azioni che poi si sapeva essere illecite. Allo stesso modo, non si spiega la violenza dentro la scuola Diaz così brutale, così selvaggia, così pericolosa. Che non sia morto nessuno è assolutamente casuale… AB: Si son fermati solo perché hanno visto o pensavano che qualcuno fosse morto. LG: Sì, pensavano di averne ammazzato uno, e comunque qualcuno è andato in coma, quindi il fatto che siamo vivi, non vuol dire che non si sia rischiato… e un comportamento così violento a mio avviso si spiega solo se hai la certezza di non doverne mai rispondere. Allo stesso modo, la quantità incredibile di falsi in atto pubblico, è difficile spiegarla se non in termini appunto di sapere che non se ne dovrà mai rendere conto. Sono stati falsificati una quantità incredibile di verbali, di documenti, verbali d’arresto e rapporti della magistratura, false testimonianze una dietro l’altra. È quasi tutto falso quello che è stato scritto ufficialmente dalle forze di polizia. E poi l’omertà come regola rigidissimamente rispettata. Quindi tutto questo a mio avviso non si spiega con un’improvvisa perdita di lucidità collettiva. AB: Un’altra delle questioni che non tornano, è quella riguardante i black bloc, il grande spauracchio dietro cui si è creata la demonizzazione del Social Forum, perché è tutto stato impostato su quello: il rischio erano i black bloc. Però, dovevano fermarli alle frontiere, e non è successo; dovevano fermarli lì a Genova e non è successo. A Genova questo gruppo è presente e agisce in una maniera ben precisa: arriva, crea disordine, sparisce e si raduna in un altro punto. La Polizia, e in generale le forze armate arrivano sempre in ritardo e, a quanto mi risulta, di black bloc fermati in quei giorni, nemmeno mezzo. È un po’ strano. Ma intanto, tu li hai visti agire? LG: Sì sì, io li ho visti, nel libro Noi della Diaz l’ho raccontato. Questi gruppi erano pressoché sconosciuti in Italia. Il Black Bloc era più un fenomeno degli Stati Uniti, del nord Europa e si era cominciato a parlarne nei mesi precedenti a Genova, in alcuni degli appuntamenti che ci furono fra gennaio e luglio 2001: si manifestavano ogni volta che c’era una riunione di questi organismi di cui abbiamo parlato, però in Italia, se ne sapeva veramente poco perché non c’erano state occasioni per loro di manifestarsi. AB: A Napoli non si erano presentati. LG: No, infatti non si erano mai visti e fu a Genova che si videro in azione. Io ricordo di aver visto, sabato 21 luglio, che si avvicinavano allo schieramento delle forze di polizia sul lungomare. Ricordo di aver descritto una ragazza che passava in mezzo a corteo, tutta vestita di nero, apparentemente del nord Europa, che si univa a questo gruppo per poi andare a fare questi lanci di pietre, di molotov. Abbastanza estranei al resto dei manifestanti. D’altra parte i black bloc si presentano non come un’organizzazione ma come un modo di agire, quindi chiunque può fare il black bloc e star dentro il Black Bloc, anche semplicemente decidendolo sul momento, senza conoscere gli altri: non è richiesto di partecipare. Sfilata di appartenenti al Black Bloc – Genova 2001- ©R.PONTI/G.NERI – Fotografo: Ponti AB: Ciò che stupisce e spiazza un po’, già dal venerdì, è proprio il loro modo di agire: arrivano a Marassi, incendiano il portone di Marassi, scappano, li inseguono, si riuniscono in altre aree e ricominciano, portando di fatto i disordini nei luoghi dove le forze di polizia caricheranno in manifestanti della rete Lilliput in piazza Manin e le tute bianche in via Tolemaide, a cui seguiranno gli scontri in piazza Alimonda. Arrivo, colpisco, creo disordine, fuggo, mi riunisco e riparto, in sequenza: una modalità quasi paramilitare, non molto anarchica. E poco anarchiche, come diceva Lucarelli nel documentario di Blu Notte, appaiono le pseudo parate militari in cui si esibiscono. Perché c’è questa modalità di attacco da parte del black bloc? LG: Bisogna riconoscere che esiste questa idea di azione di piazza, che si attua attraverso queste forme e che sì, a me sembrano paramilitari: facevano anche delle marcette con dei tamburi, un abbigliamento non proprio innocente, anche nel modo di proporsi. Bisogna anche dire che in questi gruppi del Black Bloc, c’erano alcuni che si organizzavano, che si preparavano. Poi via via si sono uniti altri che a loro volta praticano, teorizzano e rivendicano tuttora la necessità, l’opportunità, la loro scelta di stare in piazza anche facendo delle azioni diciamo più muscolari, che si possono non condividere. Io la trovo una modalità abbastanza superata, secondo me meglio trovarne altre, però bisogna riconoscere che c’è questa modalità, non è fuori dalla storia dei movimenti, è dentro la storia dei movimenti. A Genova però questo aspetto si è totalmente inserito in quella cornice che dicevo prima, ha fatto comodo. Se non ci fosse stata si sarebbe dovuto inventare, tant’è che sappiamo come le forze di polizia si fossero premunite, perché nel caso non ci fossero state abbastanza occasioni di pretesti, di azioni violente, di teppismo o quello che sia da parte di manifestanti, si era pronti a crearle. GB: C’era bisogno di un casus belli, comunque. LG: No, però sai se fosse stato un sit-in sarebbe stato problematico criminalizzare, dire “vedete sono violenti, questo è un problema di ordine pubblico, non è un problema politico”. È chiaro che se qualcuno tira delle pietre, spacca delle vetrine, saccheggia il supermercato è meglio dal punto di vista della rappresentazione mediatica di ‘movimento violento’, eversivo e che non deve essere ascoltato perché sa solo spaccare vetrine, perché poi alla fine è questo: “il no-global è lo spacca-vetrine”, questo è il messaggio che si è cercato di trasmettere. Si erano premuniti con l’infiltrazione, che è uno strumento di polizia secolare. AB: Ecco appunto, le infiltrazioni della Digos all’interno, ci sono, si sono viste e si sono visti i video, personaggi ambigui che parlavano con le forze armate. LG: Certo, sono documentate. Qui in Italia è un argomento di cui si parla malvolentieri, però secondo me è un dato di fatto. Devo dire comunque che, secondo me, la pietra tombale sopra qualsiasi discussione ce l’ha messa David Graeber, antropologo prestigiosissimo d’ispirazione anarchica, docente universitario ma militante morto purtroppo l’anno scorso. Lui era vicino a queste posizioni di protesta anche più muscolare, per cui non si scandalizzava se qualcuno spaccava una vetrina, e in uno dei suoi libri parla tranquillamente di pesante infiltrazione nel Black Bloc a Genova. AB: C’era anche un altro tipo di possibile infiltrazione di cui si parlò un po’ all’epoca ma di cui adesso non si parla quasi mai. Mi riferisco al rischio d’infiltrazione nel Black Bloc dei gruppi di estrema destra. Ci sono segnalazioni, testimonianze riguardo la loro presenza, ma oltre a questo il vuoto. LG: Diciamo che sono stati segnalati in più occasioni, Forza Nuova e altri gruppi, però che io sappia non c’è documentazione e anche da parte loro, come dire, di racconto della loro presenza, c’è pochissimo o niente. Furono segnalati, questo sì. Mi ricordo che anche Vittorio Agnoletto, come portavoce del Social Forum, trasmise alle forze di polizia segnalazioni che aveva ricevuto di presenza di gruppi organizzati di estrema destra, con potenziali azioni di disturbo, però non mi risulta altro. GB: Incredibilmente sono spariti. LG: Sì, sono spariti e non ci sono state indagini di nessun tipo. Rispetto al Black Bloc, una cosa che balza agli occhi è che abbiano agito indisturbati a fronte di un dispiegamento di forze senza precedenti. Si parla di decine di migliaia di agenti di tutte le forze dell’ordine, e anche di militari, che hanno permesso quelle azioni. La giustificazione che qualcuno ha balbettato è che sarebbe stato troppo pericoloso intervenire, poi però gli interventi ci sono stati in realtà. Le cariche ai cortei sono state pesanti, violente e quindi non è che si è scelto di non intervenire. Gli interventi sono stati fatti, però guarda caso non a colpire chi poteva essere fermato anche a norma di legge – perché ci son delle regole che alcuni hanno consapevolmente infranto. Quindi, diciamo che la gestione dell’ordine pubblico, se la vogliamo analizzare da un punto di vista tecnico, è stato un fallimento gigantesco, perché da un lato dici che Genova è stata saccheggiata, dall’altro hai un pugno di mosche in mano perché non hai né controllato né hai fermato i responsabili e quando hai sostenuto di averli fermati, come nel caso della Diaz, neanche uno di quelli sei riuscito a ricondurlo a comportamenti illegali. Poi ovviamente tutto va inserito in quella cornice di cui si parlava all’inizio. Un’aula della scuola Diaz – Genova 2001 – Alberto Giuliani, Luzphoto AB: Passiamo un attimo alla Diaz e a un personaggio nello specifico: Vincenzo Canterini (comandante del Primo reparto mobile di Roma VII Nucleo Sperimentale, élite antisommossa i cui agenti furono i primi a fare irruzione alla Diaz, ndr). Rivedendo il confronto di qualche anno fa tra Agnoletto e Canterini – che per l’altro non si erano mai visti da quel giorno alla Diaz – con Enrico Mentana a moderare, c’è un aspetto che mi ha colpito. Vincenzo Canterini cerca di difendere sé stesso e i suoi con ogni mezzo fondamentalmente, questo è evidente, però all’interno di questa “difesa” qualcosa dice. Addirittura molto spesso ad Agnoletto dice, “Vengo sulle sue posizioni”, arrivando anche a dargli ragione perché altro non può fare. Agnoletto non gli contesta quello infatti, gli contesta ovviamente altro, gli contesta molto semplicemente il fatto di volerne uscire completamente pulito come se lui e i suoi uomini fossero i salvatori della Diaz e non tra i responsabili. Però ripensando al discorso della strategia e della cornice, il ragionamento di Canterini fila: “Sì, c’è qualcuno che ha voluto la Diaz, qualcuno dall’alto”. Il problema è che Canterini si ferma lì, rimane a metà strada, fa nomi che ormai già son venuti fuori e non altri: non ti dice chi dall’alto ha voluto la Diaz, non lo vuol dire probabilmente ed è difficile pensare che uno come Canterini, che era a capo del Nucleo Antisommossa, non sapesse assolutamente niente, che non sia venuto a sapere qualcosa. Comunque, arriviamo al punto. L’irruzione alla Diaz è stata decisa quindi per ‘portare il punto a casa’ visto il disastro di ordine pubblico che era stato fatto nei giorni precedenti? O c’era un altro motivo specifico, politico e da inserire in quella famosa cornice? LG: Diciamo innanzitutto che rispetto a tutto quello che è avvenuto, c’è stata una consegna del silenzio che i magistrati hanno forse chiamato con la parola giusta: omertà. Ed è stata rispettata in maniera militare oserei dire, tassativa quasi. Questa è una costatazione che dobbiamo fare, perché tuttora è così. Sulle motivazioni che lo portano ancora a tacere su alcuni aspetti sai, a noi risulta ovviamente difficile andarle a indagare perché ragioniamo su parametri che non credo siano quelli che può avere un appartenente a un corpo di polizia come Canterini, il quale pur essendo ora un civile ha di fatto un’etica di tipo militare e ha vissuto una lunghissima stagione di leadership carismatica, sulle cui caratteristiche abbiamo tanti dubbi, poche certezze, parecchie sensazioni. C’è un gruppo di persone che ha fatto quadrato, si sono protetti l’uno con l’altro e nessuno ha osato spezzare il fronte tranne, Ansoino Andreassi, l’allora vice capo della Polizia, che è morto pochi mesi fa. Andreassi non era per storia personale legato al gruppo di Gianni De Gennaro, che è stato un po’ il deus ex machina della Polizia per qualche decennio e capo della Polizia in quel luglio 2001; è stato il poliziotto italiano di maggior successo, di maggiore prestigio internazionale, cresciuto nell’Antimafia, braccio destro di Falcone: è lui che ha gestito Tommaso Buscetta per riportarlo in Italia. Nella sua carriera dentro la Polizia, si è portato dietro una serie di persone, di suoi collaboratori che sono poi tutti quelli che hanno gestito la vicenda Diaz. Andreassi aveva una storia un po’ diversa, si è trovato come vice capo e non è un caso che sia stato esautorato nel momento di maggiore difficoltà di De Gennaro. Quel sabato 21 luglio, De Gennaro era in una posizione difficilissima, perché la gestione dell’ordine pubblico da un punto di vista tecnico era stata peggio che disastrosa. La città, come dicevano i politici, messa a ferro e fuoco. E tu cos’hai portato a casa? Quanti di questi violenti e terribile appartenenti ai black bloc hai arrestato? Nessuno. Allora Andreassi non era imputato perché quando ci furono le riunioni preparatorie dell’intervento alla Diaz lui si pronunciò contro e disse che non andava fatta questa cosa, quindi poi non partecipò all’operazione, ergo non era imputato perché non era coinvolto. Fu ascoltato come testimone. E lui diede una spiegazione ‘del perché la Diaz’, una spiegazione poi accolta di fatto dalla sentenza. Disse che c’è questa regola non scritta dentro le forze di polizia: quando tu hai accumulato degli insuccessi, sono successe delle cose che non dovevano succedere in piazza, tu hai bisogno di contrapporre qualcosa, cioè devi arrestare della gente. Fu così che la mattina – e sottolineo la mattina, non la sera – del sabato 21 luglio, arriva a Genova il braccio destro di De Gennaro, Arnaldo La Barbera. Andreassi viene accantonato e si cominciano a fare questi “pattuglioni” cosiddetti, cioè bisogna arrestare gente e attribuirgli le colpe di quello che è successo in piazza nei giorni precedenti. Per cui fecero una perquisizione e alcuni arresti collettivi alla scuola ‘Paul Klee’ e poi la sera fecero questa operazione alla scuola Diaz, che non era una scuola a caso come poteva essere la ‘Paul Klee’, dove c’erano stati e c’erano passati – secondo le informazioni che loro avevano – alcuni black bloc, tanto che fecero un arresto di gruppo, ma poi i giudici non confermarono gli arresti, quindi anche tecnicamente un po’ maldestra come operazione. La scuola Diaz, invece no. La Diaz era il quartier generale del Genova Social Forum, di Agnoletto e del GSF, che dicevano “noi siamo contro i black bloc, sono nostri avversari, siete voi che li dovete prendere. Che c’entriamo noi, non siamo noi la Polizia. Siete voi la Polizia”. Allora, la Polizia voleva poter dire: “Quelli del Black Bloc li abbiamo presi a casa vostra”. È anche un assist che fai alla politica, perché è come se tu gli dicessi: “Il GSF che fanno i santi in realtà sono complici, tant’è che quelli del Black Bloc sono passati da loro”. E la Diaz è stata raccontata così in conferenza stampa. Quindi la spiegazione del perché si fa questa operazione alla Diaz c’è. Sul piano tecnico è stata gestita in quel modo, diciamo. Sul perché sia stata condotta così, sul perché gli agenti (del Primo reparto mobile di Roma VII Nucleo Sperimentale, gruppo d’élite antisommossa comandati da Vincenzo Canterini, ndr) e quelli delle altre squadre mobili abbiano agito in quel modo, io devo pensare fossero persone disposte e preparate a fare questo. Sul perché il gruppo di Canterini abbia agito in quel modo, siccome io li ho visti all’azione gli uomini di Canterini, non è che mi venga a raccontare tante storie. Loro non hanno fatto alcuna perquisizione in nessun momento, hanno semplicemente picchiato selvaggiamente chi si sono trovati davanti. G8 Genova 2001 – AP Photo GB: Tutti. Sia loro del reparto antisommossa sia altri. LG: Loro sicuramente sono i primi che sono entrati e sono i più responsabili. AB: Gli altri reparti chi erano? LG: Erano squadre mobili di varie città. Invece quelli di Canterini erano stati preparati prima del G8, in vista del G8. Avevano i manganelli tonfa e gli era stato spiegato che cosa sono quei manganelli, che non sono i manganelli ordinari. Se io uso con forza un manganello su una spalla, per dire, ci sta si spezzi il manganello: col tonfa si spezza la spalla e sono di un materiale che non si spezza. Quando a Michelangelo Fournier, il vice di Canterini, gli fu fatta una domanda in tribunale su questi tonfa, lui disse che gli istruttori americani che gli presentarono questi strumenti gli fecero notare che – lui usò questa espressione – spezzano le ossa di un bue e sono armi letali. A seconda di come le usi tu puoi ammazzare una persona perché le ossa del cranio si sfondano. Con lo sfollagente no, ti fai un bernoccolo al massimo. Questo è il punto. Loro hanno agito così perché, io devo pensare, fossero persone disposte e preparate a fare questo. Canterini sostiene che il reparto fu selezionato fra quelli psicologicamente più stabili, più affidabili. Io francamente non ci credo. Se venissero fuori, si facessero conoscere magari ne potremmo parlare. Non sappiamo il nome e cognome di nessuno di loro. Rimane il fatto che loro hanno agito in quel modo, ci sono testimonianze inoppugnabili e a mio avviso se hanno agito in quel modo – non so se fosse una loro valutazione o una loro sensazione o ancora se qualcuno glielo avesse detto esplicitamente, non lo posso sapere – però loro hanno agito in quel modo nella certezza dell’impunità, non trovo altre spiegazioni per cui una persona di una squadra mobile che guadagna 1300 euro al mese, rischia di ammazzare una persona per nulla. AB: Canterini scarica la colpa solo sugli agenti delle squadre mobili, quella grande macedonia di quasi quattrocento agenti, a suo dire sconosciuti, scagionando parte della sua squadra. LG: Questo è falso, scaricare sugli altri è facile. AB: Di fatto l’unico gruppo davvero preparato per un intervento come quello che era stato preparato alla Diaz, erano loro. LG: Non c’è alcun dubbio, perché ci sono testimonianze convergenti di chi, come me, stava dall’altra parte manganelli. Non ci conoscevamo fra di noi, continuiamo a non conoscerci, eppure abbiamo detto tutti detto la stessa cosa. Ci sono i filmati che mostrano i suoi uomini che entrano per primi, quindi quelli che sono entrati per primi e che hanno cominciato i pestaggi sono loro, non c’era nessun altro dentro la scuola Diaz prima che entrassero loro. Canterini una volta ha citato anche il mio libro per dire che lo dicevo anch’io che c’era questa macedonia di agenti, ma non è proprio così. Prima sono entrati loro, perché hanno mandato loro come testa d’ariete e hanno cominciato loro a pestare. Poi è vero che sono entrati anche altri e alcuni degli altri si sono aggiunti. AB: Insomma, anche quello di Canterini sembra un tentativo maldestro di depistaggio. LG: Un tentativo maldestro che non ha avuto nessuna eco da nessuna parte, cioè nessuno gli ha dato retta, in tribunale è roba che non resiste un minuto. Non puoi usare queste parole così a casaccio di fronte a decine di testimonianze e di filmati. Non valgono niente. Lui ha eseguito degli ordini. AB: Certo, l’unico dubbio che ti viene nell’ascoltarlo è di questa concertazione dall’alto, che rispondeva evidentemente anche a delle necessità politiche non solo italiane ma internazionali, nella quale Canterini e i suoi uomini, come molti altri, si sono trovati a svolgere il ruolo del perfetto braccio armato. LG: Esatto, non è Canterini la persona più importante di quella sera. Operativamente non era lui a comandare, lui era sottoposto a una catena di comando dove c’erano persone ben più importanti di lui. (Continua…) La manifestazione era stata organizzata in opposizione alla riunione dell’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) sul digital divide. Nel frattempo, il governo D’Alema era caduto e si era instaurato il governo Amato, sempre di centrosinistra.... Read more...Mal di vivere in Senegal, un articolo di Gianluca Bindi || THREEvial Pursuit20 Ottobre 2021Mal di vivere in Senegal Sono stato in Senegal e devi subito smettere di lamentarti della tua vita di Gianluca Bindi Dopo due anni dall’ultimo viaggio fatto e, in particolare, dopo un anno e mezzo di arresti domiciliari pandemici, gli astri finalmente si sono di nuovo allineati per farmi partire. Perché proprio il Senegal? In realtà è capitato, come tutte le cose belle che non si programmano. Non ero mai stato in Africa prima e un mio amico giornalista si è trasferito a Dakar l’anno scorso: già questi mi son sembrati alla fine due ottimi motivi per la scelta. Dopo un primo impatto abbastanza scioccante, dopo qualche giorno di elettroencefalogramma piatto in cui essudavo (parola molto calzante climaticamente) stress accumulato e dopo essermi calato, di conseguenza, in una bolla di relax completo in cui manco mi ricordavo chi ero e cosa facevo in Italia, una piccola ma significativa epifania si è palesata nei miei neuroni, ovvero l’idea che noi occidentali siamo una massa abnorme di ragazzine viziate che si lamentano costantemente. Come mi è venuta quest’illuminazione? Perché anche se il Senegal è a tutti gli effetti uno degli stati più stabili dell’Africa, sicuramente non presenta una vita facile come la nostra. E quindi questo articolo ha (o almeno si pone) come obiettivo farci capire che ora basta, abbiamo rotto i coglioni. Note del redattore: la vera pregnanza del significato di questo titolo la capirete solo in fondo a questo articolo. Meteo “Non è mica il caldo, è l’umidità che ti ammazza” “Oddio fa così caldo che ho fatto una sudata incredibile” “La pioggia mi ha veramente stufato, ha allagato tutto il sottopassaggio, è il degrado ormai”. Vi avverto, al mio rientro in Italia se sento ancora una frase del genere vi ammazzo io, non l’umidità. Il caldo in Africa è veramente un caldo di quelli seri. Prendete Firenze ad agosto, diciamo verso le 2 di pomeriggio e mettetevi una coperta di lana addosso: a quel punto inizieremo a ragionare. Il fatto è che in Senegal non sono così stupidi come noi italiani, che dobbiamo guardare i reportage di Studio Aperto per capire che bisogna bere tanta acqua, mangiare frutta e verdura e non uscire nelle ore più calde. Loro lo sanno benissimo ma, comunque sia, escono lo stesso perché sono necessitati a farlo. Parlo di donne, vecchi, giovani e bambini che si incolonnano nel traffico a bordo delle loro auto, oppure affollano le bancarelle ai lati della strada. Una volta ho provato ad andare a una lavanderia di guineani (una costruzione in cemento aperta sul davanti ma senza porta, e senza finestre sui muri) e la combo lavatrici in funzione più ferro da stiro mi ha fatto quasi svenire. E loro sono lì mattina e sera, 7 giorni su 7. Io invece ho iniziato a pisciare sudore dalla pelle come se qualcuno mi avesse azionato misteriosi irrigatori interiori. Ti si crea una patina, un nuovo strato di pelle umido, un liquido non-newtoniano che non ti lascerà più, non importa quante docce o bagni nell’oceano tu faccia. Ti accorgi pure che il deodorante perde completamente la sua funzione. Al primo contatto con la pelle, viene lavato via, espulso come materiale di scarto da quella mostarda sopra cutanea che si è creata sotto la tua maglietta. E poi la pioggia. Le piogge in Senegal non sono temporali estivi, sono rubinetti di Gesuccristo a manopole spalancate. Le città si trasformano in piccole Venezie senza gondole, dove fare pochi chilometri diventa un’esperienza mista fra rafting, immersioni subacquee e la traversata biblica del Mar Rosso. Le dimensioni di queste pozzanghere sono paragonabili infatti a piccoli laghi, che occupano a volte intere strade (sì, anche quella davanti al Ministero dell’Interno). Le fogne non reggono, ma le autorità locali continuano a far spuntare palazzi come funghi di cemento. Il camion sturante gira impazzito per i vari quartieri risolvendo a tratti la situazione, che viene aggravata dal fatto che lo scolo viene ributtato in strada, causando sia molto imbarazzo olfattivo sia, indirettamente, la cacaiola della mia prima settimana per aver fatto il salutista ed essermi mangiato un’insalata di verdure crude. Le piogge vengono, fanno casini e soprattutto ti danno l’illusione: senti qualche brezzettina che sì, lì per lì, rinfresca anche, ma quando ritorna fuori il sole tutta l’acqua che ha raggiunto il suolo ritorna in cielo sotto forma di vapore termodinamico che passa attraverso il tuo corpo. E forse a quel punto avresti preferito il caldo di prima, quello con solo il 98% di umidità. Traffico e viabilità “Il traffico a Firenze è invivibile” “Mamma mia che palle ci ho messo 40 minuti per fare i viali” “Oddio i cantieri per la tramvia, voglio morire”. Tutte puttanate, dalla prima all’ultima. Lo ammetto, anche iomi sono crogiolato spesso nei moccoli e negli insulti dell’automobilista. Ma grazie al Senegal ho cambiato idea. Solo rimanendo a Dakar, la capitale, alcuni dei suoi quartieri presentano per la maggior parte strade sterrate con un notevole sottobosco di sassi, spazzatura e dossi “naturali”. Poi ci sono le buche che sono veri e propri crateri in cui pneumatici e sospensioni delle auto (non proprio modelli appena usciti, ma piuttosto carrette sulla trentina tenute in vita artificialmente da interventi meccanici discutibili) esprimono tutto il loro dolore esistenziale. Non c’è un piano per la viabilità urbana. Andiamo dai carretti trainati da cavalli che trottano in corsia di sorpasso di un’arteria principale (in piega perché hanno una ruota sullo spartitraffico), per finire con le betoniere che transitano a manciate sulle viottoline a senso unico del centro abitato. Invece della tramvia, di cui tutti ci lamentiamo non si sa bene il perché, qua ho visto pulmini dell’anteguerra senza aria condizionata, a volte così zeppi che alcune persone rimangono aggrappate allo sportello posteriore aperto, a 20 centimetri dall’asfalto e dalle ruote della macchina successiva. I tassisti, con cui devi contrattare il prezzo anche per fare un chilometro, non demordono mai, tanto che secondo me dopo una settimana saresti in grado di fare la tua porca figura come broker di Wall Street. “Ma scusa allora come la mettiamo con l’ora di punta? Milano, Roma, Firenze e altre città italiane alle 18 sono veramente insostenibili”. Dilettanti. Qui la congestione cittadina si perpetua in maniera costante e distribuita in diversi picchi dalle 17 alle 21. Ore in cui semplicemente non ti muovi e in cui pensi seriamente di passare la notte in auto col tassista. Ma anche le mattine sono insidiose, con tanto di uscite dell’autostrada bloccate e riempite da pedoni-venditori di cose più disparate. Per le tratte extraurbane vieni messo in delle macchine condivise e, se a loro torna più comodo o non ci sono abbastanza passeggeri, possono decidere arbitrariamente di lasciare tutti alla stazione di un paese che non era la metà prefissata. In quel momento parte una vera e propria compravendita di passeggeri al miglior autista offerente – a cui vieni ceduto senza diritto di parola e men che meno diritti umani basilari – in posti dove l’umanità ti scorre addosso, dove urla, elemosine, vendite e rumori di cose percosse si mescola all’afa e all’impenetrabile lingua locale. Dopo un tempo indefinito finalmente riparti, ma ancora non puoi sapere se arriverai a destinazione o verrai scambiato di nuovo come una carta dei pokémon. Ma c’è una cosa peggiore di tutto questo in Senegal: guidare di notte fuori città. Con la strada completamente buia, il parabrezza sudicio, intaccato di sbreghi e i fari alti delle auto puntati negli occhi o da dietro negli specchietti ti ritrovi a dover scansare una nutrita selva di cose varie ed esseri umani: bambini attraversanti che, politically correct o meno, rimangono comunque neri e il nero a casa mia si confonde con l’oscurità; gente che corre o che mangia o che finalmente fa cose dopo essere stata tutto il giorno chiusa a ripararsi dal caldo atroce e che non ha paura di niente, nemmeno di essere stirata; dossi a punta non segnalati e dello stesso colore dell’asfalto a cui di solito seguono buche della stessa forma e profondità (tanto che sono abbastanza sicuro che per costruire i dossi gli addetti ai lavori spacchino e si servano direttamente dell’asfalto limitrofo); gli immancabili e ingombranti carretti portacose, tanto lenti quanto insuperabili; animali vari. Ad oggi non sono totalmente sicuro di non aver investito qualcuno o qualcosa. Essere fuori forma “Ho messo su un chilo intero, mi devo riguardare” “Dopo questa cena basta, mi metto a dieta” “Io la farei anche un po’ di attività fisica ma proprio non trovo il tempo”. L’unico problema che si evince da queste frasi, perdonatemi il francesismo, è che siete degli stronzi dal culo pesante, me compreso sia chiaro. I senegalesi possono avere certo un sacco di problemi, ma una cosa la sanno fare benissimo: allenarsi e, più in particolare, correre. Sulla spiaggia di Saly, dopo una giornata passata ad alternare bagni nell’oceano e spiaggiamenti a stella marina facendo molta attenzione a rilassare anche il più piccolo e insignificante muscolo, ad un tratto, verso le 6 di sera, vedo riversarsi sul lungomare un esercito di benintenzionati. Sono così tanti che, all’improvviso, mi pare di aver posto l’asciugamano con sopra il mio peso nel pieno tratto autostradale Barberino-Roncobilaccio. Vedo questi assatanati sfrecciarmi accanto, in gruppo o da soli che fanno ripetute sulla sabbia a velocità inaudita oppure direttamente l’intera costa al passo di maratona fino al Gambia e ritorno. Io lo definisco, né più e né meno, un complotto per farmi sentire in colpa. Poi mi sposto sotto una palma, ma non posso non notare che la parte alta della spiaggia è subito colonizzata da campi di beach soccer improvvisati. Campi chilometrici, con porte minuscole difese da portieri/armadi, in cui si gioca solo 5 contro 5. Non ho mai giocato a calcio, ma a volte mi dilettavo il martedì sera a giochicchiare contro cinquantenni che si sentivano male per la peperonata non digerita, tanto l’obiettivo era fare gol e ovviamente NON correre, e aspettare che la palla arrivasse sui piedi per combinarci qualcosa. In Senegal è diverso: loro intendono il calcio come un complicato sistema di leve e specchi per correre, il gol non interessa. Faccio la cazzata di farmi convincere da Davide, il mio amico, a giocare. Dopo due scatti i miei muscoli si bloccano, la mia circolazione sanguigna erutta fuori dai vasi, e da lì in poi non faccio altro che cadere con il muso per terra. Lì ho la realizzazione: sono diventato il cinquantenne che non ha digerito la peperonata. Alla fine vengo trasportato d’urgenza fuori dal campo, la mini partita è finita 1-0 per i nostri avversari, le altre (a turno hanno giocato fino al tramonto) tutte 0-0. In generale questo non succede soltanto in spiaggia. Anche a Dakar, sulla Corniche, sempre alla solita ora fino al tramonto, si possono vedere centinaia e centinaia di persone che si allenano, corrono, fanno flessioni e che usano le decine di strumenti ginnici messi a disposizione dall’amministrazione locale. Purtroppo, però, di tutto lo sport che fanno ce n’è uno che non riescono a fare proprio, un po’ per mancanza di impianti, un po’ per cultura: il nuoto. In Senegal, nessuno sa nuotare. Ho visto adolescenti reggersi al bordo delle poche piscine turistiche esistenti profonde anche solo 1 metro e 80. Si vedono ragazzi nelle spiagge chilometriche che fanno il bagno tutti insieme nel solito e ristretto tratto di costa, supervisionati da un unico bagnino che fischia tutto il giorno, non appena qualcuno si allontana un attimo. Molti bambini e ragazzi invece non ce la fanno e muoiono affogati (solo nei primi sei mesi del 2021 ne sono morti una cinquantina solo nella regione di Dakar). Stavolta, abbiamo davvero rischiato di perderlo. TF... Read more...Santarcangelo 2050 || Intervista a Corps Citoyen ed Elasi || THREEvial Pursuit6 Ottobre 2021Intervista a Corps Citoyen ed Elasi Santarcangelo 2050 di Three Faces Futuro Fantastico – Santarcangelo 2050 “L’arte esiste solo attraverso la contaminazione forse per la prima volta ho visto a Santarcangelo un festival veramente per ogni gusto, per ogni sensibilità” Abbiamo pensato non ci fosse introduzione migliore di questo mash up a due frasi, estrema sintesi del Santarcangelo, mon amour! della nostra cara Thea C. Efres, per ribadire l’essenza del Santarcangelo Festival e presentarvi di conseguenza le ospiti di questa specie di intervista doppia a distanza: Anna Serlenga del collettivo artistico Corps Citoyen; ed Elasi – al secolo Elisa Massara – cantautrice e producer alessandrina. Come alcuni di noi, come Thea, entrambe hanno respirato l’atmosfera del Santarcangelo 2050, oltre che da spettatrici molto interessate, anche e soprattutto da protagoniste, seppur ognuna in maniera molto diversa. C’è infatti tra i loro approcci artististici una notevole distanza e proprio per questo ai nostri occhi Corps Citoyen ed Elasi hanno rappresentato perfettamente – per quello che, ahinoi, abbiamo potuto vedere in appena tre giorni – le due estremità all’interno delle quali si muove una manifestazione plurale come quella organizzata quest’anno dai Motus (al secolo, Enrico Casagrande e Daniela Nicolò). Da un lato, il teatro che sfrutta gli stilemi classici della drammaturgia per una sperimentazione fluida, facendosi metateatro e allo stesso tempo critica sociale che non lascia letteralmente scampo a nessuno. Dall’altro, la musica elettronica che si fa arte performativa, ma che mantiene nelle sue molte variazioni una vena popolare che, proprio in quanto tale, sa essere alla portata di chiunque. Questo rappresentano “Gli altri / الاخرين” (si pronuncia “Lokhrin”) di Corps Citoyen e il concerto di Elasi. Non la monotonia di festival monotematici, monoartistici, monocolore, monoedonistici, ma un mondo plurale, un Futuro Fantastico, dove c’è e ci deve essere spazio per tutto, dove non è importante la soggettività di ciò che piace o non piace, ma l’offerta di un’eterogeneità artistica dove ogni spettatrice, ogni spettatore abbia la possibilità di scegliere e di incappare in qualcosa che non avrebbe mai pensato potesse gradire e che invece lo colpisce come una freccia inattesa, scoccata da un punto che si credeva vuoto, morto, cieco. Per riuscire in questo intento chi organizza deve saper scegliere, o meglio, capire come scegliere. Al netto del fatto che l’operazione è ampiamente riuscita, noi non possiamo sapere quale sia stato il percorso mentale dei Motus da quanto punto di vista, possiamo solo supporlo con ampi margini di errore, darvi quindi un’impressione. E la sensazione è stata che sulla scelta dei vari artisti abbia pesato il percorso, non pensando però a ‘quale e quanta’ strada quello o quella artista o quel collettivo si è lasciata alle spalle, ma concentrandosi su come si è percorsa quella strada, sulle scelte che si è deciso di fare ogni qualvolta il cammino ha proposto una o più vie. Ed è proprio da qui che partiamo con Anna Serlenga. Gli altri / الاخرين – Corps Citoyen – Santarcangelo 2050 «Corps Citoyen è un collettivo pluridisciplinare che è nato a Tunisi nel 2013 dall’incontro mio con Rabii Brahim, Saoussen Babba e Ayman Mejri. Insieme abbiamo prodotto un primo lavoro, Muovma!, che in qualche modo indagava e cercava di ribaltare la prospettiva orientalista sul racconto delle cosiddette primavere arabe, a partire dalla messa in scena di questi tre attori e testimoni di quei giorni, che attraverso un processo di lavoro fisico e di archivio visuale interrogava un pubblico occidentale sulla necessità di un cambiamento. E questo è stato un primo progetto che poi ha portato all’allargarsi del collettivo dove nel 2016 sono entrati anche Francesca Cogni, Alessandro Rivera Magos e Lilia Ben Romdhane che sono rispettivamente un’artista visiva e illustratrice, un antropologo e fotografo e una poetessa e architetta. Con loro abbiamo lavorato per qualche anno su dei progetti di creazione partecipativa che è l’altro cuore pulsante di quello che facciamo, ovvero lavorare nei territori con le persone. Questo lavoro si è tradotto quindi in diversi progetti come El Aars e The wedding project, che abbiamo portato a Tunisi nel 2017 alle biennali JAOU – Nation Migrante e Dream City Festival. Poi, tra il 2017 e il 2018, per ragioni di vita, io e Rabii abbiamo deciso di spostarci in Italia, a Milano, dove chiaramente ci siamo ritrovati in una situazione particolare, nel senso che da un lato c’era la voglia di tessere nuove reti, quindi di allargare un po’ il tipo di lavoro che stavamo facendo e questo ha portato alla creazione di un altro progetto di Corps Citoyen che è Milano Mediterranea, ovvero un centro d’arte partecipata, quindi di nuovo lavoro territoriale, in questo caso nel quartiere Giambellino; dall’altro abbiamo deciso di rimettere un po’ in scena quello che a Rabii è successo da attore una volta arrivato in Italia perché, come lui stesso dice sempre, “prima di venire in Italia facevo l’attore, da quando sono venuto in Italia faccio l’attore arabo”, e questa cosa chiaramente si è concretizzata in proposte di scenari, di film, di script, dove appunto i ruoli erano sempre quelli: l’immigrato clandestino, il terrorista, l’assassino, eccetera. Tutto questo materiale è confluito nella creazione de Gli altri, attraverso il dispositivo del casting che in qualche modo rimescola, ribalta un po’ realtà e finzione, per cui quello che sembra finto è reale. Tutto quello che voi avete visto è materiale documentario, ivi compresa quella sceneggiatura che veramente è stata proposta così, scritta con quell’italiano lì». Anna qui si riferisce a una scena de Gli altri, in cui a Rabii viene proposto di recitare in alcune scene di un film – che tutti d’accordo nel ricordare di produzione o ambientazione danese e se ci sbagliamo dobbiamo iniziare seriamente a preoccuparci della nostra sanità mentale – nelle quali lui chiaramente deve interpretare l’immigrato rissoso che, preso di mira da un gruppo di nazi, si ribella coinvolgendo alla fine anche il suo amico, ovviamente caucasico, e scatenando la più classica delle guerre tra poveri in stile L’odio. Rabii Brahim – Corps Citoyen – Santarcangelo 2050 Sperando ci perdonino per l’estrema sintesi e sottolineando la presa straordinaria della scena dove sembra di essere contemporaneamente sul set e al cinema, ciò a cui fa riferimento Anna appunto, è il linguaggio che Rabii è costretto a utilizzare, ovvero un italiano raffazzonato, grammaticalmente scorretto fino al parossismo e al ridicolo, proiettato su schermi trasparenti – che più di semplice scenografia sembrano essere essi stessi attori – in modo da rendere partecipe anche il pubblico della caricaturalità di quelle frasi che suonano talmente male da portare Rabii a chiedere se le frasi siano “giuste” così, nel senso di volute, con la voce di Anna fuori campo che ne ribadisce la “correttezza”. E quello della comunicazione – manipolata, distorta, veicolata su stereotipi in cui possono cadere sia reazionari che progressisti, perchè insito nella (presunta) egemonia culturale dell’Occidente – è un altro tema che emerge dalla rappresentazione scenica, anche se Anna corregge il nostro tiro su un aspetto. «Non parlerei di comunicazione, quanto più di narrazione. Che tipo di racconto si fa e soprattutto di chi può parlare, cioè chi è il soggetto che ha il diritto di parola nella sfera pubblica? Questo sicuramente ha un cuore pulsante nel nostro lavoro da sempre, che da un lato diventa lavoro partecipativo inteso come momento, possibilità di non calare dall’alto delle narrazioni intorno per esempio a un quartiere, ma di provare a costruirle con gli abitanti delle cittadine, e lo stesso vale appunto anche all’interno di progetti artistici di creazione partecipata; dall’altro riguarda sicuramente il grosso tema de Gli altri e cioè che Rabii, per esempio, non ha mai voce in capitolo, non può mai dire la sua, non è mai il soggetto che parla, ma in qualche modo viene parlato, viene raccontato dagli altri con questo gioco di specchi per cui gli altri siamo noi ma anche loro, a seconda della prospettiva che decidiamo di adottare. Questo lavoro di manipolazione poi si estende anche al pubblico, per cui nel talk show alla fine non solo a Rabii vengono modificate le parole, ma addirittura incolliamo delle voci, dei pensieri a delle persone, quindi assegniamo quasi delle identità. Per questa ragione abbiamo aperto questo open call che poi ha dato vita alla parte visuale del lavoro, ovvero il casting de “Gli altri”, il quale coinvolge nei video che avete visto altri attori afrodiscendenti, che a loro volta giocano un po’ dentro lo stesso schema narrativo in cui si trova lo stesso Rabii. Noi quei video li abbiamo usati per lo spettacolo, ma in realtà è tutto materiale improvvisato, eppure sembrano “scritti” perché sono tutte esperienze e riflessioni talmente coerenti, talmente simili che alla fine abbiamo scelto di utilizzarle in drammaturgia, anche se nascevano come d’improvvisazione pura». Gli attori che hanno partecipato al casting – e che abbiamo potuto “conoscere” attraverso video mostrati nel corso dello spettacolo – non vivono tutti in Italia bensì in diverse nazioni. Eppure, come già sottolineato da Anna, hanno mostrato attraverso il racconto delle loro esperienze professionali (e personali in alcuni casi) come esse siano affini a quelle di Rabii, nonostante vivano in paesi che siamo abituati a considerare decisamente progressisti su certi temi o, comunque, nettamente più avanzati rispetto a noi. «In realtà è un problema molto comune, molto diffuso e ci piaceva proprio il fatto che in realtà tutte queste persone abitano in città diverse d’Europa come Berlino, Parigi, Roma, Lisbona, perché ci fornisce lo spettro di una situazione che noi crediamo relativa alla nostra povera Italia, ma che in qualche modo è superdiffusa anche da un punto di vista europeo e ce ne siamo accorti portando lo spettacolo in residenza a Berlino». «C’è chi ci ha detto che questo spettacolo non ha scampo, non lascia spazi di resistenza ed è vero. Rabii lui finisce la sua tirata finale, minacciando di farsi esplodere esplodere, però poi alla fine mi chiede “andava bene così?”, perché tutto sommato è vero che c’è una compartecipazione alla costruzione degli stereotipi. Spesso purtroppo le persone si trovano in una tale posizione di subalternità in certi rapporti di potere che gli riesce difficile potersi negare, potersi rifiutare di partecipare a certe situazioni. Il fare questo spettacolo è il nostro modo di agire, reagire, resistere in qualche forma e dare una possibilità a una storia diversa, un racconto diverso. Noi chiaramente qui ci riferiamo al mondo della rappresentazione, è un gioco dentro gli spazi del teatro, della docu-fiction, del talk show, ma abbiamo deciso di muoverci in questo territorio perché è il nostro, quello che abitiamo, è quello che conosciamo meglio. Inoltre, è il luogo della rappresentazione per eccellenza, della costruzione di una realtà fittizia che è quella della scena ed è un modo per noi di raccontare la società. Semplicemente abbiamo scelto di ragionare intorno al nostro mezzo, perché è quello che noi meglio conosciamo e maneggiamo. Quella della posizione di questo attore nei confronti della regia è in realtà una metafora, perché alla fine la stessa dinamica che per certi aspetti potremmo ritrovare in un supermercato o alle poste. Da parte nostra, c’è quindi la ricerca di una nuova narrazione possibile ed è l’aspetto che è stato intercettato da Daniela e Enrico dai Motus, a cui io ho fatto da assistente all’Università Iuav di Venezia – dove continuo peraltro a fare attività di ricerca – e questo ha creato un legame affettivo ma anche professionale. Per cui è capitato che, durante una delle residenze de Gli altri, sono venuti a vedere il lavoro e hanno deciso che poteva essere presentato all’interno della cornice del festival, dove essendo anche il cinquantennale c’era un carattere un po’ speciale, considerando l’attenzione di Motus sempre mirata a creare una nuova geografia, che includesse quindi anche figure che normalmente sono al di fuori dei circuiti di produzione diciamo classici, come collettivi e gruppi, tra cui noi appunto, che siamo fieramente indipendenti da dieci anni». Ben diverso il percorso che ha portato Elasi – che è uscita col suo primo Ep, Campi Elasi, poco meno di un anno fa – al Santarcangelo 2050, anche se qualche punto di contatto con quanto detto da Anna lo si trova. Anche più di uno. Elasi – Santarcangelo 2050 «Il mio percorso è molto lungo, nel senso che ho iniziato da molto piccola a suonare, anche dal vivo. Considera che io ora vivo a Milano, ma sono nata ad Alessandria, son cresciuta lì e ho fatto la mia gavetta in provincia. Alessandria purtroppo è una città che culturalmente, artisticamente non ha molta offerta, però mi sono accorta parlando con dei miei amici e con conoscenti che ci sono molti ragazzi che fanno i creativi o lavorano nel mondo dell’arte, anche se poi sono costretti ad andare a vivere in altri posti, perché qui non ci sono né luoghi di ritrovo, né occasioni di espressione e neanche modi per fare rete tra creativi e artisti. Quindi, abbiamo deciso di costituire questo collettivo che si chiama GASA – Giovani Alessandrini Si Attivano, con il quale organizziamo degli eventi, ovvero dei vernissage in cui si mescolano musica, mostre, performance in luoghi della città da valorizzare e da riscoprire, perché credo ci siano delle città, dei paesi un po’ dimenticati che sarebbero bellissimi se si organizzassero eventi del genere, come facciamo noi molto in piccolo nel nostro territorio o come fanno a Santarcangelo appunto. Questo è uno degli aspetti che adoro di questo festival, mi piace il fatto che venga valorizzato un intero paese attraverso l’arte». Una riflessione cche è venuta anche noi e che in qualche modo si accorda col pensiero di Anna Serlenga che poco prima ci aveva detto «le cose più belle che ho visto sono state quelle pensate per Santarcangelo, dentro Santarcangelo. Penso a El Conde de Torrefiel che ho trovato magnifico, ma anche a Grand Bois. Prendo l’esempio di Grand Bois, in particolare, perché c’è dietro tutto un pensiero anche complesso legato per esempio al rituale vodoo (di tradizione haitiana, ndr), che però poteva essere fruito da chiunque; che anche chi non avesse nessuna notizia di che cosa stava succedendo, veniva comunque colpito dalla potenza di quell’immagine, di quel suono, della poesia di vedere la città dall’alto punteggiata di questi fari blu. Ecco questa secondo me è stata la cosa potente di quei giorni. Però mi ha colpito anche il fatto che ci fosse un clima estremamente poco d’élite, che spesso invece si ritrova nei circuiti della performance o comunque dell’arte contemporanea. In qualche modo si è riusciti a tenere insieme veramente la dimensione popolare, della fruizione di un festival, a una proposta che invece è molto raffinata e, in generale, la capacità di tenere insieme alto e basso, popolare e raffinatezza mi sembra sia uno dei pregi maggiori del festival». Grand Bois – Bluemotion / Fanny & Alexander / Tempo Reale – Santarcangelo 2050 Per certi aspetti, questa considerazione di Anna appara simile a quella fatta da Elasi e a quella che in quei giorni di Luglio, ci siamo scambiati tra noi. Ed è stupefacente, perché se togliessimo ogni segno di interpunzione dialogica, i nomi di ogni intercolutore e volgessimo tutto il discorso alla prima persona singolare, questo articolo risulterebbe coerente a tal punto, che si potrebbe davvero credere sia stato pensato e scritto da una sola mente. E invece quella che state leggendo, è una pluralità di voci, anche se sembrano una sola. Leggere quanto dice Elasi per credere. «Un altro aspetto bellissimo del Santarcangelo» prosegue Elasi «è che vengano mescolate le varie arti. Secondo me è la perfezione di un festival, perché nel momento in cui le forme di espressione si intrecciano e non vengono catalogate. Se fai un festival solo di teatro o solo di arte contemporanea e solo di musica le cataloghi un po’, le dividi, mentre in realtà i confini tra le Arti dovrebbero essere molto fluidi, almeno secondo me. Si sente ancora molto distacco tra il teatro, il mondo del teatro, il mondo della musica, il mondo delle arti performative in generale. Invece questa fluidità al Santarcangelo c’è e non c’è nessun tipo di paura nel lasciare spazio alla libertà di sperimentazione ed era infatti da una vita che volevo andarci, aldilà del suonare e del mio essere musicista, perché amo l’arte in tutte le sue sfaccettature e quindi anche l’arte performativa è un tipo di espressione che mi piace mescolare con le mie sonorità. Non potevo che essere felicissima di venire coinvolta in un ambiente del genere. In più, ho notato che la programmazione musicale era praticamente incentrata su donne che fanno musica elettronica, ognuna in un modo diverso, che lavorano con la musica elettronica con linguaggi diversi. È stato veramente bello essere in una programmazione del genere da un punto di vista musicale. In più, era il primo vero e proprio concerto del 2021 e suonare su un palco così, con un’atmosfera così stimolante che pulsa di arte, di creativi e – perché no – anche di accoglienza romagnola, è stato fantastico». C’è una particolarità nella carriera di Elasi, che ne riflette la volontà ferrea di perseguire i propri obiettivi in maniera graduale e soprattutto indipendente, ed è il doppio rifiuto a X-Factor, che l’ha chiamata per due anni di fila incassando però un cordiale “no”. Non una questione pregiudiziale, di principio bensì la scelta consapevole di un’artista matura, che sa ciò che vuole e ciò che sembra essere più giusto per la propria carriera e per la propria poetica musicale. «Non è una cosa su cui io mi sono impuntata il doppio rifiuto a X-Factor» continua Elasi «non sono una militante anti X-Factor, anzi secondo me può anche aiutare molto. Però in questo momento per come sono fatta ora, preferisco costruirmi diversamente, mattoncino per mattoncino, provando a crescere con i palchi e con tutto il resto, però in maniera molto molto graduale, senza troppa fretta. Anche per questo essere sul palco del Santarcangelo per me è stato importante». Un’attitudine quasi punk, ci lasciamo scappare… «Se per punk s’intende l’essere fluidi, non darsi troppe regole per quanto riguarda la creatività e mescolare le arti, assolutamente sì. Io ho cominciato a suonare grazie al punk peraltro, perché è un tipo di musica che s’inizia ad ascoltare da ragazzini e io, che in quella fase stavo imparando a suonare la chitarra, suonavo il punk perché il punk era “facile”. Poi ti dà quell’attitudine, quella rabbia che avevo bisogno di sfogare in quegli anni lì e quindi in realtà per me è stato molto importante a prescindere dal genere punk musicale. Diciamo che l’ho mantenuto su altri aspetti». Eh già, il genere: non facile cercare di definirlo nel caso i Elasi, anche se forse ormai è il oncetto stesso di ‘genere’ ad apparire superfluo. «È difficile racchiudere oggi un’artista come nel mio caso in un genere, in una sola etichetta, perché magari una ci inserisce tante influenze. Nel mio caso, oltre la pura e semplice elettronica, c’è tanto legato al funk, alla disco, alla bossa, ma anche alla musica tradizionale nostra, africana o asiatica, c’è tanta ricerca al di là dell’elettronica. L’elettronica ti e mi aiuta a dare l’amalgama. Inoltre, la musica non è solo suono nella mia concezione. Come dicevo prima, mi piace mescolare alle sonorità l’arte performativa, quindi anche il movimento perché per me la musica è movimento. Se ci pensate, a quanti aiuta correre con la musica? ll movimento associato alla musica è terapeutico. A me aiuta proprio muovermi a ritmo. Poi certo è qualcosa che porto sul palco, ma indipendentemente da questo io ballo spesso anche da sola in camera, per dire. Soprattutto quando eravamo in lockdown, avevo dei momenti in cui mi mettevo lì e ballavo, perché ritengo sia davvero una terapia, e in quel periodo credo ci sia mancata non la musica in sè, ma la convivialità della musica: appunto il momento di danza, di ballo, ma anche la semplice chiacchiera con altri mentre la si ascolta, come avveniva quando si poteva ancora andare in quel tipo di locali». E a tutti noi, in questo momento viene in mente il Bisonte Cafè, il ricordo di una notte di mezza estate (citazione magari banale, ma quanto mai azzeccata) dove, per chiudere proprio con le parole di Thea C. Efres, “la vita sembrava essere tornata a pullulare in un abbaglio di normalità che finalmente appariva tangibile a tutti coloro che lì hanno ritrovato le loro notti”. All photos by Claudia Borgia e Lisa Capasso... Read more...Dante Pop! Un articolo di Three Faces || THREEvial Pursuit22 Settembre 2021Dante Pop! di Three Faces Oggi ci perdonerete, cari lettori, ma vi proponiamo un THREEvial atipico (come se poi ne esistessero di “normali”). Questo infatti è un THREEvial promozionale, a tratti subliminale, nel senso che stiamo cercando di convincervi, attraverso una sorta di metodo comunicativo ipnotico, a recarvi nel luogo ove si tiene un dato evento, di cui a breve conoscerete ogni dettaglio. Solo che alla fine della lettura di questo articolo, non ricorderete niente dell’articolo ma in un giorno imprecisato tra il 24 settembre e il 24 ottobre, alla parola “DANTE!”, sentirete l’irrefrenabile desiderio di prendere l’auto, la bicicletta, il bus, la canoa o qualsiasi altro mezzo a vostra disposizione per recarvi a Bagno a Ripoli, precisamente all’Oratorio di Santa Caterina delle Ruote a Ponte a Ema, per ammirare la mostra “Dante pop”, in cui sono esposte molte delle illustrazione che avete già ammirato nello StreetBook Magazine numero 20. Sì, lo sappiamo. Questa cosa di Dante ci sta scappando di mano, ma per nostra fortuna il 2021 volge al termine: ancora pochi mesi e la nostra ossessione svanirà; quando se ne riparlerà per il prossimo centenario dantesco tra quasi cinquant’anni, saremo a goderci la nostra immeritata “pensione”. Ad ogni modo, la realtà è che ‘sta storia di Dante doveva riguardare solo un numero, una cosa innocente, un modo per tributare in maniera alternativa il buon vecchio Durante e magari far vedere ai più giovani che gl’era un ganzo, come si dice da queste parti, e siamo finiti per non liberarci più lui. Non solo, abbiamo deciso fosse giusto trascinarci dietro una sequela di scrittori e artisti che hanno deciso di assecondarci in quell’atto di follia che avevamo rinominato StreetBook Dantis: parlo di Marco Vichi, Vera Gheno, Paolo Zardi, Bue 2530, Leonardo Borri, Mìles e tanti altri. Poi, non contenti, dopo un anno e mezzo di lavorazione e un filo di saturazione, ci abbiamo messo il carico facendoci un evento, non solo con il talk dantesco a cui hanno partecipato Luca Giommoni, Edoardo Rialti e il nostro Gianluca Bindi insieme al deus ex machina di questo Sommo delirio, Andrea Biagioni, ma anche con reading, musica e una strampalata intervista a una Beatrice e un Virgilio altrettanto strampalati (dovrebbero circolare tuttora dei video nel deep web,roba scomoda). Infine, arriviamo all’oggi, perché a più di tre mesi dall’uscita, siamo stati invitati dal Comune di Bagno a Ripoli a esporre le illustrazioni del numero 20: invito che abbiamo gentilmente accettato, perché in fondo la mostra Dante Pop, nasce proprio con l’intento di mettere in luce le rappresentazioni dantesche che si distanziano da quella più iconica, marmorea, fredda.Infatti l’evento, che come detto si chiama Dante Pop e durerà dal 24 settembre al 24 ottobre, conterrà non solo la mostra ma anche svariati momenti di approfondimento, conferenze e talk, indagando attraverso parole e immagini sulle varie rappresentazioni moderne e contemporanee della figura del Poeta. I campi presi in analisi dall’esposizione artistica saranno vari: si parte dal fumetto con Topolino e Paperino e le loro riletture dell’Inferno, il “Dante” di Marcello Toninelli dalle pagine di Off-Side del 1969, il giapponese Go Nagai e la sua Divina Commedia manga style e, infine il “Dante Alighieri” di Alessio D’Uva, Filippo Rossi e Astrid Lucchesi; si passa alla pubblicità con le famose campagne di Olivetti, Magnesia San Pellegrino e Carosello; si fa un salto al cinema con la serie di cartelloni a tema Dantesco di Silvano Nano Campeggi; si tocca la street art con il lavoro di Lediesis; si arriva ai videogiochi con la saga di Dante’s Inferno. Ci saranno poi anche gli incontri e si partirà venerdì 1° ottobre, alle 17.30, con la presentazione della “Trilogia dantesca” a cura di Filippo Rossi. Giovedì 7 ottobre sempre alle 17.30 sarà invece la volta della presentazione “Il Sommo italiano. Dante e l’identità della nazione” a cura di Fulvio Conti. Due giorni dopo, sabato 9 ottobre alle 17.00, stavolta alla Biblioteca Comunale di Bagno a Ripoli, si terrà un incontro con il Maestro Pupi Avati. Chiuderà il ciclo, giovedì 21 ottobre alle 17.30, la conferenza dal titolo “Fellini, Dante e i sogni” a cura di Mirko Tavoni.Ora, come associazione composta prevalentemente da sociopatici e scappati di casa, ci sentiremo profondamente a disagio al fianco di questi nomi (…e all’interno di un Oratorio), ma siamo molto orgogliosi di questa partecipazione e faremo il possibile per non rovinare tutto. Non possiamo assicurarvi niente, però.Scherziamo ovviamente, siamo ben fieri della rosa di nomi che proporremo.Ecco il nostro Dream Team Dantesco: Giulia Brachi, Federico Bria, Zolfo, Brucio e i guest Leonardo Borri, Ache77 e Katone – gli ultimi due con la collaborazione di Street Levels Gallery –.Ovviamente troverete anche un po’ di copie di StreetBook Magazine ad attendervi.P.S. Fortunatamente per voi il 2021 volge al termine: ancora pochi mesi e la nostra ormai patologica ossessione per Dante svanirà. Quando se ne riparlerà per il prossimo centenario, tra più d’una quarantina d’anni, saremo troppo vecchi e rincoglioniti per fare alcunché e ci trincereremo dietro un laconico quanto pretestuoso “Largo ai giovani!”. È una promessa.... Read more...Santarcangelo, mon amour! Un articolo di Thea C. Efres || THREEvial Pursuit8 Settembre 2021Santarcangelo, mon amour! di Thea C. Efres Felix Kubin – Dragonflies “Ogni grande civiltà nasce nel profondo da un incrocio di razze.La purezza, come l’acqua distillata, non genera che la morte”Léopold Sédar Senghor C’è stato un periodo della mia vita, nell’adolescenza, in cui ho creduto che la purezza fosse un valore necessario, che rimanere “duri e puri” non nel corpo o nel sangue, ma nella mente e nelle idee fosse l’unica via da perseguire per ottenere un’arte, un’esistenza, una società migliore confondendo la purezza con la coerenza, il dubbio con la debolezza, l’imperfezione e l’errore con l’aberrazione. Non è così e credo che le parole in apertura del poeta siano sufficienti a schiarirvi il perché. E se questo assioma si applica in maniera così perfetta alla vita, peraltro motivandola nella sua origine, come può l’arte in ogni sua forma sfuggirne? Non può. L’arte esiste solo attraverso la contaminazione perché è l’unico modo che, come noi, essa ha per evolversi. Potrebbe bastare questo incipit a spiegarvi perché ho amato quel weekend di luglio al Santarcangelo Festival, dove una piccola città per dieci giorni vive, pulsa di frenesia creativa ed è merce rara in questo Bel Paese: lo è nelle nostre più o meno grandi e concettualmente dispersive metropoli, figuriamoci in centri di poche migliaia o decine di migliaia di abitanti, dove il fast tourism – e le amministrazioni che se ne cibano – non pretende altro da questi nostri piccoli gioielli che una tradizionalità tinteggiata di moderno. E invece Santarcangelo, almeno per ciò che questi occhi hanno potuto vedere, ribalta il postulato, compete con sfacciata consapevolezza con i giganti e indica un percorso il quale, se volessimo intuirne la direzione, ci condurrebbe verso un vero risveglio culturale: è il futuro, Santarcangelo, che in troppi non vogliono vedere, per ottusità o per reazione al nuovo; semplicemente perché credono che rimanere duri e puri sia la via, rimanendo ancorati a un tempo e a un modo di vedere il mondo che non esiste più, piaccia a loro o no. Santarcangelo invece è sempre un pensiero, un’idea avanti perché è un futuro che esiste da cinquant’anni, un Futuro Fantastico, e nell’anno del proprio anniversario non c’era forse titolo più azzeccato di questo. Alina Kalancea E ancora una volta potrei fermarmi qui, poiché davvero rischierei di costringervi a uno scrolling forsennato e non è qualcosa che si da sul web, ma so che questo poco non vi basterebbe e non basterebbe neppure al caro amico direttore, che di nuovo mi costringe affettuosamente su queste pagine – nonostante fosse anche lui con me, ben sapete però qual è ad oggi la sua posizione sull’imprimere parole, siano esse su carta o sullo schermo. Non vi dirò quindi della lunga storia del Santarcangelo dei Teatri, quella è giusto che la scopriate da soli, sperando di trasmettervi la medesima curiosità che io da anni nutro per questa manifestazione e che mi ha finalmente condotto dentro il Santarcangelo 2050. Non vi farò il resoconto delle perfomance a cui ho assistito e non avrete recensioni, perché io non sono una critica: io scrivo, non giudico; scelgo cosa vedere lasciandomi ispirare e a volte ci prendo, altre rimango delusa. E quindi a che vi servirebbe sapere quale spettacolo o concerto ho apprezzato o meno e perché? E poi non leggerete interviste, per quelle dovrete aspettare un giro di luna e altre dita che stanno già battendo sulla loro tastiera. Non vi racconterò delle serate allo Sferisterio, in cui un passo separava un concerto a sedere dal Bisonte Cafè, dove la vita sembrava essere tornata a pullulare in un abbaglio di normalità che finalmente appariva tangibile a tutti coloro che lì hanno ritrovato le loro notti. Neppure vi racconterò delle albe, delle poche ore di sonno, dei risvegli traumatici alleviati dalla consapevolezza di un’opera da assaporare, di un’artista da conoscere, di una performance da cui lasciarsi coinvolgere a ogni angolo della città. Vi dirò solo che forse per la prima volta ho visto a Santarcangelo un festival veramente per ogni gusto, per ogni sensibilità; un festival dove ognuno di voi riuscirebbe a portarsi nella mente almeno un ricordo di quei giorni da conservare gelosamente o un attimo d’ispirazione in cui desiderare di essere voi lo spettacolo, per poi scoprire che in effetti così è stato e che il desiderio era stato avverato. Vi confesserò anche che ho smontato e rimontato questo scritto più e più volte, niente di quello che buttavo giù mi soddisfaceva e allora arrivavo a scomporlo, a destrutturarlo fino a distruggerlo. Percepivo come un freno in testa, qualcosa che mi diceva di non lasciarmi andare. La razionalità mi costringeva a fare i conti con lei, insinuando che in alcuni passaggi i miei toni fossero troppo celebrativi, poco oggettiva la mia visione. Aveva ragione lei, ogni volta. Cancellavo e riscrivevo e ancora niente mi soddisfaceva. Poi, il destino ha voluto che l’uscita di questo scritto venisse rimandata per cause di forza maggiore. «Abbiamo un pezzo sull’anniversario di Genova per l’ultima uscita di luglio. Lo sai, non possiamo lasciar andare. Si va a settembre. Credi sia un problema? Non vorrei che il tuo articolo si raffreddi con due mesi di stacco». «Nessun problema, mio caro direttore. Meglio così, avrò tempo per metabolizzare». Ci fu un silenzio sorpreso all’altro capo del telefono. «Non so cosa tu intenda, ma se mi dici che è meglio così, mi fido». Neppure io compresi in quell’istante il perché di quella frase detta di getto, così. Ci ho pensato per un mese intero. Poi ho capito. Mi ero innamorata: un travolgente amore estivo che adesso non c’era più e non sarebbe tornato prima di un anno. Era questo che dovevo metabolizzare, la sospensione tra il ricordo e l’attesa. Mi tornò in mente una frase sentita in un vecchio film. “Perché non te? Perché non te, in questa città e in questa notte tanto simile alle altre al punto di rendersi irriconoscibile?” Mi sentii sollevata, non avevo più alcuna remore, nessun dovere di essere oggettiva. Ogni indugio era crollato. Avevo il diritto di lasciarmi andare e, come leggete, è questo ciò che alla fine ho fatto. GHOST INC e Kunstencentrum Vooruit (Mutonia – Mutoid Waste Company) All photos by Claudia Borgia e Lisa Capasso... Read more...Space Travel vol. 2: il “rave di Valentano”. Una testimonianza di A. Maglione || THREEvial Pursuit25 Agosto 2021Space travel vol.2 Uno sguardo sul “rave di Viterbo”, oltre le fake news di Alessia Maglione Nella settimana che va dal 13 al 18 agosto si è svolto nel nostro bel Paese uno degli eventi più significativi della scena underground, un teknival denominato Space Travel vol. 2 e definito sui giornali come “Il rave di Valentano”: un evento di proporzioni storiche che si è svolto (sicuramente non a caso) nel terreno dell’imprenditore Piero Camilli, consigliere di centro-destra, candidato nel 2013 al Senato nella lista di Fratelli d’Italia e sindaco al terzo mandato del piccolo comune di Grotte di Castro. Il politico e proprietario di diverse squadre di calcio ha dichiarato, in svariate interviste, di non essere stato proprio al settimo cielo per l’invasione subita e che, se avesse potuto, si sarebbe fatto giustizia da solo (non a caso il benpensante è il fiero possessore di un porto d’armi). Come dargli torto in fondo? A nessuno farebbe piacere trovare i propri campi invasi da migliaia di persone. Proprio per questo, il rave è stato preda di facile sciacallaggio da parte delle testate giornalistiche, che in un periodo come quello di ferragosto dove le notizie scottanti scarseggiano, si sono buttati a pesce, raccontando ciò che più gli conveniva per raccogliere i consensi del popolino. Io però al rave ci sono stata e, basandomi anche su altre testimonianze, in questo articolo cercherò di fare chiarezza sui fatti accaduti. Cosa si intende per teknival? Un teknival è un rave party di enormi dimensioni, organizzato dalle cosiddette tribe che si fanno carico della festa portando, a spese proprie, impianti, installazioni e musica creata da loro, molto spesso anche sul momento, al solo scopo di far divertire i partecipanti per fargli assaporare quel senso di libertà che, soprattutto in questo momento storico, gli viene sottratto. Il rave è un inno all’autogestione basatosi sull’arte, il nomadismo, la musica e la danza. È un movimento culturale dotato di un proprio linguaggio e di proprie regole, dichiarato illegale perché fondato sull’appropriazione di luoghi privati e al di fuori delle regole commerciali. I Sound System si organizzano autonomamente e inviano ai ravers, poche ore prima dell’evento, le cosiddette info sul luogo di svolgimento della festa. Oggi il mezzo più utilizzato per scambiarsi informazioni è Telegram, grazie al quale i partecipanti riescono a venire a conoscenza dei posti blocco e si scambiano tutte le informazioni necessarie per arrivare sul luogo, in modo da essere sempre un passo avanti alla polizia che, una volta capito cosa sta succedendo, è in scacco matto: ormai è troppo tardi, la festa è cominciata. E l’opinione pubblica cosa ne pensa? Scrive Vanni Santoni nel suo articolo pubblicato nel 2012 su MinimaetMoralia, Rave me tender – Il teknival in 10 discipline: “I free party esistono da una quindicina d’anni, oggi è solo che se ne sono accorti anche i mass-media. Va da sé che finora su di essi sono state dette molte cose, quasi sempre sbagliate”. Ad oggi, infatti, il movimento tekno ha subito uno stravolgimento totale da parte dei media, generando una guerra tra le forze dell’ordine e le TAZ (zone autonome autogestite). Nato negli anni ‘80 come movimento di controcultura e denuncia verso i disagi politici, ambientali ed economici generati dalla società dei consumi, il rave party oggi è visto come la semplice aggregazione di tossici e delinquenti che occupano un luogo privato al solo scopo di sballarsi e fare casino. E a un occhio esterno è facile vederlo così, perché è quello che sembra. E questo, ahimè, è un dato di fatto. Com’è strutturato un rave party Quello che l’opinione pubblica non vede è come migliaia di persone, provenienti non solo da regioni, ma addirittura da Paesi diversi come Francia e Spagna, riescano ad aggregarsi in un unico luogo creando una vera e propria cittadina, fatta di luci, colori, giochi di prestigio, musica e bancarelle. Si va così a creare un’autentica via principale, fatta di Sound System e punti di ristoro, simile ad una fiera patronale gestita da giostrai. L’economia gira solo ed esclusivamente nel rave, il denaro viene scambiato tra i partecipanti, dunque non c’è un vero e proprio “giro” per l’economia di Stato, altro fattore che fa rodere particolarmente i nostri amati politici. Ci sono inoltre presidi che permettono di esaminare le sostanze trovate, perché di droga ne gira, tanta, ed è bene stare attenti su ciò che si assume. Come scrive Walter Ferri in un articolo de L’indipendente, “l’evento, per quanto autogestito, era presidiato da persone che nella loro quotidianità lavorano professionalmente o volontariamente nei servizi di riduzione del danno, da laboratori pronti ad analizzare qualsiasi sostanza stupefacente di dubbia provenienza e da persone che, bottiglietta d’acqua alla mano, erano pronte ad assistere tutte le eventuali vittime di mancamento. Tra i volontari presenti quelli dal Lab57, associazione di promozione sociale senza scopo di lucro che da anni lavora nelle feste e nei Free parties facendo riduzione del danno, informazione, analisi delle sostanze, primo soccorso.” Il passaparola è il miglior se non unico modo per ricevere informazioni, tutto si basa sul rispetto reciproco, la solidarietà, la consapevolezza di aver fatto qualcosa di unico in un momento storico bloccato. E adesso per favore, sfatiamo le fake news Tra le notizie acchiappaclick che il rave ha scatenato, l’unica veramente degna di nota è la morte del giovane Gianluca Santiago, 25enne annegato lunedì nel lago di Mezzano adiacente (e non all’interno) alla festa. Peccato che il povero Gianluca, alla festa non ci sia mai arrivato: alcune voci riportano che volesse parteciparvi con alcuni amici, ma sfortunatamente la sorte gli è stata avversa. È stato questo l’evento scatenante che ha attirato come mosche orde di giornalisti e politici (ha fatto la sua comparsata anche Giorgia Meloni), frementi di dire la loro sull’evento. È un vero peccato e mancanza di rispetto che la sua morte sia stata strumentalizzata per far terminare l’evento prima del previsto. Da lì comunque, lo sciame di fake news si è propagata a macchia d’olio, sia sui social che all’interno del rave. Girando per i vari accampamenti le voci che si sentivano erano tra le più disparate: i morti finora sono tre, ci sono cani morti ovunque, sono avvenuti degli stupri, una persona ha avuto un attacco cardiaco mentre un’altra ha addirittura partorito. Inutile dirvi che tutto questo non è mai stato vero e, riguardo il parto, la donna pare non abbia partorito al rave, bensì in ospedale, e che all’evento le si siano solamente rotte le acque. Ma la festa, come qualsiasi altro luogo, è una piazza, ed è facile che si diffondano notizie false tra chi ha voglia di parlare. Tornando sulla morte di Gianluca Santiago, personalmente ho appreso la notizia per caso. La nottata precedente era stata molto tranquilla, la musica era stata abbassata e alcuni sound erano addirittura spenti. Si intuiva che qualcosa non andava. Venivo dal mio accampamento e ho trovato un gruppo di persone che discutevano animatamente con le forze dell’ordine. Con un amico ci siamo fermati ad ascoltare, e le frasi che abbiamo sentito avevano del ridicolo, perché proferite da chi non sa, da chi non si rende conto. Siamo stati intimati di smontare quella sera stessa, ovvero il lunedì 9, per rispetto del nostro coetaneo. “Non vi costa niente andarvene, gli organizzatori saranno quattro o cinque, non abbiamo voglia di mandare qui la polizia, quindi smontate tutto e andatevene.” Secondo voi, era così semplice smontare un evento dalla portata di diecimila persone? Da lì i famosi “quattro o cinque organizzatori” si sono messi d’accordo con le forze dell’ordine e ci è stato dato un ultimatum: la festa poteva proseguire fino a giovedì. Pacificamente e gradualmente hanno iniziato ad andare via le prime carovane, finché il mercoledì sera si iniziava già a percepire un’aria di malinconia: la festa era finita, ma in fondo, era andata bene così. Un’altra critica che è stata mossa da parte dei giornali è che non è stata usata la violenza per farci sgomberare. Leggendo diversi articoli successivi alla festa, abbiamo scoperto che era stato proposto di cacciarci con idranti, napalm, fumogeni, celerini, con l’esercito. Fortunatamente, il buon senso ha prevalso, o invece di una sola vittima, ce ne sarebbero state molte di più. Possibile che, invece di lodare il fatto che l’area sia stata sgomberata in maniera pacifica, avrebbero preferito manganellarci, come è successo a Redon1? Altra fake news: la questione della zona protetta. Il rave non si è svolto all’interno di un’area del WWF, ma in un campo privato. Per quanto ne sappiamo, le famose mucche che sono state “costrette” ad ascoltare musica tekno per ore non sono mai state avvistate, e anche la storia delle pecore sbranate dai cani non so quanto possa essere effettivamente vera. Per quanto indisciplinati, i cani ad un rave non si allontanano mai troppo dal proprio padrone, addestrati a stargli sempre accanto e in prossimità dell’accampamento/furgone. Riporto un’immagine, presa dalla pagina Facebook di Muro di casse, dove si evidenzia il confine della festa che non rientra in quello dell’area protetta. Anche il lago, come si può vedere, era abbastanza distante e non visibile ad occhio nudo dal luogo di aggregazione. False anche le dichiarazioni sulla sporcizia lasciata: la filosofia del rave è “lasciare il posto come è stato trovato”. Da alcune foto, che potete vedere qua sotto e che sono state ricondivise da Vanni Santoni, è possibile vedere come l’area sia stata pulita una volta sgomberata, cosa che posso confermare con certezza in quanto la zona dove ero accampata, se qualche ora prima era piena di carte, plastica e rifiuti di ogni tipo, nel momento di andare via l’ho trovata completamente ripulita da un gruppo di ragazze che giravano con sacchi neri in mano. Tutte, ovviamente, volontarie. Photo by Giovanna & Dado Lo sciacallaggio mediatico si è poi sfregato le mani sulla questione Covid, accusando i partecipanti di incoscienza per aver organizzato un evento simile in piena pandemia. Peccato che l’area fosse talmente vasta da renderci tutti più distanziati che sulle principali spiagge italiane. Chi lavora nel mondo dello spettacolo ha come al solito pensato di lamentarsi, affermando quanto siano balordi i raverz ad organizzare un evento simile mentre loro sono anni che rispettano le regole. Pensiero più che corretto a pensarci, ma la filosofia del rave party è proprio quella che le regole non vadano rispettate, e questo è chiaro che faccia rosicare il proprietario di una discoteca in spiaggia. E poi, a ben dire, perché dei focolai che si sono creati ad altri festival o sulle spiagge italiane nessuno ne parla? Non lo sapete che, ad oggi, la Sicilia ha il maggior numero di contagi in Italia e di ricoverati in terapia intensiva e che tornerà in zona gialla? In conclusione, posso solo affermare che tutto questo accanimento non sarà mai motivo di rinuncia, ma anzi di forza. I rave ci sono e sempre ci saranno in tutta Europa. Chi non partecipa a questo tipo di eventi non riesce a comprenderne la portata, né a capire che il motivo di aggregazione è prevalentemente pacifico e basato sul divertimento e la condivisione. E in un periodo come questo, in piena pandemia, l’essere riusciti a creare qualcosa che rimarrà nella storia a parer mio deve essere motivo di orgoglio per gli organizzatori e i partecipanti. Perché la guerra tra forze dell’ordine e raverz esiste ed esisterà sempre. Ma, in un modo o nell’altro, vinceremo sempre e comunque noi. P.S. Per maggiori approfondimenti vi consigliamo di leggere altri articoli anti fakenews, oltre ai già citati, quali quello di Esquire ( Qui metterei il link in collegamento ) e questa intervista al sempre ottimo Vanni Santoni apparsa su Fanpage. E se volete vedere un po’ di foto potete farlo nella relativa galleria di Muro di Casse. 1 – Il 19 giugno, a Redon, in Bretagna, la polizia ha disperso in tenuta antisommossa i partecipanti di un rave svoltosi in memoria di un giovane deceduto. In questa occasione, un ragazzo ha perso una mano e ci sono stati moltissimi feriti, tra partecipanti e forze dell’ordine.... Read more...Alimonda (ovvero, Noi, quando pensiamo a Genova) || THREEvial Pursuit21 Luglio 2021Alimonda (ovvero, Noi, quando pensiamo a Genova) di Three Faces No, non ci siamo dimenticati. Sappiamo che qualcuno si è stupito nel vedere che il numero di giugno, quello che celebra i cinque anni di attività di StreetBook Magazine, peraltro il numero 20, non sia stato dedicato all’anniversario di Genova, ma al Sommo Dante – che peraltro è morto a Settembre e sarebbe stato perfetto per lo #SBMAG21 – ma tant’è. A noi le cose banali non piacciono e soprattutto, riguardo Genova, abbiamo pensato che tanti avrebbero pubblicato, tanti avrebbero detto, fatto, scritto, illustrato in questi giorni esatti: un boom di contenuti, che fisiologicamente poi si dissolve. Per questo, abbiamo pensato che fosse giusto dilazionare, per evitare il rischio maggiore delle celebrazioni, ovvero quel concentrare in un definito e limitato lasso di tempo semplicemente tutto quello che si può produrre, con la conseguenza che la memoria possa implodere su sé stessa, lasciando poco o niente. E quindi, sì, ci sarà un numero dedicato a Genova, perché non potevamo esimerci dal farlo, e lo potrete sfogliare a Settembre, quando magari sarete meno bombardati da informazioni mediatiche di ogni tipo e di varia natura e avrete più tempo per riflettere, analizzare ed elaborare. Certo, però, non potevamo neppure esimerci da dare proprio in questi giorni – che sono quei giorni – un nostro piccolo contributo, almeno un gesto, in questo caso una poesia che è nata in maniera particolare, perché è il frutto di frasi, concetti o semplici parole scritte a caldo da varie anime della nostra redazione, pensando ai fatti di Genova del 2001. Il più squilibrato di noi, le ha poi fuse assieme, rielaborandole; e quanto state per leggere, è quello che ne è uscito. Sperando vi sia gradita, buona lettura! P.S. Comunque, se volete un consiglio, date un occhio alla sezione speciale su OpenDDB con film, documentari e libri dedicati a Genova 2001, perché hanno ragione loro quando scrivono che “la memoria è un ingranaggio collettivo”. *** Alimonda (ovvero, Noi, quando pensiamo a Genova) Ossa rotte, frustrazioneFacce gonfie, dolorantiper il libero idealedella partecipazione. Ora pubblico è l’infernosulla stampa nazionale,ma in quei dì, voi c’eravate,con le spalle a noi voltate. Ricordiamo, non scordiamodella vostra “verità”che non è mai quel che sembra,una squallida omertà. Dei diritti fatti mercenon faceste mai paroladella merce fatta gloriapaginate a volontà. E sarete anche cambiati,vi sarete anche pentiti,sarà pure come dite,ma non è la verità: siete ancora i vili servidella pratica globaleche trasforma un idealein un male da estirpare. Brucia ancora e non si spegneogni vostra falsità,ma il momento arriveràin cui sconterete tutto Dalla Storia non si scappase si serba la memoria:di ricordi ne abbiam tanti,di ferite anche di più. Guardavamo in uno schermogente varia, forze armatefumo ovunque, braccia alzatee poi la pubblicità. “Dice a Genova abbia apertouna pia macelleria.Entri dentro, chiedi un ettodi salsiccia a portar via, te ne danno anche tre etti,quelli della polizia.Tutta trita bella frescafomentata a manganello; è un pratica di finoun lavoro certosinopicchiar sodo e di continuoper ammorbidir le bestie. L’ha insegnato ai nostri armatiun latinoamericano,sia cileno o messicano,quelli sanno come fare. Tieni, assaggia, prendi un pezzo!Neanche tu ne vuoi un morso?Siete proprio dei coglioni,altra carne da menare. Su,’sto banco, io v’aspetto,prima o poi, non è mai tardi,che di bestie come voinon n’abbiamo mai abbastanza”. Questo è il mondo che vedemmoquelli i giorni in cui capimmoper la prima volta in vitache qualcosa non andava. Vi sottovalutavamo,ci stavate già fregando:una trappola era pronta,e non c’era un’altra scelta; O accettare quel sistemach’era pure una condanna.O versare il sangue ogginel bel mezzo d’una piazza. E noi, sì, scegliemmo al volo,neanche ci pensammo troppoanche se già sentivamotonfo a tonfo, il vostro odore. S’ha nel naso, ancora oggi,quel sapore di sudoreacre, di testosteroneche t’avvolge come un gas. Eravam vicini al mareche sembrava di toccarlo,con la rabbia lo sfiorammo,poi fu il buio, piena notte. E ci siamo chiusi quadentro al nostro disingannosenza luce, senza famerifiutando cibo e voci. Perché a Genova noi amammocosì tanto nell’odiare,così tanto da morireper la nostra libertà. E soffriamo ancor l’offesadi quei giorni disumani,orchestrati in una Fieranera come i vostri guanti. Tutto quanto preparato,acchittato nell’infamia,dalla prima pietra mossafino all’ultima mattanza. Che quel sangue mai lavatovi perseguiti ogni giorno:prima o poi ben altro bancovi farà pagare il conto. +++ Nella via qui sotto casahanno inciso nella pietra: “Dice il mondo sia diversoa me pare sempre ugualecom’io son lo stesso anarchicoche in quei giorni diventai” Hanno partecipato all’elaborazione di questa poesia: Simone Piccinni, Benedetta Bendinelli, Niccolò D’Innocenti, Lucia Montoni, Andrea Biagioni, Marco Barucci, Gabriele Levantini, BLADI, Federico Bria, Andrea Polverosi, Gianluca Bindi.... Read more...Intervista a Francesca Valente di M. Barucci || THREEvial Pursuit7 Luglio 2021Intervista a Francesca Valente di Marco Barucci Francesca Valente, autrice Altro nulla da segnalare. Storie di Uccelli. Uscita decisamente speciale per il THREEvial Pursuit di questa settimana con il battesimo threevialista di Marco Barucci, che si presenta sulle nostre pagine telematiche col botto, dopo aver navigato sulle cartacee dello #SBMAG16 col racconto Pressione. Il buon Marco ha infatti intervistato per noi la scrittrice Francesca Valente, già autrice del libro per bambini, Il miele. Tutti i segreti delle api (Slow Food Editore, 2010), e vincitrice poche settimane fa del XXXIV Premio ‘Italo Calvino’ con Altro nulla da segnalare. Storie di Uccelli, che è stato peraltro presentato ieri online con una diretta ospitata dal Circolo dei Lettori (e che potete vedere qui). È un’opera che delinea – come spiega la giuria nelle motivazioni – “con scrittura limpida e elegante e delicata empatia umana i ritratti di chi ha avuto a che fare ‒ matti e non solo ‒ nei primi anni Ottanta col repartino aperto dell’Ospedale Mauriziano di Torino. A quarant’anni dalla Legge Basaglia una riflessione narrativamente coinvolgente sull’istituzione psichiatrica”. Buona lettura! Marco Barucci: Quando si racconta una storia ci si immerge sempre in un mondo diverso. Ma spesso c’è sempre un fattore scatenante che ci fa sentire l’esigenza irrefrenabile di intraprendere un determinato cammino. Come nasce ‘Altro nulla da segnalare. Storie di uccelli’? Francesca Valente: Dall’ossessione per la memoria. Il bisogno di tramandare, affidando la voce di chi non c’è più a chi abbia voglia di ascoltare. Accumulare, ricostruire. La voce finora assente è quella dei pazienti psichiatrici dell’SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) dell’Ospedale Mauriziano di Torino negli anni immediatamente successivi alla Legge 180: precisamente dal 1980 al 1983, quando in quella struttura nata con la Legge si applicò la riforma basagliana aprendo il reparto, quindi lasciando che i pazienti entrassero e uscissero in libertà, e rifiutando la contenzione meccanica in favore del dialogo, della relazione, dell’empatia. L’SPDC era il primo rifugio di chi era in difficoltà, viveva un disagio psichico: doveva servire da raccordo con i servizi territoriali. La voce è anche quella di altri che vissero invece nelle Ville, le comunità nate in seno ai manicomi di Grugliasco e Collegno durante il superamento. Per costruire o ricostruire le storie di questo libro ho attinto dai ricordi, condivisi con me proprio per farne un progetto, dello psichiatra e amico Luciano Sorrentino, che lavorò in quell’SPDC in quegli anni, e dalle tracce dei cosiddetti rapportini degli infermieri, annotazioni informali di quanto accadeva all’interno del reparto, o meglio il repartino. Da questi frammenti ho inventato una realtà, del tutto possibile, universale, nella quale chiunque potesse riconoscere qualcosa di familiare e grazie alla quale, soprattutto, fosse semplice comprendere l’umanità e le conseguenze straordinarie della rivoluzione psichiatrica, che ha restituito diritti a chi non ne aveva più. Complesso dell’Ospedale Mauriziano di Torino (Foto d’Archivio) MB: Nel 2011 è uscito un saggio intitolato “Siamo quello che leggiamo”. Quanto sei d’accordo con questo postulato. E quali scrittori hanno avuto più influenza nel tuo modo di scrivere? FV: È vero, le storie e la lingua ci creano, plasmano il nostro pensiero e il nostro mondo, aiutano a dare forma a ciò che siamo, tracciano il profilo di ciò che possiamo diventare e lo riempiono di sostanza. Per questo è così importante avvicinare i più piccoli alla lettura, proporre storie e linguaggi e lasciare che ognuna agisca su di loro in modi imprevedibili, e ognuno scelga i mondi ai quali si sente più affine. È una missione nella quale sempre più educatori, bibliotecari, genitori considerano imprescindibile impegnarsi. Ma non c’è mai fine alla scoperta! Anche da adulti si scoprono continuamente scritture che cambiano la direzione del pensiero: si impara a leggere per tutta la vita. Non so dire quale autore abbia avuto più peso nella mia scrittura, perché da quando ho iniziato a leggere ho abitato mondi letterari molto diversi tra loro. Sono cresciuta con la letteratura di lingua tedesca e angloamericana, con la poesia italiana e francese: ogni lettura ha contribuito in modi che non so dire a costruire una lingua personale. MB: Vincere il premio Calvino è sicuramente uno dei trampolini di lancio più importanti per un romanzo esordiente. Cosa ti aspetti dal futuro dopo questo importante riconoscimento? Quali sono i tuoi progetti futuri? FV: Al Premio Calvino, alle persone eccezionali e generose che lo animano, naturalmente devo molto. È già un’esperienza indimenticabile. Ora non posso che continuare a scrivere, cercando anche di meritarmi la fiducia che è stata riposta nella mia idea di scrittura. Per me la scrittura è proprio questo: restituzione. Attraverso un lavoro di scavo, un uso costante delle tracce del passato per costruire possibilità, ipotesi. I finalisti del XXXIV Premio ‘Italo Calvino’ con Francesca Valente (terza da sinistra) MB: La voce in uno scrittore è identità, ci si mette a nudo volendo arrivare con il nostro messaggio più interiore a un pubblico. Tu per chi scrivi? FV: Per la mia coscienza: perché abbia la chance di riportare alla luce qualcosa di sopito che tale non dovrebbe rimanere. E per la mia memoria, che tende a rimuovere. MB: I libri ci parlano, ci traumatizzano e quasi sempre ci insegnano. Un libro che ti ha particolarmente segnato e che hai amato? FV: Una domanda difficilissima. Risponderei con tutti i libri di Thomas Bernhard, in specie quelli autobiografici. MB: Sempre più persone si avvicinano all’arte dello scrivere, inseguendo un sogno che per molti è vicino a un’ossessione: pubblicare il proprio romanzo e intraprendere il mestiere del romanziere. Tu che consiglio daresti a un aspirante scrittore? FV: Non credo di essere nella posizione di dare consigli. Posso dire però che cosa è importante per me. Lavorare sulla consapevolezza di sé e della propria scrittura: mai sopravvalutarsi. Esercitarsi continuamente, anche a partire da minuscoli dettagli o accadimenti che sembrano insignificanti. Non temere di cancellare, bruciare pagine intere nel caminetto e rifare tutto daccapo. Non cedere le armi, suggeriva Virginia Woolf, e mettersi al lavoro come una persona che cammina dopo aver visto la campagna stendersi davanti a sé. Ma prima di tutto questo ci vuole “l’ingrediente principale”, come ha scritto Luigi Spagnol in Correre davanti alla bellezza (Longanesi, 2021): la passione dell’autore. Scrivete secondo il vostro gusto, “abbandonatevi alle vostre passioni, quali che siano”. MB: Nel tuo romanzo tocchi un tema molto delicato, che ancora oggi non ha la corretta informazione nell’opinione pubblica. Quanto sostegno c’è nella nostra società per coloro che soffrono di disturbi psichici? FV: Per rispondere adeguatamente ci vorrebbero pagine e operatori del settore. Posso dire che il sistema territoriale è in sofferenza: disomogeneità, disorganizzazione, tagli e difficoltà a distribuire le risorse finanziarie non rendono il lavoro facile a chi si occupa di salute mentale oggi. L’applicazione della Legge resta un problema, l’istituzionalizzazione del malato psichiatrico è spesso la via più battuta. E inoltre la pandemia di Covid-19 ha aggravato la situazione: il disagio è aumentato, di conseguenza anche la richiesta di aiuto ai servizi, che scarseggiano di fondi e personale. SPDC come quello del Mauriziano, per fare un esempio, sono stati chiusi per essere riconvertiti in reparti Covid. Forse però si è preso a parlare più apertamente del disagio psichico perché in molti, in quest’anno durissimo, hanno provato che cosa significa: forse la percezione del disturbo mentale è cambiata e forse la necessità di ripensare i servizi e destinare risorse alla cura tornerà nell’agenda politica. MB: Il tuo romanzo è diviso in racconti, tutti cuciti insieme in maniera salda da un’identità narrativa ben definita. Quale tra tutte le storie che ti hanno toccato resterà per sempre viva nel tuo cuore? FV: Delicate e potenti, le storie delle donne ottuagenarie che ritrovano la vita nelle “ville” all’interno dell’ex manicomio di Grugliasco.... Read more...Il nostro primo amore radiofonico || Intervista a Radio Rogna di A. Biagioni e S. Piccinni || THREEvial Pursuit23 Giugno 2021Intervista a Radio Rogna Il nostro primo amore radiofonico di Andrea Biagioni e Simone Piccinni Storica insegna selfmade di Radio Rogna Cari THREEvialisti,questa settimana vi (ri)proponiamo l’intervista completa ai fondatori di Radio Rogna apparsa sul numero #19 di StreetBook Magazine. Buona lettura!Maggio del 2018: eravamo al circolo B-Locale di Torino per la Notte delle Riviste organizzata da Crack nell’ambito del Salone OFF. Lì abbiamo conosciuto per la prima volta Radio Rogna, ed è stato amore a prima vista. Vuoi perché con il loro modo di presentare ci siamo trovati subito benissimo, vuoi perché non si sono scandalizzati del nostro livello etilico e di alcune discutibili affermazioni che abbiamo tirato fuori durante la chiacchierata, fatto sta che ci siamo chiappati al volo. Hanno addirittura avuto l’incoscienza di farci parlare nuovamente tramite le loro frequenze lo scorso ottobre, per presentare Waltzing Matilda e Three Faces. Non potevamo esimerci dal ricambiare la cortesia, quindi abbiamo ora il piacere di presentarvi questa splendida realtà con la quale, oltre al lato ludico, condividiamo anche il forte interesse per tematiche sociali e di giustizia. Loro sono Simone Ricciardi e Walter Ubaldi, due dei fondatori di Radio Rogna. Three Faces: Partiamo con una domanda semplice: Radio Rogna come nasce, da cosa nasce e come si è evoluta? Simone: Radio Rogna ha le sue radici nella finzione, nella sublimazione della finzione, quindi nel teatro. Anni prima di cominciare a fare vere dirette radiofoniche, portai all’interno dello spettacolo Amurdur della Compagnia Astorritintinelli (che son stati anche alla Biennale di Venezia), per un festival internazionale di teatro a Napoli, Radio Rogna. Lo spettacolo era una roba strana: fai conto che c’era un muro di casse reali, vere, con in scena sei impianti audio. Eravamo due attori e un attrice e il significato del titolo stava un po’ a mezzo tra “amore duro” e “a muro duro”. Praticamente questa radio raccontava, teneva un po’ ancorati alla drammaturgia di questo spettacolo. Quindi nasce per finta, facendo delle dirette finte e impazzisce di dirette finte per un po’, in giro per i festival e robe così, tanto che la gente veniva a chiederci «Dove posso sentire la radio?» e noi davamo delle informazioni false, perché non era vero, non c’era niente, era tutto finto. Poi nasce un’associazione culturale nel 2013 a Sarzana e affittiamo uno spazio per farla diventare una casa di cultura, il Lavoratorio Artistico, che vuol dire eventi, libri, presentazioni, mostre e alla fine – è venuto quasi naturale – il contenitore radiofonico, perché è un contenitore che poteva andare bene per tutte le nostre pazzie, follie. Quindi son venute le prime streammate, così sul web, senza capo né coda. Semplicemente, chessò, arrivava il musicista figo e noi decidevamo di mandarlo in streaming. Da lì in poi si sono aggregate tante persone, primo fra tutti senz’altro Walter, ma anche un sacco di gente che ha gravitato e gravita ancora. Qua parliamo del 2015/2016, mentre Radio Rogna come nome (pensato da Paola Tintinelli), con quel progetto teatrale, parte dal 2008. Il primo nome in verità, che poi scartai, era QRS: Quasi Radio Station, perché era proprio quasi, io volevo tatuarmi quasi sul braccio perché sono convinto che siamo in un mondo quasista e titubante, siamo sempre “quasi”. Poi è diventata ‘Radio Rogna – L’autoradio nel cruscotto dell’Internet’, ma all’inizio era proprio secco: ‘Radio Rogna – La voce della fogna’. Un omaggio anche a Cattivik e a un’estetica così “del basso”. Questa è un po’ la storia. Per il resto, Radio Rogna intesa come web radio è un’emittente istituzionale, legata quindi a un’associazione. Le web radio si dividono in personali, istituzionali e commerciali: istituzionali sono quelle collegate a un’associazione, oppure anche a un partito, a una chiesa, ma questo serve semplicemente per pagare più o meno SIAE, SCF e compagnia bella. Inoltre, è diventata la radio del Lavoratorio Artistico, cioè dello spazio che abbiamo ancora adesso a Sarzana. Walter poi vai te con un po’ di storie di radio. Walter: Eh sì, di tutte queste dirette radio che abbiamo fatto in determinate occasioni, la prima da ricordare è “la Liberazione delle Frequenze”, il 25 Aprile 2016. S: Grande, è vero. W: Visto che era la Liberazione, abbiamo fatto la Liberazione delle Frequenze. Poi niente, ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: «A questo punto facciamo una radio che trasmette tutti i giorni 24 ore al giorno per tutta la settimana». E di lì è cominciata l’avventura vera e propria, quella che ti impegna giornalmente. È una radio di contenuti e come diceva Simone è un grosso contenitore dove ci può stare veramente tutto. Quello che non c’è è perché non c’è venuto in mente o non c’è stata la possibilità. Però siamo partiti già con un bel numero di trasmissioni. Ricordo il periodo che facevamo qua a Sarzana un festival grosso, durante il Festival della Mente. Era il festival off che facevamo noi, anche se qualcuno ora lo nega, e si chiamava Festival della Mentina, altro contenitore dove c’era veramente di tutto, si passava anche lì dal serio al faceto. S: Scusami Walter, ti interrompo, ma questa la dobbiamo dire: col cartello “Riposa la mente alla Mentina” abbiamo tempestato di letti Sarzana, tutti quelli che uscivano dal Festival della Mente potevano così dormire tranquillamente e riposarsi. W: Radio Rogna è una grossa grossa grossa avventura che è cominciata con una trasmissione che facevamo il lunedì sera, si chiamava Cascasse il monday. Diciamo che di lì abbiamo cominciato a creare il vero contenitore. A me viene in mente un po’ il modello Arbore come situazione, nel senso che c’era di tutto: c’era la musica, c’erano dei pazzi che facevano cose, c’erano ospiti vari. In quella trasmissione abbiamo cominciato a ospitare l’Associazione per le vittime della strage di Viareggio all’inizio e poi tutte le varie associazioni con cui ci avevano messo in comunicazione. Visto che l’associazione si chiama Il mondo che vorrei, Marco Piagentini, che è il presidente dell’associazione, si è inventato il nome della rubrica che era Il monday che vorrei. Quindi abbiamo iniziato a collaborare con loro, abbiamo seguito il processo. Abbiamo fatto cento puntate di questa trasmissione, senza saltare un lunedì: feste, Natale e varie, non importava, si faceva. La centesima puntata l’abbiamo fatta con superospiti di tutti i tipi. Da lì sono partite un sacco di trasmissioni. Abbiamo anche collaborato con l’Accademia di Belle Arti di Carrara con un ciclo di trasmissioni basate su conferenze che facevano. Insomma un sacco di roba. E poi c’è una delle branche fondamentali, che è quella del sociale. Oltre al discorso di Viareggio e delle altre associazioni, da marzo 2017 abbiamo cominciato anche a lavorare con la Struttura Semplice Disabili dell’Asl 5, che è quella locale, e con la Regione Liguria per un progetto che si chiama Vite Indipendenti. Abbiamo fatto vari laboratori, poi naturalmente siamo andati anche verso la radio. Per esempio ci sono questi ragazzi che hanno fatto quasi cento puntate di una trasmissione che si chiama Adiritura. E ora stiamo facendo con loro un’altra trasmissione che si chiama Allooora, dove ci sono varie rubriche. E niente, diciamo anche che quando abbiamo deciso di partire con l’esperienza della radio, abbiamo dovuto ovviamente informarci su come si apre una radio web, che programmi ci vogliono, abbiam comprato il programma per gestir la radio, quelle robe lì insomma, ed è partito questo gigante carrozzone che come impegno te ne dà parecchio, però con una soddisfazione grossissima. Quello che ci dicevamo all’inizio era: «sì, parti con otto, dieci trasmissioni, poi magari qualcuna si affievolisce» e così via, invece abbiamo sempre avuto una costanza anche nelle presenze, nelle richieste e stiamo continuando con cooperative e associazioni, a lavorare col sociale insomma. Lo studio di Radio Rogna TF: Si capisce che la radio è una parte di una struttura ben più complessa dove ci sono tutte queste cose che ci avete raccontato e dove c’è una promozione culturale e sociale a 360°. Però ecco, è una parte fondamentale, a cui siete arrivati naturalmente come avete detto, in quel modo che ci avete raccontato. Arrivo alla domanda: qualcuno di voi aveva già esperienza radiofonica e perché anche in quel contesto teatrale la scelta della radio? Cosa ti dà di più la radio effettivamente rispetto anche ad altri canali di comunicazione? S: Domanda che sembra semplice, ma è molto profonda e alla fine non so se riesco a risponderti adeguatamente, perché sono un po’ un cazzone (risate, ndr), però ti dico, e parlo proprio degli albori, io son sempre stato legato alla radio già da quando mia nonna toglieva le briciole sul tavolo con le trasmissioni radio e bisognava stare tutti zitti a tavola per ascoltare che dicevano. Non che io abbia a cento anni, però a casa mia nello specifico, da bambino piccolo mi ricordo solo la radio per dire, o la televisione in bianco e nero, che non era in cucina: c’era la sala e si andava dopo cena a vedere la televisione, ma non perché sono vecchio. TF: Tranquillo anche alcuni di noi si ricordano che fino ai sette, otto anni avevano una televisione a colori, ma la televisione in cucina e quella nel salotto grande, diciamo, erano bianco in nero e in casa mentre si faceva altro, lavori o cose varie, si ascoltava la radio e non si accendeva la tv, eppure siamo più giovani. S: Io mi ricordo ancora questa cosa di mio padre che quando diedero in televisione 2001 Odissea nello Spazio, io avevo otto-dieci anni,prese la televisione in bianco e nero in sala, la portò in cucina e disse, «Questo film però dovete vederlo anche voi», io e mio fratello, e la prima volta che vidi un film in televisione fu 2001 Odissea nello Spazio, per dire. Tornando alla radio però, io ho sempre frequentato il linguaggio radiofonico, arrivando dal teatro e da altri percorsi, chiamiamoli artistici ma che poi per me son lavorativi in qualche maniera. Il discorso della radio quindi è venuto naturalmente a me prima e a questo gruppo poi, ma anche a tutti quelli che sono arrivati dopo perché la radio, come si diceva, è un contenitore, o meglio è uno di contenitori della nostra associazione, senz’altro tutti contenitori che possono e riescono a coesistere. Nella radio però, io ho sempre visto un sacco di potenza evocativa, di immaginazione, di stare sul pezzo, ti senti un po’ quello che suona il citofono e poi scappa perché comunque non ti vedono, e queste caratteristiche attraggono tutti quelli che fanno parte di questo progetto. Poi c’è anche da aggiungere che queste nuove possibilità, anche sul web e compagnia bella, hanno sicuramente aiutato il proliferare di web radio, di situazioni come la nostra. Sarebbe carino anche parlare di dati infatti, perché per esempio durante il lockdown tutte le web radio di contenuti in qualche maniera hanno avuto dei picchi di ascolti incredibili, impensabili fino al giorno prima. Alla fine, soprattutto oggi forse, c’è anche molta responsabilità a fare la radio, perché tu dici delle cose che rimangono anche solo come archivio digitale. Crei podcast, per dire, che vivranno più di noi in qualche modo e quindi nelle cose che dici deve esserci un’attitudine, una poetica, una voglia anche di nuovi linguaggi. Devi cercare in qualche maniera di impegnarti, di metterci anche un po’ di autodisciplina in questa ricerca, perché oggi come oggi se io devo dire una cosa, devo dare una notizia, ho la stessa dignità per quanto mi riguarda di Rai News tipo. Non è che posso non guardare le fonti o non sapere bene cosa dire. Ricordo che noi, per esempio, all’inizio di gennaio 2020 praticamente, abbiamo dato la notizia del Coronavirus in contemporanea con Rai News, perché un nostro amico vive in Cina e ci ha chiamato dicendoci: «Guardate che sta succedendo una roba assurda». E se vi ascoltate quel podcast, che c’è ancora, è incredibile a livello di informazione e anche di colore ripensandoci oggi, perché questo parlava di ‘sta roba e noi «ahahah, sì sì, la Cina, la mascherina, ahahah» e ridevamo. Poi torno a casa la sera e c’era il titolo su Rai News, “Cina, nuovo virus” e si cominciò a parlare di questo. E quindi, per dire che anche una piccola radio web può in qualche maniera essere attiva, essere presente nella vita della società attuale, del sociale. Quindi, la radio è una figata. W: Sai quando si parla di web radio, tutti fanno riferimento alle radio libere degli anni ’70 e ’80, anche se poi essendo FM erano limitate a uno spazio, mentre le altre radio più grosse invece abbracciavano tutta Italia per esempio. Io invece mi sono reso conto assolutamente della potenzialità della radio e anche delle web radio, quando eravamo al processo per la strage di Viareggio, alla sentenza di primo grado, e ci siam trovati a intervistare l’avvocato civile dell’associazione Il Mondo che Vorrei: mi son girato un attimo e dietro c’erano ad aspettare in coda Sky, la Rai e ho detto «Cazzo, cioè siamo arrivati prima noi». E oltre a questo c’è anche il fatto che ti ascoltano da tutto del mondo. Abbiamo avuto l’opportunità di intervistare persone di ogni parte. C’era una trasmissione bellissima, Pandemondo, in cui s’intervistava gente in tutto il globo e si raccontava la pandemia in Sudamerica, piuttosto che in Nord Europa e così via. Ora sicuramente, con la tecnologia di oggi, con internet riesci ad arrivare dove prima era impensabile e quindi te la giochi in qualche modo.TF: Senza nemmeno stravolgere più di tanto quello che è la natura della radio, che rispetto ad altri mezzi di informazione sa adattarsi meglio a queste nuove tecnologie, diciamo. W: Poi mi puoi ascoltare mentre fai dell’altro, è quello il grande vantaggio.S: Walter si vede che non sei bravo, perché quando ascoltan me, stan lì belli fermi. Risate. S: Anche questa è una cosa bellissima che è stata detta a Perugia, al Gemini Festival, che è un festival di radio indipendenti organizzato da Gemini Network. E tra i tanti ospiti, c’era anche un radiocronista famosissimo, che ora mi sfugge il nome.W: Era di Tutto il Calcio Minuto per Minuto.S: Riccardo Cucchi, ecco, lui. Disse una cosa bellissima in questa intervista, faceva il paragone con la televisione, il passaggio dalla tv in bianco nero a quella a colori, e disse me lo ricordo benissimo: «Voi dovete capire che la radio è sempre stata a colori». Ed è una roba molto teorica ma che ti butta già quel respiro molto pratico, anche quotidiano, per far capire cos’è una radio. Scusami Riccardo se ci ho messo un po’ a ricordarmi il tuo nome. Gemini Festival (Foto archivio Gemini Network) TF: Avete accennato a Gemini Network. Ecco, di che cosa si tratta, come nasce? E visto che anche a noi interessa molto l’argomento come associazione, secondo voi quale credete che sia l’importanza di una rete simile a livello nazionale? S: Guarda, in Gemini Network ci siamo finiti dentro, nella rete, proprio ‘pescati’, perché tante amiche e amici in giro per l’Italia è già da qualche anno che stanno lavorando a questo progetto, di creare cioè un network dal basso delle radio indipendenti, libere, di contenuti, con l’intento di muoversi sempre più in futuro anche su ‘piattaforme non proprietarie’ del web. C’è chiaramente tutto un discorso molto interessante di costruzione della rete, anche dal punto di vista etico-politico. E ci siamo finiti nel senso che è tutto nato da un incontro, è sempre l’incontro la cosa fondamentale, un po’ come quando ci siamo incontrati noi a Torino. L’incontro è stato dato dal fatto che uno dei nostri conduttori, dj, speaker o come preferite, è stato invitato a Roma da Radio Sonar, un radio web che vi consiglio e che esiste da tanti anni, a fare un mixtape, a mettere dei dischi fondamentalmente, e quindi tramite lui, le amiche e gli amici di Sonar hanno conosciuto Radio Rogna. E niente, abbiamo iniziato a parlare, ci siamo cominciati a conoscere e poi c’è stato un incontro pubblico, aperto, online proprio durante il lockdown, e abbiamo aderito. Ci siamo frequentati un po’, poi siamo andati a Roma a una riunione, e Gemini Network è stato presentato quindi a… eh ora io son pazzo con i nomi e le date, ma diciamo maggio-giugno 2020, una roba del genere. Ne fanno parte allo stato attuale dieci, quindici radio un po’ di tutta Italia, con delle storie diversissime ma unite senz’altro da un’onestà del lavoro, da un approccio politico, mi verrebbe da dire libertario, un po’ open mind. Ci sono dentro da Radio Sherwood di Padova, Radio Sonar, Radio Ciroma, Radio Città Aperta, L’Autoradio di Perugia. W: Son radio che son aperte anche da quarant’anni, per dire. S: Ce ne son tantissime… ah, Radio Beatnik, Border Radio e Radio No Border, E insomma, ogni tot di tempo c’è un’assemblea pubblica aperta, perché è una rete aperta, e quindi partecipano web radio oppure persone, singoli attivisti e attiviste che vogliono entrare in questa rete, ed è uno spazio molto aperto. Abbiamo fatto questo festival a Settembre (2020, ndr) a Perugia ed è stato stupendo vedersi analogicamente dopo tanti mesi di lockdown e di casino, con ospiti stratosferici e workshop, laboratori, incontri e tante dirette radio. In generale, io Gemini la vedo bene. Come ho detto anche lì a Perugia in varie interviste e parlo per me personalmente, mi son rotto un po’ le palle di determinati linguaggi, cioè adesso se fai un bando o qualsiasi roba legata alla cultura e ti chiedono di “fare rete” e io rispondo sempre che la rete la facevano i camuni ( che immaginiamo siano un’antico popolo vissuto intorno nel IX secolo a.c. ndr), nel senso che avete rotto con questa storia. Il concetto è che per la prima volta o quasi quello che vedo in Gemini non è ‘sta rete che dicon loro. Noi ci siamo incontrati “tu cosa fai, io cosa faccio, ah si può fare assieme, sì, allora vediamo che cerchiamo di capire come fare”: non è che basta fare rete per riuscire a fare questa o quella cosa. Gemini Network è una rete, certo, che senz’altro è stata spinta da qualcuno, progettata e pensata da qualcuno, ma poi data in pasto a tutti, aperta a tutti e soprattutto libera come sono le radio che ne fanno parte. W: Sì, poi rete non è una parola buttata lì, appunto, nel senso che la rete è anche un’assunzione di responsabilità, perché si è veramente connessi: quello che non fai tu, va a discapito di un altro. Ed è difficile da gestire. Con Gemini è venuto fuori un bell’impegno, però c’è la soddisfazione di fare una riunione plenaria e ci sono venti, venticinque persone magari, che tutte hanno lavorato, hanno fatto dirette tutto il giorno e che alle nove di sera si vedono fino alle undici e mezza a parlar di roba da fare ecco, non a far discorsi in linea massima. Invece, la rete per come viene proposta nei bandi è “chi c’è, chi non c’è” , finisce lì, c’è una convenienza a farla. Qua c’è sicuramente una cosa che conviene, nel senso che comunque anche noi stiamo capendo insieme e grazie agli altri molte più cose su come sono anche le altre radio web, confrontandoci sugli ascolti appunto per esempio su quelli del lockdown, in cui tutti ci siam trovati tutti ad aver visto un picco che conferma un po’ una tendenza che se lavori da solo non hai, e quindi è fondamentale. Radio Rogna street live (Foto Irene Malfanti) TF: Sono reti reali insomma e non di facciata come spesso succede in quegli altri ambiti di cui parlavate voi appunto. Sono reti inoltre che poi si realizzano anche nel vostro lato diciamo così ‘sociale’ in senso ampio e da qui anche la collaborazione con l’associazione dei familiari delle vittime di Viareggio, Il mondo che vorrei, che è una parte molto importante per voi. S: Parte sociale ce n’è un botto guarda, anche se poi in realtà è tutto sociale… però nello specifico il discorso di Viareggio è stato sicuramente un percorso fondamentale. Con loro, ci siamo incontrati prima di tutto a livello artistico-culturale, nel senso che la Caravanserraglio Film Factory, tra l’altro anche con delle musiche di Walter perché è anche musicista l’Ubaldi, aveva fatto questo cortometraggio dal titolo Ovunque proteggi, proprio sulla strage ferroviaria di Viareggio. Che poi ha vinto un premio a Cannes, ha vinto anche il Global Short Film Awards di New York come Miglior Documentario, e noi proprio in occasione del Festival della Mentina invitammo questa proiezione che era agli albori, perché era appena uscita. Vennero anche tutti i familiari delle vittime di Viareggio a presentarla. Quindi conoscemmo Daniela Rombi, Marco Piagentini, Enzo Orlandini assieme anche a Riccardo Antonini, l’ex ferroviere, anche se si dice che un ferroviere non è mai ex. W: Specialmente lui. S: Insomma, da queste persone praticamente ci è arrivato un pugno in faccia di dignità, di rettitudine, di senso civico, di voglia di lottare con degli scopi precisi per verità, giustizia, sicurezza sul lavoro e non semplicemente per portare a casa un risultato per loro o per vendetta. Traspariva proprio dalle loro parole, dai loro occhi e dai loro cuori, la voglia di cambiare un pochino il mondo in cui siamo, come se volessero far capire attraverso la loro lotta il fatto che quella cosa poteva succedere a me, a te, a chiunque. Cioè, il treno che è scoppiato a Viareggio qualche minuto prima è passato per Sarzana, per intendersi. Io abito a 200 metri dalla stazione di Sarzana e poteva succedere ovunque. E il loro approccio è sempre stato quello, quindi ci siamo un po’ innamorati a vicenda, noi in particolare dei loro modi di fare e abbiamo sposato da subito la causa, stando molto in disparte, senza sbandierarlo più di tanto, assolutamente, ma cercando di essere a servizio del loro progetto, ché il loro è un progetto di educazione, di inseguimento della giustizia e della verità. E quindi abbiamo creato assieme una trasmissione, una rubrica come dicevamo prima, poi siamo sempre andati come radio alla passeggiata del 29 giugno a fare delle dirette lunghissime… ci siamo cresciuti assieme, insomma. La rubrica di cui vi parlava prima Walter all’interno di Cascasse il mondo, Il Monday Che Vorrei, quelle cento puntate, le facemmo con un minimo di redazione proprio con Marco Piagentini, nel senso che fu nostra assieme a lui l’idea di aprirla non solo a Viareggio ma ha anche a tutte le purtroppo molte realtà che ci sono in giro per il nostro stivale. Tant’è vero che un paio d’anni dopo, è stato creato il primo Comitato nazionale di familiari di vittime sul lavoro per la sicurezza. E quindi niente, ci siamo trovati in questo inferno, inferno pieno di cuori però. L’inferno ovviamente è quello umano. Come dicevo prima, il dolore non bisogna sbandierarlo senz’altro, ma c’è anche il fatto che noi in realtà ci rendiamo conto che non riusciamo minimamente a comprenderlo quel dolore, cioè io non posso capire Marco Piagentini che ha perso due figli e la moglie e che ha fatto nove mesi in ospedale e che comunque sta lottando ancora: per me adesso è il vero supereroe proprio. W: E comunque in qualche modo riesce anche, nonostante tutto questo, ad alleggerire. A volte eravamo più imbarazzati noi. Cioè lui ha un modo di parlare anche del dolore che, passatemi il termine, alla fine quello “non è pesante”, nel senso che è molto vero, lo capisci, però non ti crea una crisi, non te lo scarica addosso diciamo. Ovviamente un po’ te la crea perché se solo pensi a quello che ha passato, è pazzesco, però è una persona comunque positiva, comunque propositiva e si vede dal percorso che poi ha fatto anche tutta l’associazione, lui ma anche gli altri. S: Assolutamente. Comunque, poi ci siamo allargati, diciamo così, siamo andati anche in Sicilia con Adele Chiello Tusa per il monumento eretto per suo figlio Giuseppe Tusa, una delle nove vittime per il crollo della torre piloti di Genova. Abbiamo collaborato poi con Loris Rispoli e l’associazione di cui è presidente, IoSono141 (il disastro della Moby Prince avvenuto il 10 aprile 1991 che provocò la morte di 140 persone, ndr). Insomma siamo entrati in questo mondo in punta di piedi e ci siamo resi conto che la radio in qualche maniera può essere testimonianza, può essere approfondimento, cioè può stare molto al fianco di queste battaglie. Noi abbiamo sempre detto “Radio Rogna è al fianco di Viareggio”, lo scriviamo sempre, non solo di Viareggio però. Non puoi fare tutto, occuparti di tutto, però ti puoi schierare, puoi avere un’identità, puoi metterti al fianco di tante cose, viaggiarci vicino e stare lì, restituire sempre quello che accade. Quindi è quasi un atto dovuto quello di Radio Rogna di continuare a raccontare ciò che sta accadendo, di dare voce lì, non solo di prendere una posizione. Ripeto il dolore teniamolo da parte. Qua parliamo di atti civici, atti politici, tutto il discorso che riguarda la prescrizione, la sicurezza sul lavoro. Ricordiamo che non è mai abbastanza. Quando scoppiarono i vagoni a Viareggio, i Vigili del Fuoco che arrivarono non sapevano che cosa trasportavano quei cazzo di vagoni, e Ferrovie dello Stato non era tenuta a dire, e non lo è ancora adesso, che cosa trasportavano quei vagoni merce e in generale che cosa trasportano i vagoni merce, ed è assurdo. Questa è una battaglia sulla verità, semplice. W: È proprio il fatto di combattere. Marco dice sempre: «A me un processo giusto non mi ridà i miei figli e mia moglie, è proprio il fatto di evitare dolori, che questo non succeda più». S: Per dire anche con Gemini Network si sta pensando di fare qualcosa assieme che abbia ancora più peso specifico a livello di comunicazione, di passaggio non solo delle notizie, ma anche di cercare di cambiare qualcosa. Avendo anche una radio, intervistando talmente tante persone – non per fare i fighi eh, ma per dire che adesso Radio Rogna ha una certa identità, è abbastanza conosciuta – il nostro parlare tantissimo di ingiustizie sicuramente può aiutare. La cosa interessante è poi cercare anche di trovare dei comuni denominatori, perché lì bisogna agire. Giustamente ognuno ha la sua ingiustizia privata, ma la grande forza dell’associazione di Viareggio è stata quella di allargare l’ingiustizia privata, di universalizzare i loro fatti, le loro cose successe. Quindi, a cascata, è diventato un problema non solo di stragi ferroviarie ma di tante altre tragedie. Per dire, grazie ai familiari della strage di Viareggio e di Linate (8 ottobre 2001, ndr) prima, si è riusciti ad avere un decreto legge che se uno è dentro ad una roba del genere, lo Stato deve dare dei soldi per aiutare nel processo. Attenzione, qui parliamo di assicurazioni che arrivano il giorno dopo e ti dicono: «Ti do un milione di euro e sei a posto così». Hai voglia a non accettarli se ti è morto il padre, lo zio o chi portava a casa i soldi per mangiare. Questa legge, per dire, è una delle battaglie molto pratiche che ha fatto Viareggio e adesso è realtà. W: Praticamente è “partire da cosa posso fare io”. S: Tipo Kennedy (sorrisi ndr). W: A Sarzana sai abbiamo un sindaco come tutti, però le pulizie a casa non posso aspettare che le faccia il sindaco. Quindi sì deve esserci una politica in senso istituzionale, però il cittadino non deve aspettare, delegare continuamente. Devi esserci, devi fare. Ti faccio un esempio guarda, dopo la sentenza di Viareggio della Cassazione, è uscito un comunicato stampa proprio della Cassazione e io ancora non ho visto un programma che abbia parlato di questa roba. A livello di informazione la strage di Viareggio è finita. Quindi cosa possiamo fare noi come radio? Fare megafono, continuare a lasciare la luce puntata su Viareggio, ma anche su un altro migliaio di robe. Perché vediamo che anche oggi ci sono un sacco di notizie, ti potrei fare mille esempi, di cui trovi solo cose di due, tre giorni dopo. E noi di Rogna vediamo che si danno per finite notizie che finite non sono, per cui siamo noi che dobbiamo stare attenti, non possiamo dare le chiavi di casa a ‘sti qua. Live radiofonico per Megamostra 2018. (Foto Nicolò Puppo) Contenuti in evidenza Ti è piaciuto questo THREEvial Pursuit? Eccone qualcun altro... Read more...Attica libera, un articolo di C. Francioni || THREEvial Pursuit9 Giugno 2021Attica libera di Chiara Francioni “Il potere non deve togliere diritti alla gente, di qualsiasi razza, colore, religione o orientamento sessuale. Chi ha il potere deve assicurarsi che i diritti siano di tutti. Il vero potere non divide il popolo, e non lo unisce contro qualcuno, ma verso qualcosa: il futuro. Il vero potere non inventa un nemico, non governa con la paura. Un potere che governa con la paura ha paura. E di cosa? È semplice … ha paura del nuovo, e di come quel nuovo potrebbe farsi strada nella testa della gente” Attica è un’opera a fumetti in sei albi scritta e disegnata da Giacomo Bevilaqua, giovane (anzi giovanissimo, in quanto proveniente dai primi anni ’80 come la sottoscritta n.d.r.) fumettista italiano dal talento poliedrico e già autore di molteplici pubblicazioni con case editrici di tutto rispetto, quali Bao Publishing, Feltrinelli e – è proprio il caso dell’opera in questione – Sergio Bonelli Editore. Pubblicazioni che si traducono, ognuna a suo modo, in un approccio sensibile e critico alla società e alla condizione umana, che ne è inevitabile presupposto, aspetti privilegiati e protagonisti anche del graphic novel in questione. Una barriera necessaria per proteggere il posto più bello del mondo Attica, dicevamo, e se adesso state rovistando tra le vostre reminiscenze scolastiche nella speranza di contestualizzare, beh, significa che siete sulla strada giusta, perché proprio di quella Attica stiamo parlando: la regione ellenica in cui, in tempi ormai remoti, nacque la democrazia. Nell’immaginario di Bevilacqua la Attica del ventunesimo è una moderna città stato, resasi indipendente dall’Unione Europea e divenuta feticcio di tutti i leader sovranisti del mondo, nonché sogno proibito dei più, in quanto esempio di modernità e patria del benessere assoluto. Ma ad Attica non è facile entrare: circondata da alte mura e militarmente protetta, la città è fatta per i pochi ai quali è riconosciuto il privilegio di esserne cittadini, mentre per tutti gli altri restano solo l’amarezza del rifiuto e le sovraffollate favelas che si affastellano appena fuori le mura. E non è certo migliore il destino di coloro che tentano di entrare clandestinamente, giacché la legge di Attica non conosce pietà. Legge che altri non è se non la volontà incontrastata di un monarca assoluto, il temuto e adorato Presidente Ino. Gli abitanti di Attica venerano il loro governante come una divinità e lo sostengono ciecamente, in quanto autore del colpo di stato che ha donato alla città in cui vivono lo status di cui ora gode. Ino è infatti percepito come il garante della superiorità del popolo prescelto rispetto al resto del mondo, nonché unica forza in grado di fermare la minaccia rappresentata dall’odiato forestiero che, mosso da invidia, vorrebbe invadere la patria per usurpare ciò che, in base a una qualche forma di giusnaturalismo non meglio precisato, spetta di diritto ai cittadini di Attica. L’occhio, il marchio, il dono, la guida e l’arma Che il presidente Ino e il suo entourage rappresentino il male nella declinazione bevilacquiana dell’eterna lotta contro il bene (no, non iniziate a canticchiare il brano di Elio e le Storie Tese perché mi andare fuori strada) è ormai chiaro. E allora chi incarna la controparte luminosa e destinata a vincere? (Non mi si accusi di spacciare spolier, in quanto la morale edificante dell’opera non può che presupporre tale epilogo, seppur riservando qualche colpo di scena che terrò per me). Per rispondere alla domanda occorre introdurre il lato fantasy della storia. Attica, infatti, prima del colpo di stato ordito da Ino, era anche la patria dei Bordoscuro, minoranza di origine nomade e composta da esseri dotati di poteri sovrannaturali, finiti nelle mire del dittatore e, pertanto, vittime di un efferato genocidio. Alcuni superstiti sono però riusciti a lasciare il paese, grazie all’azione di un manipolo di resistenti capitanati dal misterioso Stromboli. Quest’ultimo, tessitore di piani e dei fili del destino altrui, riesce a condurre cinque giovani Bordoscuro verso l’oneroso, ma glorificante compito di rovesciare Ino e restituire ad Attica e al suo popolo la libertà. La storia segue quindi la quest cavalleresca dei cinque eroi (l’occhio, il marchio, il dono, la guida e l’arma), ciascuno alle prese con il proprio personale percorso di crescita e redenzione e perfetta espressione di quelli che dovrebbero essere i valori a cui informare una società sana ed evoluta: spirito critico, empatia, giustizia, tutela della diversità, sacrificio, solidarietà, consapevolezza. Il gruppo degli eroi Cilla, Kat, Aiden e Neto. Ne manca uno, ma la scelta non è casuale no spoiler Attica e il concetto di libertà Si possono dire molte cose di Attica, ma ho deciso di soffermarmi su un punto in particolare, lasciando poi a voi il piacere di leggere l’opera e scoprirne i vari aspetti. Così, riallacciandomi a quanto detto in chiusura del precedente paragrafo, mi pare di aver ragione nell’affermare che tra i valori che dovrebbero stare alla base di un sistema a misura d’uomo non può certo mancare il riconoscimento della libertà, che poi è anche il concetto su cui s’impernia l’intera sceneggiatura di Bevilacqua (al grido di #atticalibera). E infatti Attica è un’opera che ci vuole raccontare la bellezza della libertà, la sofferenza che deriva dalla sua negazione e la forza indomita che sostiene la lotta di chi, in nome di tale supremo valore, è disposto a sacrificarsi. La condanna delle condotte liberticide dei potenti è evidente, e Bevilacqua ce la mostra esasperando le conseguenze della deriva autoritaria che infesta Attica e il suo sistema di governo e che ha portato alla radicale soppressione delle libertà civili di coloro che non sono ammessi allo status di cittadino o che non ne sono più ritenuti degni. Si assiste quindi all’oppressione del diverso, all’abuso della forza contro il più debole, al dilagare di inappellabili sentenze di espatrio o di morte, decretate senza le garanzie offerte da un regolare contraddittorio. Ma la vaporizzazione della libertà interessa anche gli stessi cittadini di Attica, la cui autonomia risulta compromessa per effetto della strategia politica messa in atto dall’entourage di Ino. Il popolo, infatti, viene condizionato ed eterodiretto nello sviluppo del pensiero e, quindi, delle azioni, determinandosi così la polverizzazione dell’essenza stessa del principio di autodeterminazione. I mezzi a cui ricorre il potere per plasmare la mente e l’agire dei sudditi sono quelli canonici: imposizione dell’ideologia di massa fondata sull’esistenza di un nemico unico da temere – come minaccia di una libertà farlocca apparentemente garantita dallo stato – e odiare, manipolazione dei mezzi di comunicazione e informazione. Così il cittadino finisce per desiderare e fare ciò che il potere vuole che desideri e faccia. Sul piano della riaffermazione della libertà, invece, troviamo la lotta rivoluzionaria dei ribelli, coloro che, dinanzi all’impossibilità di intraprendere altra strada, decidono – non senza sofferenza – di percorrere la via della lotta di liberazione per annientare un potere usurpatore e dalle fondamenta marce, che si pone come ostacolo alla estrinsecazione sia delle libertà civili degli oppressi, sia della libertà di autodeterminazione dei cittadini del regno, ingabbiati in un’illusione liberticida. Aiden e Kat da piccoli tra le rovine che il colpo di stato di Ino si è lasciato dietro Attica e il suo autore Bevilacqua sceglie di trattare i temi, certamente non leggeri, appena illustrati adottando un approccio vincente, caratterizzato, da un lato, da un profilo riflessivo e impegnato e, dall’altro, da un registro ironico e irriverente. Dal punto di vista grafico, invece, si cimenta in un vero e proprio tributo al mondo dei manga, come lasciano bene intendere le dimensioni degli albi (che potremmo tranquillamente chiamare Tankōbon), lo stile carico di dettagli e rigorosamente in scala di grigi, nonché la struttura e i tagli delle vignette, che presentano caratteristiche tipiche del fumetto nipponico, quali l’assenza di riquadri e l’asimmetria. Bevilacqua sceglie poi di arricchire il tutto con numerosi e strategici richiami (che non vi rivelerò, ma che potrete trovare elencati al termine dell’ultimo volume) alla letteratura, cinematografia, pop-culture, oltre che con simpatiche autocitazioni (avete presente A Panda Piace? – per citarne una). Infine, vale la pena ricordare che, nel corso dell’edizione 2020 del Lucca Comics & Games (quella in modalità covid), Bevilacqua si è aggiudicato il Gran Giunigi per la miglior opera seriale dell’anno.... Read more...Riattivache?!?!? || Intervista a infinipi, riattivatore di Invader, di G. Silvestrelli || THREEvial Pursuit26 Maggio 2021Riattivache?!?!? Intervista a infinipi, riattivatore di Invader di Giorgio Silvestrelli Gli amanti di street art e dell’arte contemporanea avranno sicuramente sentito parlare di Invader. Questo noto artista francese realizza principalmente mosaici che attacca in giro per il mondo. Ma cosa succede quando queste opere vengono staccate? Con questa domanda in testa, dopo approfondite ricerche, sono venuto a conoscenza di una specie di “organizzazione segreta” che si fa carico di ricostruire questi mosaici e riportarli in strada. Sono i così detti “riattivatori”.Dopo lungo girovagare su internet, sono entrato in contatto con uno di loro. Anche lui street artist, il suo nome è infinipi. Ecco cosa ci ha raccontato. Giorgio Silvestrelli: Ciao come stai? Tutto bene, spero. Vuoi innanzi tutto raccontare ai lettori di Three Faces chi sei e cosa fai? infinipi: Ciao! Tutto bene, grazie mille. Il mio nome e cognome preferisco non rivelarli. Il mio nome d’artista invece è infinipi. Ho una quarantina d’anni e sono laureato in informatica e matematica. Sono nato a Roma. Madre francese. Padre italiano. Vivo a Miami da un bel po’ di tempo. Mmmh cos’altro, parlo molte lingue. Cosa faccio? Difficile da spiegare in poche parole, ma diciamo che sono un artista tradizionale e anche aziendale. Con il termine tradizionale intendo che lavoro con vari materiali come inchiostro, resina, pitture, legno, mosaici. Tutto quello che capita a tiro e che m’ispira!Ho anche una ditta di consulenza e sviluppo digitale dove, con il mio team, facciamo integrazione e creazione di applicazioni per web e mobile per diverse aziende. Sicuramente meno divertente, ma paga le bollette! (ride n.d.r.) GS: Ho voluto fortemente questa intervista per parlare di un argomento che, anche chi è nel mondo della street art da tempo, non conosce. Parlo dei riattivatori di Invader, di cui tu fai parte. Ma prima, mi sembra doveroso parlare di Invader. Vuoi fare una tua personale introduzione su questo street artist conosciuto in tutto il mondo? i: Certo. Invader è un artista francese “senza volto” che ha creato la sua fama a livello mondiale usando piastrelle di vetro e ceramica ricreando inizialmente personaggi di video giochi (Space Invader, Galaga, Super Mario Bros, Pac-Man ecc.) della nostra gioventù (anni ’70 e ’80 n.d.r.). Pian piano, ha creato i suoi “personali” alieni. I pezzi sono installati in posti sempre visibili ma incospicui. Spesso, infatti, sono davanti agli occhi di tutti ma, se non guardi in quel posto, non si vedono. Il 99% dei suoi lavori sono mosaici, ma ha fatto anche molte stampe, adesivi, abbigliamento e sculture. Oggi, con internet e le aste mondiali, il suo nome è spesso accostato a quello di Banksy e altri famosi street artist “senza volto”. Le opere di Invader sono vendute all’asta per migliaia se non milioni di dollari. Tutti i circa 4000 pezzi installati per le strade del mondo, in quelle che lo stesso Invader chiama “invasioni” hanno un clone, chiamato Alias. Spesso gli Alias sono esposti in gallerie oppure vengono venduti attraverso gallerie autorizzate. I mosaici alle più basse latitudini si trovano in mezzo al Golfo del Messico mentre il mosaico in più alto di tutti invece si trova nella Stazione Spaziale Internazionale ed è stato portato dall’astronauta italiana Samantha Cristoforetti. Sì, esatto, c’è un’opera di Invader in orbita nella stazione spaziale! GS: Ora che abbiamo parlato di questo grande street artist parliamo del termine “riattivazione”. Chi è e che cosa fa un riattivatore di Invader? i: Un riattivatore è una persona che si incarica di rimettere al proprio posto i mosaici di Invader che sono andati distrutti o rubati in giro per il mondo. Una riattivazione è una replica dell’originale montata da un riattivatore e non dall’artista. Ogni riattivazione deve essere richiesta e approvata da Invader in persona. Le mattonelle devono essere uguali a quelle originali (marca, modello colori, ecc.). L’opera riattivata deve essere nello stesso luogo dove era originariamente il pezzo, e va anche fotografato. Se ci sono ancora mattonelle vecchie o del vecchio cemento, tutto deve essere rimosso e pulito per assicurare una buona adesione della riattivazione. Le riattivazioni vanno fotografate ancora prima di essere installate per essere sicuri che il pezzo sia identico o il più simile possibile all’originale. Mattonelle giuste, tonalità giuste, che il pezzo sia ben “dritto” ecc. Una volta installato, il pezzo viene fotografato e la foto spedita ad Invader. Quando arriva la sua approvazione, la riattivazione può definirsi conclusa. L’obiettivo: che nessuno sappia se è l’originale o una riattivazione. Il valore reale della riattivazione: il costo delle mattonelle, della colla e del cemento. GS: Perché hai deciso di diventare un riattivatore? Come sei venuto a sapere di persone che riattivano le opere di Invader? Ti va di raccontarci tutti i passaggi di una riattivazione? i: Abito a Miami da molto tempo e avevo visto diversi pezzi di Invader in giro per la città. Mi piacevano molto ma, spesso, mi accorgevo che venivano rubati o distrutti. Erano già molti anni che seguivo questo artista su Instagram e un giorno lui postò una foto di un suo mosaico scattata da una fan francese. In quel momento mi è venuto in mente di seguire su questo social anche i suoi fan. Negli stessi giorni avevo anche scoperto che c’era un’applicazione per cellulari riguardante Invader. Poi ti spiegherò qualcosa in più su questa applicazione. Tornando a noi, seguendo questi fan mi sono reso conto che alcuni di loro postavano foto di pezzi che sembravano nuovi ma i nomi mi risultavano vecchi. Questo mi ricorda che non ho spiegato la storia dei nomi! Ogni pezzo di ogni città ha un nome. Normalmente le tre prime lettere sono la sigla della città e dopo viene il numero sequenziale dell’installazione nella medesima città. Per esempio a Miami ci sono 85 pezzi perciò tutti i pezzi si chiamano MIA_ (città) e il numero, ad esempio MIA_69. Tornando alla nostra storia, mi sono reso conto che i nuovi pezzi che Invader installava all’epoca erano tipo PA_1000 e questi fan stavano postando foto di PA_130 con cemento che sembrava ancora umido, cosa che dopo dieci anni non dovrebbe accadere. È in questo modo che ho scoperto la parola “riattivazione”. Negli stessi giorni in cui sono venuto a conoscenza delle riattivazioni, è stata lanciata una nuova versione di Flashinvaders, una app creata proprio da questo street artist. Si tratta di una specie di caccia al tesoro virtuale e reale. Il gioco consiste nel trovare i mosaici nella realtà, fargli una foto con l’applicazione e guadagnare punti per ogni pezzo trovato e fotografato. I punti vanno da 10 a 100. Il punteggio dipende da molti fattori: dalla complessità del pezzo, il luogo dove è installato il mosaico e la sua grandezza. Con l’aiuto di internet mi sono messo a cercare dov’erano i pezzi qui a Miami. Ho trovato online delle mappe e possedevo anche un libro pubblicato da Invader che riporta tutte le foto dei mosaici della mia città. Parecchi di loro non esistevano più, ciònonostante mi sono messo a giocare con i mosaici ancora esistenti. A quel punto ho provato ad entrare in contatto con Invader e il suo entourage per vedere se mi permettevano di riattivare dei pezzi qui a Miami. Ma i miei tentativi fallirono, nessuno mi rispondeva. Dopo circa un anno, ricevo all’improvviso un messaggio da un gruppo di riattivatori in Inghilterra. Non avevano risposto ai miei messaggi precedenti, quelli inviati con il mio profilo Instagram personale, ma rispondevano invece ad un account Instagram che avevo creato e chiamato ReactivationTeamUSA, dove avevo postato una foto qualsiasi di un mosaico che ero riuscito a trovare qui a Miami. Tramite questo account ho cominciato a seguire altri account di riattivatori europei. Non passarono neanche 24 ore che subito hanno cominciato a bombardarmi di messaggi chiedendomi chi fossi, da dove venissi e cosa volessi ma, soprattutto, mi domandavano chi pensassi di essere per postare quelle foto che non c’entravano nulla con le riattivazioni. Spiegai che cercavo di sapere come poter fare per “formalizzare” la mia accettazione nella “squadra” dei riattivatori e come fare per poter riattivare i pezzi a Miami. A quel punto mi chiesero se avessi parlato con i riattivatori di Los Angeles o di New York. Gli dissi che non sapevo assolutamente chi fossero e, cortesemente, chiesi che mi mettessero in contatto con loro. Poi ci fu il silenzio. Niente più risposte. Niente di niente. Per più di un anno ho seguito attentamente chi veniva a Miami tramite l’app, però erano poche le persone in confronto alle altre grandi città. Per puro caso, quella stessa estate, a Parigi, si tenne un simposio per tutti i fan dell’artista. L’idea mi piacque subito moltissimo ma ero impossibilitato ad andare. Poco dopo scoprii che un meeting di quel tipo era in programma a New York. Mandai subito un messaggio chiedendo di poter fare parte del comitato organizzativo così da poter fare un simposio qui a Miami. Incredibilmente accettarono! Non era una cosa direttamente legata all’artista, ma solo un raduno di fan per conoscersi e fare due chiacchiere sul nostro artista preferito. Colsi al volo l’opportunità di fare questo raduno con l’obiettivo di riuscire a stanare qualche altro fan qui nella mia città. Miami ha una scena di graffiti e street art abbastanza conosciuta, anche se principalmente a livello locale, ed è una delle quattro città negli USA che sono state “invase”. Ciò nonostante, le persone non hanno un grande interesse per queste cose. Il risultato è che al mio simposio qui in città non venne nessuno. Ricordo bene che un giorno, mentre pranzavo, ricevetti un messaggio da un tipo in Francia che sapevo essere un riattivatore. Mi chiese se conoscevo qualcuno che avrebbe potuto aiutarlo, dato che aveva intenzione di venire qui a Miami. Da lì ho cominciato a parlare con lui e siamo diventati amici. Per pura coincidenza, quell’estate sono andato a Parigi e ci siamo conosciuti di persona. Ad agosto fu lui a venire nella mia città con un altro riattivatore. Da quel momento in poi, dopo aver fatto la prima “ondata” di riattivazioni con loro, l’entourage di Invader ha cominciato a fare il mio nome agli altri riattivatori che venivano a Miami indicandomi come persona capace di aiutare nelle riattivazioni. Una volta ottenuti i contatti giusti, anche per avere le mattonelle, ho iniziato a riattivare pezzi anche da solo, naturalmente seguendo sempre tutti i protocolli di autorizzazione. GS: Il vostro gruppo da quante persone è composto? Vi conoscete tutti personalmente? Prendete decisioni insieme? Ti va di spiegarcene le dinamiche? i: A Miami siamo in due adesso. Sì, naturalmente conosco personalmente l’altro ragazzo che mi aiuta con le riattivazioni. Una persona che prima non conoscevo assolutamente. Tramite Instagram e il gioco, mi ero accorto che c’era qualcuno nella mia città molto appassionato di Invader. Quindi non ho perso tempo e l’ho contattato. È stata una bella scoperta! Tra di noi non abbiamo dinamiche molto formali. Semplicemente chiacchieriamo e vediamo quali sono i pezzi che ci interesserebbe riattivare. Analizziamo tutti i fattori: se il palazzo esiste ancora, se il mosaico potrebbe durare a lungo, se abbiamo tutte le mattonelle o se riusciamo a recuperarle in tempi brevi. Sembra una stupidaggine, ma trovare le mattonelle è molto, molto difficile! Spesso perché le ditte smettono di produrle, specialmente quelle piccole in vetro. In più, per noi che viviamo in America, le aziende che producono mattonelle sono diverse e quindi spesso dobbiamo comprare e farci spedire le mattonelle direttamente dall’Europa, principalmente dalla Francia. Puoi quindi immaginare i costi. GS: Quanti gruppi di riattivatori ci sono nel mondo? Che rapporti ci sono tra di voi? i: Non si sa esattamente. Però fra quelli che conosco e quelli di cui ho sentito parlare direi che siamo circa una ventina sparsi per il mondo. Molti di noi preferiscono che il pubblico non sappia nulla dei riattiavatori. Noi abbiamo tutti una cosa in comune: proviamo ad essere discreti. Solo pochi di noi, invece, sono più aperti e raccontano chi sono e cosa fanno. Qui negli USA, ad esempio, abbiamo una chat comune dove parliamo di tutto, i francesi invece usano principalmente Discord e altre piattaforme. Ogni volta che qualche riattivatore viene qui in America, creiamo una chat su Whatsapp per organizzarci con la logistica, la tempistica, ecc. Io ho il grande vantaggio di parlare molte lingue e questo mi permette di comunicare con tutti i riattivatori del mondo. GS: Che rapporto c’è tra voi riattivatori di Miami e Invader? V’interfacciate direttamente con lui? i: Il nostro rapporto è con l’entourage – che noi chiamiamo “studio” – di questo street artist e non direttamente con lui anche se, spesso, lo stesso Invader ci dà consigli su luoghi alternativi dove fare le riattivazioni oppure ci segnala le sostituzioni che dovrebbero/potrebbero essere fatte. Queste sue parole ci arrivano sempre tramite lo studio. Diciamo che lui deve darci la sua personale autorizzazione se, per caso, ci sono variazioni o difficoltà tecniche come, ad esempio, se c’è un muro che è stato demolito o una colonna che non esiste più ecc. Se non ci sono difficoltà, comunichiamo solamente con lo studio. Spesso, se ci mancano delle mattonelle specifiche o difficilmente reperibili, ce le inviano direttamente per aiutarci. GS: Tutti possono diventare riattivatori? i: Guarda, è una domanda difficile a cui rispondere, perché in realtà, qui in America, siamo abbastanza separati dalle attività della Francia dove la maggior parte dei riattivatori abitano e agiscono. Qui negli USA ci conosciamo tutti personalmente perché ogni volta che visitiamo una città “invasa” da Invader, ci ritroviamo anche solo per bere una birra insieme. Con la popolarità di Invader in continua crescita, ho sempre più gente che mi chiede, tramite Instagram, molte informazioni su noi ritattivatori. Spesso, però, mi rendo conto che ci sono ulteriori motivi. Allora, nello stesso modo in cui gli inglesi mi hanno reso molto difficile entrare in contatto con lo studio, io faccio lo stesso con queste persone che mi contattano. Voglio che mi mostrino interesse nel trovare le mattonelle giuste o a montare i pezzi per fare vedere che sono veramente interessati ad aiutarci con le riattivazioni. Lo studio ha anche avuto problemi con certi riattivatori che hanno preso troppo sul personale la cosa e che hanno letteralmente fatto a botte con altri riattivatori. Ci sono stati anche dei casi in cui dei riattivatori hanno venduto loro pezzi spacciandoli per originali e questo è inaccettabile, per me, per Invader e il suo studio. Oggi come oggi è diventato sempre più difficile fidarsi di qualsiasi persona. GS: Tu partecipi al gioco di Invader? Riattivi le sue opere per accumulare più punti (sto scherzando)? Ci vuoi spiegare un po’ meglio questa parte ludica del progetto di Invader? i: Sì, certo (ridendo), ci “gioco” anche io. No, non riattivo i pezzi per accumulare più punti. Qui a Miami ci sono dei mosaici posizionati non troppo in alto e che quindi sono facili da rubare. Questi pezzi li ho già rimessi quattro o cinque volte. Riattivo questi mosaici perché fondamentalmente a me piacciono molto. Però, devo essere sincero, ormai sto incominciando a stancarmi perché uso i miei soldi per le riattivazioni e sempre più spesso mi rendo conto che i mosaici che ho riattivato finiscono su internet per essere venduti e vengono spacciati per originali. Il bello di Flashinvaders, per me, è che io lo uso tipo un catalogo di avventure nel mondo. Giocando con questa app, ho avuto modo di conoscere parecchie città in modi che non avrei mai pensato. Per esempio, a Roma, ci sono parecchi pezzi in centro, nella zona del Colosseo o vicino Piazza Venezia, luoghi che non avrei mai visitato a piedi se non fosse stato per cercare questi mosaici. Lo stesso ho fatto a Lione, in Francia, o ad Amsterdam. È un altro modo di scoprire le città! Con Flashinvaders giocano anche i miei figli che spesso mi chiedono se un determinato mosaico è “uno dei miei” (ride). La logica alla base di questa app, oltre a vincere punti, è quella di provare a simulare il gioco originale Space Invaders nel mondo reale. Invece di cercare gli alieni sullo schermo e sparargli con un pulsante come facevamo negli anni ‘70 e ‘80, oggi i player cercano gli alieni in giro per il mondo e usano la macchina fotografica del telefonino per “sparargli”. Ogni nuova città che si visita è come un nuovo livello e puoi aumentare il tuo punteggio. In gergo, quando “spari” ad uno dei mosaici questa azione è definita “flash”. È tutto molto divertente e puoi vedere, in presa diretta, gente in tutto il mondo che sta usando il gioco e i pezzi che stanno “flashando”. Dimenticavo di dirti una cosa, puoi anche “flashare” la stazione spaziale quando vola sopra di te per uccidere lo Space_02 di cui parlavamo prima. Di recente ho anche richiesto allo studio che i player potessero avere la possibilità di flashare il luogo dove è ricaduto Space_01 (puoi vedere il video qui: Art4Space). GS: Vorrei naturalmente approfondire il tuo personale rapporto con la street art dato che anche tu sei uno street artist. Quando hai iniziato? i: Prima di iniziare in maniera “ufficiale” posso dirti che sono sempre stato un appassionato d’Arte. Sono abbastanza romantico su questo punto, nel senso che provo sempre a trovare un significato in tutto ciò che mi circonda. Prima usavo un coltellino per mettere le mie iniziali sul tronco degli alberi, poi ho iniziato ad attaccare adesivi in giro e mi rendevo conto sempre più spesso di una cosa: l’adrenalina che si genera nel fare un qualcosa di “non-tradizionale” mi dava sempre una sensazione di euforia pazzesca. Quasi come se avessi assunto degli stupefacenti, ma senza averlo fatto! Un paio di anni fa la mia vita personale era abbastanza sotto sopra a livello mentale, all’esterno cercavo di darmi un contegno, ma ero molto turbato. Mi tenevo tutto dentro. Un periodo pessimo, che mi ha rubato molti anni di vita, specialmente con i miei figli, dato che non ho potuto godere appieno della loro crescita perché avevo sempre la sensazione di non riuscire a concentrarmi su di loro come volevo. Insomma, è una storia lunga e penso che sia poco inerente alla tua domanda. Per farla breve, un giorno sono andato a fare delle analisi del sangue, risultò che avevo i trigliceridi a 555 (normalmente dovrebbero stare sotto i 130 n.d.r.). Sintetizzando, la dottoressa mi disse: « Non so cosa stai facendo ma SMETTILA altrimenti finisci in ospedale con la pancreatite e a quel punto non ci sarà più nulla che possa darti per far passare il dolore ». Così ho deciso di cambiare completamente strada. Ho smesso di bere tutti i giorni, di fumare, ho cominciato a fare attività fisica a fare meditazione quotidianamente. Diciamo che questo è stato l’inizio ufficiale di una nuova vita. Ho approfittato di questo cambiamento radicale usando la mia arte come valvola di sfogo e per provare a sciogliere dei nodi molto grandi che avevo dentro di me. Questo era un modo di urlare al mondo senza aprire la bocca. Anche oggi fare arte è, per me, una vera valvola di sfogo. Di tanto in tanto, facevo vedere i miei pezzi agli amici. Le reazioni, anche alle mie opere non finite, erano sempre più spesso un “Wow!” o un “Che bello!”.Le mie opere che non erano fatte per gli altri, all’improvviso, avevano un pubblico e piacevano. Nel corso degli anni, quasi involontariamente, ho cominciato a seguire e a capire un po’ meglio come ogni artista – possiamo chiamarli street artist o semplicemente artisti, tanto per me sono la stessa cosa – agiva ed è in quel momento che è nato il concetto di infinipi.infinipi è il nome della mia arte e il mio nome d’arte. Diciamo che è una specie di concetto matematico, ora ti spiego. Il Pi greco è una costante matematica composta da una serie di numeri che non si ripetono mai. Se una persona decidesse di creare un algoritmo per trasformare dei gruppi di numeri in lettere, dal Pi greco sarebbe possibile estrapolare tutte le parole del mondo. Tutti i nomi delle persone che ami e che hai amato e tutte le frasi che hai detto e che dirai nel corso di tutta la tua vita. Infinito invece è chiaro. Vuol dire per sempre. Riassumendo, in maniera forse un po’ banale: tutto ciò che un individuo può dire o fare per sempre. L’amore è molto importante nella mia vita e nella mia arte. Gli altri soggetti che spesso utilizzo nelle mie opere sono le carpe e/o i pesci e anche i simboli dei chakra, i centri di energia del corpo. GS: Cosa ti ha spinto a diventare uno street artist? i: Boh… Ad essere sinceri non è che un giorno mi sono svegliato e ho detto: « Voglio essere uno street artist! ». Negli anni ci sono state molte persone che mi dicevano che gli piaceva ciò che facevo. Mia madre, anche poco prima che venisse a mancare, mi spingeva a trovare il modo di guadagnare qualche soldo con la mia arte, con la mia passione e sosteneva che avrei dovuto continuare a svilupparla. Un po’ per questo motivo, un po’ per via delle mie vicissitudini di salute fisica e mentale, anni fa ho ultimato il disegno di una carpa che avevo in cantiere. La carpa significa guerriero, lottatore. Da allora mi sono dedicato agli sticker e ai miei personali mosaici. La maggior parte dei mosaici sono del Pi greco con il simbolo dell’Infinito oppure delle scritte. Tutti hanno una precisa simbologia, non sono altro che l’espressione della mia sofferenza, il mio modo per esporla al mondo. Ho dei mosaici sparsi per le città in America, in Europa, e anche ai Caraibi, ne ho installati più di un centinaio. Oggi ho anche dei pezzi esposti in alcune gallerie a Parigi, e qui a Miami. Ricevo commissioni per pezzi relativamente piccoli, ma una volta me ne hanno chiesto uno con più tredicimila mattonelle! Ho più di una ventina di sticker diversi che molte persone vedono nelle strade di Miami. Ho collaborato anche con molti artisti conosciuti. Sono solo io che decido cosa posso o non posso fare con la mia arte. Mi diverto, e qualche cosa ci guadagno anche! Per ora uso questi soldi sia per comprare altri materiali, sia per fare delle riattivazioni di Invader ma anche per produrre io stesso nuove opere. Ad esempio compro mattonelle francesi, dove la spedizione costa più delle stesse mattonelle, ma anche resine speciali o vernici cromate. Spero vivamente che un giorno potrò vivere solamente facendo arte. Il mio focus in questo momento è di creare una serie di opere, mosaici, pezzi in resina e anche qualche quadro per poter fare un solo show. Vorrei fare questa esposizione in concomitanza con la “stagione dell’arte” qui a Miami, quando si svolgono molti grandi eventi come Art Basel, Art Miami e altri. GS: I tuoi lavori prendono grande ispirazione da Invader, questo è evidente. Ci sono altri artisti (non solo street artist n.d.r.) che ti ispirano? i: Moltissimi! Invader m’ispira per la sua semplicità e per il concetto dentro la sua arte. Inoltre un mosaico ha molti vantaggi, specialmente nel piazzarlo. Ma, come ti raccontavo poco fa, produco anche molte opere che non sono mosaici. Tra gli street artist da cui traggo ispirazione vorrei citare: WRDSMTH, Kai, Shepard Fairey, ENX, Atomiko, The London Police, Clet Abraham, Mcn.spl, d*Face, Padhia (Unfuk Yourself), Ahol Sniffs Glue, Andre Saraiva, vhils, El Seed, MUEBON, El Pez, Bordalo II, Duel Diagnosis, Kraken, Roy Lichtenstein, Keith Haring, Merioone, e molti, molti altri!La cosa bella, per me, è scoprire come vedono il mondo questi artisti attraverso i loro lavori. Tra gli artisti più “tradizionali” vorrei citare Joan Miro, Van Gogh, Carlos Cruz Diez e Leonardo da Vinci. Naturalmente traggo ispirazione anche dalla musica, dai film e molte altre cose, ma in questa intervista voglio limitarmi solo all’arte visiva. GS: Illustraci cosa sta dietro alle tue creazioni. I: Penso aver già risposto a livello concettuale, comunque una cosa che mi accade spesso con i mosaici è che, mentre guido per la città, vedo un posto che mi sembra perfetto e me lo segno nel telefonino. A volte mi viene subito l’idea di un pezzo per quel preciso luogo, altre volte invece ci devo pensare un po’. La lista nel telefono sta diventando piuttosto lunga, piano piano proverò ad accorciarla. Quando lavoro con materiali diversi dalle mattonelle, faccio alcune prove che non sempre funzionano! L’ultima volta che ho provato a inventarmi una forma in silicone, il silicone si è attaccato all’originale che avevo fatto in DAS e resina, e l’ha rovinato. Più di dieci giorni di lavoro buttati via. Ma ho imparato la lezione! GS: La street art è un fenomeno globale. Sempre più persone s’interessano a questa forma d’arte. Tu cosa pensi al riguardo? La street art sta diventando sempre più mainstream? I: Senza dubbio! Il grande salto, da fenomeno underground a mainstrem, della street art è stato fatto grazie ai social network. Anni fa, uno passeggiava per la strada e vedeva un murale e la cosa finiva lì. Al massimo facevi una fotografia analogica. Magari, in ambito locale, un artista riusciva ad avere un certo seguito, ma erano comunque poche le persone rispetto ad oggi. Uno dei primi street artist ad avere una audience mondiale è stato Keith Haring. Ma all’epoca, la street art non era molto conosciuta. Oggi, con internet, un qualsiasi artista ha un palcoscenico mondiale attraverso il quale esporre i propri lavori. Dunque ogni opera può essere vista, anche solo virtualmente, da tutti e non importa dove vivi o ti trovi. In questo modo è diventato più facile vendere l’arte e guadagnarci qualcosa. Il problema, a mio modo di vedere, è che la popolarità porta a sopravvalutare l’arte al limite del ridicolo. Basti guardare le aste di Banksy, Invader e Basquiat, solo per citare qualche artista. Invader per esempio vendeva i suoi primi “Kit d’invasione” per 25 euro in edizioni di magari 100 pezzi. L’ultimo Invasion Kit, del 2018 costava circa 2.400 euro e, una edizione di 300 copie, andò sold out in un paio di minuti. Quei kit di 25 euro ora, all’asta, vengono battuti a 30 mila euro e quello del 2018 l’ho visto vendere a più di 10 mila euro. Un paradosso! È triste perché a me piace comprare opere d’arte. Acquisto pezzi di quasi tutti gli artisti che mi piacciono. Molti non li appendo nemmeno al muro, ma mi piace pensare che contribuisco a sostenere il loro lavoro. Il problema principale sono le aste e le gallerie che mettono prezzi astronomici solo per intascarsi le commissioni sulla vendita. Non è giusto, ma è il mercato. Faccio un appello: quando potete, comprate direttamente dall’artista! Come artista voglio vendere pezzi per guadagnarci e pagarmi da vivere. Come collezionista voglio prezzi accettabili per pezzi originali. Ora c’è anche l’arte digitale NFT che sta diventando sempre più di moda. Anche io farò opere NFT? Molto probabilmente sì, perché mi piace l’idea dell’animazione digitale di un dettaglio di una mia opera, ma la verità è che, per me, non ha lo stesso valore di un pezzo lavorato a mano, tangibile. Questo ha molto a che fare con la mia carriera professionale, anche se rispetto l’effimerità dei lavori digitali. Per esempio ho lavorato nove mesi intensamente per lanciare un sito internet. Disegno, programmazione, un sacco di fattori stressanti. Ho passato notti in bianco per integrare dei sistemi di prenotazione! Il sito, finalmente, viene lanciato e io ho vinto due premi per questo portale web. Ma fra due anni sarà già vecchio e obsoleto. Basterà schiacciare il tasto “delete” sulla tastiera e tutto quel lavoro, quella fatica, puff! Scomparirà per sempre. No, no! Io preferisco un oggetto fisico. GS: Vivendo negli USA posso chiederti come ti relazioni con la street art nostrana? La segui (se sì, dacci una tua opinione e, se no, spiegaci il perché)? i: Ogni volta che vado in una città che non conosco, mi rendo subito conto se la street art è presento oppure no. In Italia, devo ammettere che sono abbastanza limitato alla mia esperienza a Roma. Quello che mi fa ridere è che spesso la pubblicità è molto invasiva. Prodotti, politica, traslochi. Questo tipo di poster e adesivi sono dappertutto. Non mi viene in mente di un altro posto dove c’è una situazione analoga così! Poi ci sono le tag fatte sui muri di palazzi residenziali e pubblici un po’ ovunque. Le tag a me non piacciono affatto e lo considero vandalismo. Molti palazzi in Europa in genere sono coperti di materiali naturali come pietra o legno, materiali che considero nobili, e mi rattrista vedere come spesso un bel marmo è stato rovinato solo perché qualcuno ha deciso di farci uno scarabocchio solo per sporcarlo. Non ha senso! Purtroppo a Roma, che a mio parere è una delle città più belle del mondo, succede fin troppo spesso e questo la rende, secondo me, molto meno attraente. Cassonetti, cartelli, serrande, dipingete a volontà. Ma lasciate pulite almeno le pietre! Poi c’è l’arte. A Roma ci sono murales bellissimi, poster e sticker realizzati da artisti di tutto il mondo. Provo sempre a conoscere gli artisti di persona e anche a comprare pezzi loro. Il bello è che viaggiando, essendo sia artista che riattivatore, ho avuto la possibilità di conoscere molti artisti e, quando sono loro a viaggiare, provo a metterli in contatto con altri artisti del posto dove stanno andando. La stessa cosa che facciamo noi riattivatori! Ad esempio Fl.Mingo, uno street artist di Miami è andato a Roma e io l’ho messo in contatto con Merioone e Stoker. Un’altra volta SCRED, artista francese, è venuto nella mia città e subito l’ho messo in contatto con Atomiko, un mio amico con cui sono andato a dipingere muri molte volte. L’arte non ha lingua né paese. È universale. GS: Puoi darci una tua riflessione sulla street art negli USA? i: La street art è un mondo dinamico e posso parlare a proposito della mia personale esperienza e in base alla conoscenza di alcune grandi città tipo Miami, New York o Los Angeles. L’America, a differenza di Europa o Asia, è un paese molto giovane. Ha a malapena 200 anni di storia. I palazzi spesso sono in cartongesso, costruiti per essere buttati giù dopo pochi anni. Questa mentalità crea un ambiente molto dinamico e fluido, non come in Italia, dove l’età media dei palazzi è di secoli! Adesso, grazie alla popolarità dei grandi mural, alcune aree delle grandi città americane vengono ricostruite mantenendo però i murales. A Miami ci sono parecchie zone che chiamano “Arts District”, sicuramente ne avrai sentito parlare, e la più conosciuta si chiama Wynwood. Qui il nuovo sviluppo della città va di pari passo con gli artisti che realizzano murales. A New York c’è un mio amico che gestisce East Village Walls dove, tramite proprietari di palazzi e la città, offrono i muri agli street artist, proponendogli però un concept da sviluppare con la loro opera. Queste iniziative sono, per me, l’equivalente moderno degli affreschi fatti ai tempi dei romani. ll problema principale è la fragilità della vernice sul muro. A Parigi, ad esempio, c’è un muro, nel quartiere Oberkampf, dove ogni mural dura circa un mese. Può darsi che catalogare tutti questi capolavori e creare delle opere NFT potrebbe essere una buona idea! Usare il digitale per catalogare l’effimerità del mondo fisico. Concetto interessane, non trovi? Insomma, la cosa importante è sapere dove i murales sono accettati dalla gente e se ci sono progetti che si occupano di farli realizzare. Qui a Miami attacco i miei pezzi dove preferisco perché il mosaico in sé spesso non è considerato al pari dei graffiti perciò sopravvive molto più a lungo anche in quartieri dove i murales non durano più di un paio d’ore.GS: Sempre più di frequente, almeno qui in Italia, le istituzioni, i mass media e i brand si interessano al fenomeno. Avviene lo stesso anche negli States? i: Sì, avviene anche qui negli USA, ma adesso qua da noi sono state create delle leggi che proteggono gli artisti e le loro opere. Se, per esempio, un’azienda usa un mural come sottofondo per una campagna pubblicitaria senza chiedere all’artista, questi ha diritto ad un risarcimento. Anche se si tratta di arte pubblica, non può venire utilizzata da chi ha un chiaro scopo commerciale. GS: Puoi dirci la tua personale definizione di street art? Per te che cos’è? i: Per me la street art è arte all’aria aperta fatta per essere goduta da tutti. Non so come si traduce in italiano il detto inglese: “Beauty is in the eye of the beholder”. La Bellezza è nell’occhio di chi guarda, giusto? Questo è il problema dovuto al fatto che parlo molte lingue. Le frasi idiomatiche e i detti non so tradurli molto bene e può capitare che mi confondo con le parole. Mi succede spesso. GS: Legalità vs illegalità. Non potevo non affrontare il tema con te che preferisci non rivelare il tuo volto, il tuo nome e cognome. Che opinione ti sei fatto sui grandi murales autorizzati e su chi invece, come te, preferisce agire nell’ombra? i: Nel mio caso, non mostro la mia faccia per motivi personali, non per una questione di legalità. Quando posso, infatti, chiedo sempre il permesso. Questo, perché è molto più facile lavorare con calma e di giorno piuttosto che alle 5 del mattino, correndo per strada con una scala e del cemento in mano. Quando non ho nessuna autorizzazione, uso una specie di divisa che, in genere, mi permette di fissare i mosaici anche in pieno giorno senza far insospettire troppo le persone. Tutto ha a che fare su come funziona la mente umana. Non entro troppo nei dettagli, se permetti (ride)! Quando partecipo ad alcuni eventi di street art, semplicemente chiedo ai fotografi di oscurare o di non pubblicare foto della mia faccia. Oggi, con il COVID-19, è ancora più facile celare la mia vera identità, visto che tutti noi dobbiamo usare una mascherina. GS: Il mercato dell’arte contemporanea, ormai da diversi anni, ha preso ad interessarsi del fenomeno street art. Tu e gli altri riattivatori riportate in vita i lavori di Invader perché qualcuno li ha staccati, per le ragioni più disparate, ma spesso per venderli. Da quello che mi raccontavi, anche le riattivazioni vengono staccate, anche per entrare nel mercato dell’arte. Dunque, le vostre riattivazioni come possono definirsi? Copie di Invader o originali? i: Come ti spiegavo prima, ogni pezzo installato in strada ha un clone ufficiale che si chiama Alias. A livello di mosaici non esistono delle “serie” ad eccezione dei kit d’Invasione. Solo gli Alias sono firmati e hanno una scheda che spiega il luogo nel “mondo reale” dove è stato installato. Se qualcuno stacca un mosaico dalla strada, che sia originale o una riattivazione, in teoria non ha nessun valore perché è un pezzo senza firma e non è autenticabile. Esistono solo due tipi di mosaici di Invader che hanno veramente valore: quelli che possiamo definire Invasion Kit e gli Alias. Tutte le altre sono copie e nient’altro. Però, come ti raccontavo, il problema è che c’è un enorme numero di persone ignoranti in materia. Se una galleria incornicia un pezzo rubato o staccato, i possibili acquirenti pensano si tratti di un affarone dato il prezzo assai basso. Proprio qualche giorno fa, a Chicago, una galleria autorizzata ha venduto cinque Alias di Invader. Il prezzo più basso era di 32 mila euro. Quindi, come puoi ben capire, se facciamo un confronto tra 8 mila euro e 32 mila euro, è evidente che chi compra a 8 mila è certo di fare un super affare. In realtà, invece di spendere 8 mila euro, uno potrebbe facilmente andare in un negozio di mattonelle a Parigi, spendere 10 euro o 15, e farsi da se il pezzo, e risparmierebbe una montagna di soldi, perché non c’è nessuna differenza nel valore tra questi due pezzi. Dunque, per rispondere alla tua domanda, se le riattivazioni sono copie o originali, posso dire che sono copie “autentiche” dei pezzi originali. Ma, voglio sottolineare che anche il pezzo originale che si trova in strada non ha e non dovrebbe avere alcun valore. Gli unici pezzi ad avere valore sono gli Alias, perché sono autenticati dallo stesso Invader. Mi è capitato di trovare le mie riattivazioni in vendita su eBay per 25 mila dollari o su altri siti per 1000 o 5000. Questi sono tutti prezzi inventati perché le opere vengono spacciate per pezzi originali. Spesso, quando ho tempo e pazienza, scrivo direttamente alla persona che sta mettendo in vendita le mie riattivazioni raccontando tutta la storia e spiegando che le mattonelle mi appartengono. Spedisco anche foto dei miei mosaici in costruzione per far vedere che non sto inventando storie. Spero sempre che esista ancora un po’ di bontà nel mondo! Mi capita anche di offrire dei soldi per pagare i costi di spedizione così da riavere le mie mattonelle ma, come potrai immaginare, la maggior parte di queste persone o smette di rispondermi o mi manda a quel paese perché sono convinti di avere in mano un’opera originale di Invader. A quel punto faccio una denuncia di vendita di merce fraudolenta o per vendita di copie false. Tu, giustamente, mi dirai ma perché se sono approvate dallo studio? Perché non sono Alias, non sono firmate e non hanno nessun certificato di autenticità. Quando gli utenti o i siti di vendita online non tolgono l’annuncio, avverto lo studio e si occupano loro di farlo rimuovere. Questa settimana lo studio mi ha mandato una mail di qualcuno che stava provando a rivendere allo studio stesso un pezzo che era una mia riattivazione che avevo fatto nel 2019. Lo studio gli ha scritto che non si trattava dell’originale e che apparteneva a me. Questo soggetto ha continuato a rispondere dichiarando che era un originale e iniziando una feroce discussione con lo studio perché avrebbe voluto dei soldi dato che secondo lui, aveva “salvato” un Invader originale! GS: Tu e gli altri riattivatori quali mezzi utilizzate per provare a far fronte a questo fenomeno della rimozione di opere di Invader per la vendita? Ci vuoi raccontare meglio, dal tuo punto di vista, le complesse meccaniche di questo pazzo mercato della street art? i: Quello che stiamo facendo oggi è provare a mettere i mosaici in modo tale che si rompano il più possibile quando qualcuno prova a staccarli. Io personalmente scrivo sempre un messaggino sulla parte retro dicendo che è un pezzo rubato, perché già parecchie volte ho avuto negozi di cui conosco i proprietari che sanno che faccio riattivazioni e mi dicono che qualcuno aveva portato una riattivazione o mattonelle rotte a farle incorniciare. Oltre a questo, uso il mio account Instagram per mostrare i pezzi in vendita su internet dicendo che sono falsi. Facciamo tutto il possibile per svalutare questi pezzi non originali, provando anche a scoraggiare chi vuole comprare. Sempre più spesso, anche i partecipanti del gioco mandano dei messaggi a chi sta tentando di vendere pezzi non originali di Invader. Spediamo centinaia di messaggi al venditore o il sito in cui sta avvenendo la contrattazione fino a che uno dei due non decide di rimuovere l’annuncio. Come per qualsiasi altro mercato l’importante, specialmente per chi vuole acquistare, è essere ben informato e avere conoscenza della materia. Altrimenti è come andare a una bancarella dove qualcuno ha preso dei pennelli e scarabocchiato su un pezzo di carta un disegno che spaccia per un Mirò originale. E pretende di venderlo a una cifra esorbitante. GS: Siamo giunti alla fine (dirai: finalmente!) ultime domande. Sogni e progetti da realizzare? Ne hai? Raccontaci tutto. i: Poter fare ciò che mi piace, senza dover preoccuparmi più di tanto delle mie finanze. Non ho più venti anni e col tempo le priorità cambiano. Il lavoro, la famiglia. Sono tante le cose di cui occuparsi quotidianamente. Ciò che veramente sogno è la pace mentale. Non desidero guadagnare milioni di dollari, né sono interessato dalla fama. Vorrei trovare il modo di fare un lavoro che mi dia soddisfazione fino ad arrivare ad un punto tale che non è più un lavoro, ma un piacere. Un paio di anni fa è venuta a mancare mia madre e sempre più spesso mi rendo conto dell’importanza di avere un buon equilibrio mentale e fisico perché questi due aspetti hanno un forte impatto sulla nostre vite. Medito tutti i giorni, per almeno un quarto d’ora, da anni e questo mi aiuta a premere il pulsante “slow-motion” in un mondo dove diventa tutto sempre più “fast-forward”. Tenere tutto in perfetto equilibrio non è affatto facile, ma con grinta e passione si va avanti. Provando a creare nuove realtà. GS: Cosa vuoi dire ai lettori di Three Faces? i: Molto semplice (ride), ! E ho detto tutto! Scherzi a parte, se vi piace l’arte, entrate in contatto con l’artista, fateglielo sapere. Se potete, comprate dei suoi pezzi.Fare arte, anche se sembra banale dirlo, costa soldi e tempo. Quando un artista vende un pezzo, lo perde per sempre. Avere persone che stimano ciò che fai non ha prezzo! Grazie per il vostro tempo e spero che vi sia piaciuto ciò che ho condiviso con tutti voi. Grazie infinite e don’t stop reactivation! Photos by infinipi... Read more...Moai Press || Intervista a Matteo Bidini || THREEvial Pursuit12 Maggio 2021Moai Press: la nuova bussola nel mondo dell’arte urbana Intervista a Matteo Bidini di Three Faces Annunciata da appena una settimana, sembra già avere tutti i crismi per diventare un futuro punto di riferimento per il mondo dell’arte urbana: Moai Press. Acronimo di Mural and Other Art Issues, Moai Press vuole essere uno spazio digitale dedicato all’approfondimento e al confronto sull’arte nello spazio pubblico in Italia. Una bussola, fatta di raccolte, di ricerche, approfondimenti e testi critici curati da professionisti ed esperti del settore, utile ad orientarsi in un settore complicato e caratterizzato da molteplici approcci e punti di vista differenti.Abbiamo approfittato della zona gialla per prenderci una birra in zona Sant’Ambrogio con un vecchio amico, Matteo Bidini, uno dei fondatori e promotori del progetto. Un antipasto, diciamo, in attesa di ascoltare questa sera la presentazione ufficiale in streaming sul loro gruppo Facebook. Three Faces: Come e perché nasce questo progetto? MB: Moai Press è una piattaforma online che nasce con l’intento di creare un archivio di contenuti di qualità creati da artisti, curatori, critici, progettisti e da varie persone che negli anni hanno dimostrato un certo tipo di sensibilità rispetto ai temi dell’arte urbana, dell’arte che vive nello spazio urbano, nello spazio pubblico. Nasce un po’ da un senso di rifiuto nei confronti di una forma di comunicazione, o comunque un’immagine, che viene data della street art che riteniamo non corrisponda a verità. Nei nostri anni di esperienza, sia come curatori, come progettisti o come artisti, abbiamo sentito sempre più pesante e crescente questo vuoto che abbiamo in Italia, rispetto ad altri paesi dove è invece presente un’informazione su questo tema più corretta e adeguata. Abbiamo sentito che non si può sempre lasciare parlare solo persone, che tendenzialmente non fanno parte di questo mondo, di quello che la street art è o cosa dovrebbe essere. Anche perché ovviamente questo genera una serie di errori e bug interpretativi nell’opinione pubblica. Nasce principalmente con questa intenzione qua: dare voci e un punti di vista interni a questo mondo. Nella redazione siamo in sei persone: io, André dei Guerrilla Spam, Andrea Gianfanti, Francesca Melina, Gioele Bertin e Davide Gavioli. Tutti nella vita ci muoviamo a vario titolo in questo ambito. Ci occupiamo di cose differenti, siamo curatori, siamo progettisti, siamo artisti che poi come missione di vita hanno fondato questo progetto di Moai. Siamo arrivati al lancio di questa piattaforma dopo più di un anno di lavoro. Ci lavoriamo da marzo 2020, da quando è iniziata la pandemia ed eravamo tutti fermi a casa. Oltre a noi poi ci sono tante persone che hanno appoggiato il progetto, sia artisti che curatori, che ci hanno dato dei testi da pubblicare. In alcuni casi sono testi già pubblicati su cataloghi venduti in cento copie, che quindi hanno girato poco e hanno avuto poca visibilità. In questo senso siamo contenti che dei curatori abbiano creduto nel progetto a scatola chiusa dandoci del materiale ancora prima di partire. Ci sono poi stati svariati artisti che invece ci hanno donato delle grafiche da stampare per l’autofinanziamento per sostenere le spese vive del progetto. Questo perché appunto crediamo totalmente nell’autofinanziamento e vogliamo portare avanti questo progetto con le nostre forze. Per quanto riguarda le spese, sono inerenti al mantenere il sito on line, oltre che per dare un contributo, anche minimo o simbolico, a chi scrive per noi, che è una cosa che oggi non fa quasi nessuno. TF: Il portale è comunque aperto e munito di una sezione per proporre contributi, giusto? MB: Sì, sul sito c’è una sezione per inviare contributi aperta a tutti. Noi comunque, attraverso la rete che ci siamo costruiti negli anni, abbiamo contattato subito le persone che per noi erano fondamentali. Parlo di tutti quei curatori e tutti quegli artisti che per noi era fondamentale fossero inseriti da subito affinché il progetto avesse le levatura e la credibilità che volevamo dargli. Tolto questo sì, siamo apertissimi a collaborazioni. Oltre a questo c’è da dire che la nostra piattaforma non deve parlare solo di street art in senso stretto. Ad esempio, tra i primi contributi che abbiamo ricevuto ci sono anche scritti di un professore di sociologia, di un professore di semiotica, di antropologi. Quindi persone che tendenzialmente non si occupano di arte ma che però entrano incidentalmente a che fare con l’arte. Quando operi nello spazio pubblico non puoi non parlare di antropologia o sociologia, per intenderci. In quest’ottica è inevitabile quindi la necessità di collaborazioni esterne. Ovviamente tutti i contenuti vengono posti al vaglio della redazione per mantenere anzitutto uno standard di qualità, oltre che una certa direttiva etica e morale in quello che facciamo e che vogliamo comunicare. TF: Nasce anche come stimolatore di confronto e incontro. MB: Assolutamente sì, attraverso il canale Telegram. Noi abbiamo creato questa cosa proprio per creare confronto e dibattito. Al di là della piattaforma on line, che sarà il primo step, vogliamo innanzitutto essere promotori di conferenze, incontri, scontri… o comunque di tutta una serie di situazioni propedeutiche a fare divulgazione e a far comprendere ciò di cui si tratta, cioè l’arte urbana. TF: Avete in modo di sviluppare il progetto anche in altre direzioni? MB: Una cosa che a me in particolar modo piacerebbe portare avanti nel gruppo sarebbe quella di riuscire a creare tutta una serie di piccole produzioni editoriali, fanzine d’autore, roba seria. Poi un’altra cosa che mi piacerebbe particolarmente sarebbe il riuscire a creare delle produzioni anche multimediali, podcast, video. Ci sono molti artisti che non hanno mai collaborato insieme e che potenzialmente potrebbero farlo, avendo modo di creare qualcosa di bello che altrimenti non esisterebbe. A me piace molto il mondo dell’editoria d’autore, le fanzine con disegni particolari, i libri d’artista fatti in un certo modo. In questo senso mi piacerebbe molto sperimentare. Anche perché il fine deve essere principalmente questo. Deve essere motivo di sperimentazione e dare spazio a quelle che sono le nuove generazioni artistiche di domani, mettendole in condizione di fare un po’ meglio di noi quello che abbiamo fatto noi. Bene. Da parte di Three Faces non possiamo che augurare al progetto una lunga e stimolante vita, che aiuti a far chiarezza e a fornire un indirizzo al fenomeno dell’arte urbana. Per maggiori informazioni visitate il sito www.moaipress.it. Iscrivetevi al canale Telegram (→ https://t.me/joinchat/VCyKTEXim3nB516Y ) e al già citato gruppo Facebook (→ https://www.facebook.com/groups/158984785824721/).... Read more...Bulgaria: tutto e niente, un articolo di G. Levantini || THREEvial Pursuit28 Aprile 2021Bulgaria: tutto e niente di Gabriele Levantini Street art a Sofia – Bulgaria, 2017 (Photo by Gabriele Levantini) Correva l’anno 2017, avevo una gran voglia di viaggiare e pochi soldi per farlo. Così, dopo una ricerca online, decisi che la Bulgaria faceva al caso mio. Reclutai un amico e, zaino in spalla, partimmo. In questi giorni di ostinata pandemia, mi piace ricordare i viaggi che facevo in anni più facili, riviverli per evadere dal presente e sperare nel futuro. Attenzione ai carretti – Bulgaria, 2017 (Photo by Gabriele Levantini) La nostra prima meta è Sofia (София). È sorprendente che i principali monumenti di quest’antichissima città siano edifici religiosi relativamente recenti: la Moschea Banya Bashi, la Sinagoga, la Cattedrale di Sveta Nedelya, la Rotonda di Sveti Georgi, la Chiesa di Bojana e altre ancora. Dei resti dell’antica Serdica invece non rimane praticamente niente, se non nel Museo Archeologico, e il luogo simbolo della città è la Cattedrale Aleksander Nevski, costruita in stile russo alla fine dell’Ottocento, all’ombra delle cui imponenti cupole si svolge un pittoresco mercatino di icone. Non bello, ma certamente interessante da visitare, è il gigantesco monumento all’Armata Rossa, finora sopravvissuto alla furia iconoclasta che ha investito tutto l’Est Europa dopo gli anni ’90. Ci fermiamo due giorni, poi prendiamo un’auto a noleggio e ci avventuriamo in un road trip nel quale toccheremo le principali località del paese. Attraversiamo una periferia di palazzi fatiscenti e accampamenti zingari, che degrada rapidamente in un paesaggio rurale sospeso nel tempo. Lungo le strade si incrociano carretti trainati da cavalli, contadini pelle e ossa e minuscoli villaggi di case scalcinate. Il paesaggio pianeggiante e secco diventa via via più fresco mentre saliamo di quota, e i campi lasciano spazio alla foresta. Ci fermiamo nel piccolo paese di Kocherinovo (Кочериново) giusto il tempo di mangiare un panino con un qualche tipo di carne affumicata che un tizio cuoce sotto un albero e poi ripartiamo per il Monastero di Rila (Рилски Манастир), antica cittadella monastica patrimonio UNESCO dal 1983. Durante la nostra visita fraternizziamo con uno dei custodi che parla un italiano abbastanza buono iperché – ci racconta – aveva lavorato a Milano “in anni che vostro paese era ricco”. Ci lasciamo alle spalle l’antico monastero, attraversiamo il villaggio collinare di Stob (Стоб) alle cui spalle si sviluppano interessanti formazioni rocciose e facciamo rotta verso Plovdiv (Пловдив), che fu la Filippopoli macedone e la romana Trimontium, dove ci fermeremo per la notte. Del suo illustre passato rimane una grande area archeologica lungo la strada pedonale Kyniaz Aleksander, che loro sostengono essere la più lunga d’Europa e che porta a una collinetta che sovrasta il centro storico. La città è molto vivace e i vicoli del quartiere Kapana sono pieni di gioia e di street art. Immancabile, come in ogni città bulgara, la moschea ottomana, con tanto di caffè annesso, il grande parco alberato e un monumento “all’esercito sovietico liberatore“. Monastero di Rila – Bulgaria, 2017 (Photo by Gabriele Levantini) Il giorno seguente riprendiamo il nostro viaggio verso oriente, dove visiteremo la costa bulgara, divenuta celebre negli ultimi anni. Superiamo l’anonima cittadina di Karnobat (Карнобат) e ci dirigiamo verso la nostra prima meta: Sozopol (Созопол), un antico borgo marinaro purtroppo assediato da un abusivismo edilizio selvaggio. L’atmosfera troppo commerciale di questa località non ci aggrada e, dopo un breve giro, risaliamo in auto e ci dirigiamo a Burgas (Бургас), dove pernotteremo. Anch’essa è una sorta di Rimini dell’est, molto apprezzata dai turisti russi. Come per la Rimini originale, la spiaggia cittadina – Sunny Beach – non è niente di eccezionale. Alle spalle di questo carnaio per vacanzieri però si sviluppa un bellissimo parco urbano e alle spalle della città si trova un’immensa laguna salata che offre la possibilità di fare numerose escursioni. Il giorno seguente ci fermiamo qualche chilometro più a nord, nella desolata spiaggia di Dyuni (Дюни) e ci godiamo finalmente un po’ di mare, mentre in lontananza i grandi hotel incombono come mostri sulla costa. Visitiamo successivamente l’antichissimo villaggio di Nesebăr (Несебър), che sorge su un’isola collegata alla terraferma da un istmo artificiale. È un insieme di rovine, chiese, stretti vicoli, mulini e tipiche case in legno davvero interessante, ma anch’esso circondato da palazzoni e alberghi che qui spuntano ovunque come erbacce velenose. Dopo esserci fatti spennare in un ristorante iperturistico, andiamo a Varna (Варна), vivace località di mare chiamata con eccessiva enfasi “Perla del Mar Nero“. Campagna bulgara – Bulgaria, 2017 (Photo by Gabriele Levantini) Purtroppo, decidiamo di dare retta a una ragazza austriaca conosciuta in ostello, la quale ci raccomanda di saltare a piè pari la commercialissima spiaggia di Golden Sands e di dirigerci a nord. Risaliamo così la costa che diventa sempre più rocciosa, mentre il mare si fa più scuro, torbo e agitato. Il paesaggio è bellissimo, ma l’acqua fa schifo. Visitiamo il fotogenico faro di Shabla (Шабла) e proseguiamo fino ai villaggi di Krapets (Крапец) e Durankulak (Дуранкулак), addossati alla frontiera con la Romania, senza trovare mai una spiaggia decente. Alla fine, per disperazione, ci fermiamo nella spiaggia di quest’ultimo villaggio, che è veramente orribile. Con la delusione nel cuore per questa debacle marittima, facciamo volta a occidente e ci fermiamo a Ruse (Русе), cittadina in stile asburgico sulle sponde del Danubio. Le architetture raffinate degli edifici ci mostrano la passata importanza di questa località, ma il loro attuale stato ci dà la misura di quanto sia fugace la gloria del mondo. L’ultima tappa della giornata è Veliko Tarnovo (Велико Търново), città-fortezza che fu l’antica capitale del paese e che oggi è un borgo medievale sperduto sulle colline della Bulgaria centrale. Il nostro viaggio è concluso: non ci resta che tornare a Sofia per poi rientrare in Italia. Il tragitto che ci separa si snoda nel Parco Nazionale dei Balcani Centrali. Attraversiamo località piuttosto anonime, come Gabrovo (Габрово) e Kazanlak (Казанлък), ma anche alcuni punti di interesse, come Etar (Етър), un antico villaggio rurale bulgaro ricostruito, il Monastero di Sokolski (Габровско-Соколски манастир) e il panoramico Passo Shipka (Шипка), col grandioso monumento ai caduti della guerra turco-bulgara. Brutalismo sovietico a Sofia – Bulgaria, 2017 (Photo by Gabriele Levantini) Ricordo che tutto sommato, la Bulgaria mi deluse un po’. Se da un lato la sua natura rigogliosa e la sua quiete hanno un certo fascino, dall’altro i suoi paesaggi non sono certo in grado di suscitare quell’anelito dell’Assoluto che i poeti romanticisti chiamavano sehnsucht. E pure i monumenti, se si pensa alla storia plurimillenaria di quest’angolo di mondo, sono piuttosto deludenti. Forse la vera bellezza di questo piccolo paese è il suo essere tutto e niente allo stesso tempo: macedone, greco, turco, russo, mittleuropeo, cristiano, musulmano, socialista e liberista. In fondo è rassicurante sapere che nel mondo esiste almeno un luogo dove gruppi ed etnie che si sono massacrati a vicenda per secoli, hanno finalmente imparato a convivere insieme. Mercatino di icone a Sofia – Bulgaria, 2017 (Photo by Gabriele Levantini)... Read more...Partigiani e memoria divisa (v.2), un articolo di G. Bindi || THREEvial Pursuit24 Aprile 2021Partigiani e memoria divisa Dall’estate di sangue del 1944 all’occultamento dei colpevoli di Gianluca Bindi Questa è la versione ampliata del THREEvial Pursuit uscito lo scorso 25 Aprile 2020 e aggiornata dall’autore alla luce di nuovi studi effettuati (NdR) Ci risiamo. Ogni anno, per la festa della Liberazione, ci tocca sentire ogni genere di lordura sulla memoria dei partigiani che si sono sacrificati durante il periodo infernale dell’occupazione tedesca in Italia, tra la fine del ’43 e il 25 aprile 1945. Delle migliaia di morti causate dal passaggio delle truppe tedesche sulla penisola, solo in Toscana ci furono, in neanche tre mesi, tra le 4000 e le 5000 vittime civili1. Di chi è la colpa? La vox populi odierna sembra puntare il dito praticamente soltanto sui partigiani. Nelle migliori delle ipotesi, festeggiare la Liberazione dai nazifascisti e la conseguente fine della Seconda Guerra Mondiale è diventato divisivo. In questo articolo, il più brevemente e chiaramente possibile, descriverò come è stato possibile un tale trasferimento di colpe in poco più di 75 anni, provando a essere una guida contro le male voci e le fake news che tentano di cambiare la percezione della memoria di un evento complesso. I briganti È colpa dei partigiani se ci furono rappresaglie; se non avessero attaccato l’esercito tedesco quest’ultimo non avrebbe rastrellato e ucciso civili innocenti. Il feldmaresciallo Kesselring Ormai è diventato un ritornello ricorrente. E, anche se a volte c’è stata una diretta conseguenza causale fra uno scriteriato attacco partigiano ai tedeschi e la messa a ferro e fuoco di interi paesi, non è stato sempre così. Anzi. Riassumiamo brevemente la situazione aggiornata all’estate del 1944. L’Italia è divisa in due: a nord c’è la Repubblica Sociale italiana (stato fantoccio del Reich con a capo Mussolini), mentre a sud gli Alleati stanno liberando a mano a mano la penisola. Nel mezzo c’è l’esercito tedesco in ritirata con reparti delle SS che stanno inondando di sangue la popolazione civile. Perché? I tedeschi stanno attuando una strategia militare denominata ‘ritirata aggressiva’. Ufficialmente stanno impegnando l’esercito Alleato durante la risalita per guadagnare tempo e reperire manodopera schiava; infatti secondo il capo delle truppe, il feldmaresciallo Kesselring, l’unica speranza per la Germania per evitare la sconfitta è finire di costruire una linea corazzata di difesa sugli Appennini tosco-emiliani, denominata Linea Gotica. In pratica, però, non è altro che un’indiscriminata attuazione dei più efferati crimini di guerra su civili inermi. E c’entrano poco o niente gli attacchi dei partigiani. Per cominciare il 17 giugno 1944 Kesselring dipana un ordine a tutte le sue truppe, prendendo spunto dal cosiddetto ‘Foglietto di istruzioni’ o Merkblatt 69/1 in cui: Veniva cancellata la linea di demarcazione fra la popolazione civile e i partigiani; ergo tutti potenzialmente potevano essere partigiani, anche donne, vecchi e bambini.Totale arbitrarietà ai comandi locali su chi fiancheggiasse o appartenesse a bande di partigiani in una determinata zona;Infine, Kesselring in persona, garantiva quella che poi sarebbe passata alla storia come ‘cambiale in bianco’, ossia non solo la totale copertura a comandanti e soldati che avessero ecceduto nelle misure repressive contro la popolazione, ma anche esemplari punizioni a chiunque avesse esitato o avuto comprensione verso i ‘nemici’ civili2. Ma questo è solo il punto di partenza. Molti eccidi toscani sono stati attuati con gelida razionalità, al fine di liberare territori per la ritirata e, preventivamente, attaccare zone in cui si presumeva ci fossero (o fossero sostenute attivamente o passivamente) bande armate. Quindi, i massacri non avevano tanto lo scopo di reazione ad attacchi subiti, ma costituivano una vera e propria tattica logistica e militare. Provo a spiegare in maniera semplice. Dopo la conquista di Roma da parte degli Alleati (4 giugno 1944), “la Wehrmacht era in rotta completa (…). Il destino delle truppe tedesche in Italia pareva irrimediabilmente segnato”3. Sarebbe un’occasione d’oro per sferrare l’attacco decisivo e porre fine alla guerra (almeno in Italia), visto che “nell’estate del 1944, dopo lo sbarco in Normandia, ridotta a combattere su tre fronti, la Germania non aveva nessuna possibilità di arrivare almeno a un negoziato con i suoi nemici”4 e che, come ammette proprio un generale nazista: “Nel periodo dal 4 giugno, giorno della conquista di Roma, fino al 16 giugno, la 5a Armata Alleata aveva compiuto un’avanzata di centoquaranta chilometri. Era un ritmo corrispondente all’inseguimento di un avversario battuto.”5 L’esercito alleato fallisce l’opportunità di annientare i tedeschi nei pressi del lago di Bolsena, facendoli riorganizzare dietro una linea di difesa, denominata Albert, che partiva nei pressi di Grosseto, “passava a nord di Chiusi e Perugia e finiva sull’Adriatico a sud di Ancona”6. È chiamata anche Linea Trasimeno, proprio per lo sfruttamento del lago come difesa naturale. A questo punto il fronte è stabilizzato “anche grazie al modo dilettantesco con cui Alexander e Clark (i principali generali Alleati, rispettivamente al comando delle armate britanniche e americane, nda) conducevano le operazioni”7. Paolo Paoletti ci aiuta a fare il riepilogo della situazione: “il 23 giugno tutto l’esercito tedesco aveva completato lo schieramento dietro la Linea Albert. (…) Il 28 giugno, il XIII corpo britannico riuscì a sfondare la Linea Albert, per cui presto tutte le posizioni tedesche divennero indifendibili”8. Da qui in poi, come abbiamo visto prima, la lotta ai partigiani, o a tutti i civili considerati tali, si inasprisce in maniera sanguinosa poiché “il terrore di ogni ufficiale tedesco era che, ad un assalto frontale anglo-americano, potesse accoppiarsi una azione dal retro di formazioni ‘ribelli’, delle quali, spesse volte, si ignorava la forza o la si sopravvalutava”9. E sarà proprio questa fobia a sfociare in manovre cosiddette di ‘desertificazione delle retrovie’ e, di conseguenza, in veri e propri massacri di civili inermi. Infatti, prendendo a esempio il 29 giugno, ossia appena un giorno dopo lo sfondamento della Linea Albert, i tedeschi applicano la prima opera di desertificazione sistematica per rintanarsi dietro un’altra importante linea di difesa: la Linea Arezzo. Desertificazione che provoca ben tre eccidi in un giorno solo: Civitella della Chiana (Arezzo) 146 vittime. È uno degli episodi che rappresenta più propriamente il concetto di ‘memoria divisa’ in Toscana. Per anni è stata creduta strage di rappresaglia, visto che in uno scontro fra partigiani ed elementi dell’esercito tedesco del 18 giugno furono uccisi tre tedeschi. Gli abitanti fuggono temendo la vendetta, ma non succede niente, anzi, vengono rassicurati a rientrare. Ben 11 giorni dopo le pattuglie tedesche effettuano la strage in cui persero la vita anche 3 bambini e 29 donne. Le circostanze non sono ancora del tutto chiarite, ma di sicuro si può escludere la rappresaglia, anche perché altrimenti le vittime avrebbero dovuto attestarsi a 30 (10 uccisioni di uomini per ogni tedesco ucciso).10 San Pancrazio (frazione del comune di Bucine, in provincia di Arezzo) 58 vittime. In teoria questo episodio, considerato secondo me erroneamente rappresaglia, fa riferimento sempre all’uccisione dei tre tedeschi a Civitella della Chiana del 18 giugno, cosa alquanto strana, come detto sopra, sia per il tempo passato sia per il numero delle vittime.11 Guardistallo (Pisa) 55 vittime. La notte fra il 28 e 29 giugno un distaccamento di una locale banda partigiana cerca di dirigersi a sud per attraversare il fronte e andare incontro alle truppe Alleate. Nel farlo viene a contatto, alle prime luci dell’alba, con l’esercito tedesco in ritirata dietro la Linea Arezzo. Ne segue un conflitto a fuoco dove due partigiani perdono la vita e altri sono fatti prigionieri. Segue un rastrellamento nelle case vicine, dove civili innocenti vengono passati a colpi di mitra e lanci di bombe a mano. In tutto sono uccisi 9 partigiani e 46 civili. Lo scontro a fuoco pare non fosse premeditato, detto ciò, visto che altre fonti riportano zero vittime tedesche, anche qui è difficile parlare di rappresaglia. Una risposta a un attacco in una fase delicata per la Wehrmacht sì, degenerata in escalation anche per merito del Merkblatt 69/1 che, come si è visto, portava a non fare distinzione fra partigiani e popolazione civile.12 Le linee difensive e i luoghi degli eccidi perpetrati dai nazifascisti (by Brucio) Dalla Linea Arezzo in poi, l’esercito tedesco sfrutta abilmente il territorio del Chianti, costituito interamente da rilievi. È perfetto per la tattica della ‘ritirata aggressiva’: “Il Chianti, con il suo territorio ondulato, e con quel succedersi continuo di piccoli rilievi, significava per gli Alleati un altalenare su e giù per colli, vigneti, oliveti, e campi coltivati. Si capirà subito come questo terreno, trasformato in campo di battaglia, fosse estremamente pericoloso, specialmente per gli attaccanti (…).”13 Le linee difensive si intensificano e diventano piuttosto linee di arresto momentaneo. Ce ne sono molte, tutte dai nomi femminili, che ricoprono il territorio in fittissime tappe fino all’Arno (ovvero la Linea Heinrich, dove il fronte si arrestò per 40 giorni): Emma, Hilde, Irmgard, Nora, Karen, Olga “ed infine la lunga Lydia – Mädchen – Paula”14. E con la stessa logica, nei territori a ridosso o in concomitanza con queste linee, poco prima dell’arretramento delle truppe, l’esercito tedesco ha continuato a desertificare civili gridando al ‘partigiano’, sotto il riparo della ‘cambiale in bianco’ fornita da Kesselring. Per Biscarini, le zone a maggior rischio di stragi sono anche quelle di confine ‘orizzontale’ fra le diverse armate tedesche: “Il podere Palazzaccio di Arceno (teatro dell’eccidio di Castelnuovo Berardenga, Siena, 9 vittime15, nda) si trovava sulla linea di confine tra la 14a e la 10a Armata. Chi si occupa di storia militare sa che i limiti territoriali tra due unità sono settori delicatissimi. La zona era parte di una linea di arresto tedesca detta ‘Hilde’, che sbarrerà il passo agli Alleati fino al 15 luglio.”16 “Lo stesso 4 luglio, a Meleto e Castelnuovo dei Sabbioni17, in provincia di Arezzo, caddero massacrati rispettivamente 73 e 97 civili (…). Ma anche questi due paesi, seppure al momento dei fatti non fossero direttamente coinvolti, o vicini, a linee difensive tedesche, nell’immediato si trovarono prossimi alla posizione tedesca del monte S. Michele, sui monti del Chianti, i quali oltre a sbarrare per giorni l’avanzata dei sudafricani verso Firenze, delimitavano ancora una volta i settori tra le due armate germaniche.”18 Dunque a questo punto possiamo dire che la strategia della Wehrmacht è abbastanza chiara: non la dichiarata quanto folle volontà di massacrare la popolazione per distruggere le bande, ma soprattutto tattica militare che assolveva a un altro compito, ben più importante: ovvero la paralisi delle coscienze tramite lo spargimento di sangue senza senso, per arrivare a recidere a monte il cordone ombelicale fra popolazione civile e Resistenza (risultati maggiori e costi minori rispetto all’affrontare i partigiani). Massacri che comportarono soltanto l’intensificarsi della lotta perché, un uomo che ha perso parte o la totalità della sua famiglia per ritorsione, codardia, efferatezza, o a cui è stata bruciata la casa, non può far altro che continuare a combattere. E così via, in un circolo vizioso in cui i tedeschi si sentivano ancora più autorizzati a colpire a ogni contrattacco ricevuto e, contemporaneamente, vedevano confermata la loro tesi fasulla sulla colpa dei morti degli eccidi sui partigiani. “(…) Le colpe partigiane sono solo un pretesto che non giustifica le centinaia di vittime a fronte di qualche soldato tedesco ucciso e ferito (…). Nel corso dei mesi la ratio della rappresaglia subisce una serie di slittamenti progressivi verso qualcosa di sostanzialmente altro, evidenziando che la logica della terra bruciata non può essere giustificata all’infinito.”19 Un’ulteriore svalutazione della tesi iniziale viene direttamente dal fronte amico. Gli Alleati incoraggiavano le bande a interventi sia armati sia di sabotaggio tramite sovvenzioni, approvvigionamenti di armi e proclami direttamente dalle frequenze di Radio Londra; tanto che nel ’45 i processi ai tedeschi si preferì istituirli in corti militari britanniche perché i crimini contro i civili erano stati commessi per reazione ad attività incoraggiate dagli Alleati stessi.20 Infatti, il capo delle forze Alleate nel Mediterraneo Alexander (così come anche Badoglio21), già da maggio incitava “a uccidere in ogni occasione i tedeschi, incurante delle inevitabili conseguenze che sarebbero ricadute sulla popolazione civile”22. Un’altra pressione per l’intervento armato contro l’invasore sono i contadini. In quel frangente, subito dopo le vittime per la guerra, c’erano quelle per la fame. Quando la Wehrmacht transitava con tutti i suoi innumerevoli effettivi, saccheggiava bestiame, raccolti, cibo e ogni tipo di rifornimento alla popolazione locale, che già non sapeva come sfamarsi. Questa è una testimonianza presa da un’intervista riguardante l’eccidio di Fattoria del 6 luglio del 1944 (frazione di Ponte Buggianese, provincia di Pistoia)23, uno dei casi reali di rappresaglia, dove ci furono 5 vittime (alcune fonti dicono 8) a fronte di 2 uccisioni di soldati tedeschi (alcune fonti dicono 1, altre addirittura zero) per un confronto a fuoco coi partigiani del luogo. Confronto, però, scaturito da un ricatto: “Una ragazza che stava accanto proprio a me (…) e un’altra andavano a portare (ai loro familiari, nda) i panni per cambiarsi in padule, sulla sera. (…) Trovarono due tedeschi e le portarono via (…) al comando alla Casabianca. Poi intervenne (…) uno sfollato ungherese (…) e cercò di liberarle. Vollero 500 uova e 2 prosciutti e le liberarono. E lì (…) quando lei incominciò a gridare che la portavano via, questa ragazza incominciò a gridare e ci fu una sparatoria, con questi tre, quattro, cinque, sei che chiamavano partigiani.”24 Questa testimonianza invece è proprio a ridosso dell’eccidio del Padule di Fucecchio del 23 agosto 1944 (174 vittime civili)25: “Risulta perciò da testimonianze indubbie che i contadini del luogo, i quali avevano fornito viveri ai partigiani, insistettero onde ottenere il loro intervento”26. Così come il sacerdote del paese, Primo Egidio Magrini, che conferma le razzie tedesche e la mobilitazione contadina27. Ciò delinea ancor più chiaramente l’identità dei partigiani in questa prima fase di guerra civile: gente comune che fa una scelta, spinta sia dal rifiuto dell’ideologia nazifascista, sia soprattutto da motivazioni di sostentamento e di protezione dei legami familiari e della propria comunità (la famigerata questione privata). In quella situazione assurda e funesta, non si poteva non scegliere. Quindi, tornando alla tesi iniziale, non ci fu nessuna prova di una minaccia partigiana che giustificasse alcun tipo di strage da parte dell’esercito tedesco (semmai si possano giustificare) prima dello sfondamento della Linea Gotica. Anzi, ci sono molti indizi che portano a constatare che la brutalità degli eccidi, almeno fino a tutta la primavera del ’44, non ha avuto nessun rapporto con il pericolo effettivo rappresentato dai partigiani28. Solo dopo la strage di Monte Sole – Marzabotto (29 settembre-5 ottobre 1944, 770 vittime)29 si ebbe una svolta nel movimento; infatti, dall’autunno del ’44: “il movimento partigiano crebbe a tal punto che ormai si doveva parlare di una vera e propria guerra in cui i partigiani armati acquistarono sempre più, agli occhi della Wehrmacht, lo status di combattenti”30. Da carnefici a ‘povere’ vittime: i fascisti collaborazionisti Non preoccupatevi, il peggio deve ancora arrivare. Sì, perché la crudeltà dei nazisti va di pari passo con i loro complici fascisti. Anche qui breve ricapitolo. Il 10 luglio del 1943 viene effettuato lo sbarco Alleato in Sicilia. Mussolini vede il suo esercito disgregarsi e il consenso cadere a picco. Il 25 luglio il re e alcune massime cariche fasciste attuano un colpo di stato: il duce è imprigionato sul Gran Sasso. Il generale Badoglio, nuovo capo del governo, prima dichiara che l’Italia onorerà gli impegni di guerra presi a fianco della Germania; poi, invece, l’8 settembre firma l’armistizio e passa dalla parte degli Alleati. La popolazione italiana gioisce credendo che sia la fine della guerra, ma la situazione si presenta subito drammatica. Hitler è su tutte le furie: prima fa liberare Mussolini con un commando di paracadutisti (12 settembre) e lo mette a capo della Repubblica Sociale Italiana; poi schiera le sue armate sulla Linea Gustav (dal Lazio all’Abruzzo) per contrastare palmo su palmo l’avanzata Alleata. L’Italia è divisa in due. Il re e Badoglio fuggono da Roma e si rintanano a Brindisi, non dando alcuna indicazione all’esercito italiano impegnato sui vari fronti. I tedeschi cattureranno 600.000 soldati italiani allo sbando deportandoli nei campi di concentramento; molte migliaia invece furono fucilati sul posto. Altri riusciranno a tornare e a unirsi ai primi nuclei della Resistenza.31 Durante la ‘campagna d’Italia’ di Kesselring molti fascisti rimasti fedeli al duce e a Hitler fiancheggiano la Wehrmacht macchiandosi di crimini abominevoli32. Oltre allo spionaggio, i fascisti, conoscendo a menadito i luoghi dove erano nati e cresciuti, guidano i tedeschi in quasi tutti i massacri di civili. Non solo, lo fanno nella maniera più spregevole: si travestono da militari del Reich e si coprono il volto per non essere riconosciuti dai propri compaesani. Con i loro preziosi consigli procurano la morte di migliaia di uomini, donne, vecchi e bambini che parlano lo stesso dialetto e che appartengono alle loro stesse radici, senza nemmeno avere il coraggio di presentare la propria faccia. Sempre prendendo spunto da alcune testimonianze dell’eccidio del Padule: “Italiani camuffati al Pratogrande di sopra. Entrare in una corte, un mucchio di soldati a quella maniera e due bendati… del paese. Gente che si conosceva, sennò ‘un venivan bendati, è chiaro.”33 “«Entrarono in casa e cominciarono a mitragliare». Oreste Silvestri sente dire Scendete giù criminali, addirittura in accento toscano; anche poco dopo, quando è ferito e si finge morto, mentre lo rovesciano con un forcone sente in italiano: Sparategli ancora! (…) L’accento toscano è notato, specialmente a Pratogrande e alle case Simoni e Silvestri.”34 Ah, per ‘criminali’ il camerata intende civili supposti fiancheggiatori di partigiani, anche se varie fonti escludono la presenza di essi nella gronda della palude. Le vittime dell’eccidio sono state quasi esclusivamente donne, vecchi, bambini e sfollati totalmente innocenti e incapaci di difendersi (la vittima più giovane era di pochi mesi, mitragliata in culla, la più vecchia era di oltre novant’anni, cieca, fatta saltare con una granata messa in tasca del suo grembiule). Qui si va oltre l’ideologia di guerra, si va oltre anche la tesi (non perdonabile né tantomeno comprensibile a questi livelli) della vendetta dei tedeschi ‘traditi’ dal proprio alleato. Addirittura il duce in persona (in maniera tardiva visto che nel diario della 14a Armata tedesca viene riportata la sua approvazione ai massacri35) nell’agosto del ’44 protesta timidamente contro le stragi sistematiche sui civili, non venendo minimamente ascoltato36. Il destino della guerra era segnato già a giugno del ‘44 (gli Alleati erano sbarcati in Normandia e la Linea Gotica, ancora lontana dall’essere ultimata, sarebbe stata oltrepassata a settembre). Ma l’obiettivo dei coraggiosi e temerari fascisti, coscienti di non avere più speranze di vittoria, è quello di praticare uno sfregio sulla popolazione civile, una ferita sanguinosa e sfigurante sulla psiche della comunità che tutt’ora non si è rimarginata. Tanti collaborazionisti furono riconosciuti comunque e dopo la fine della guerra fuggirono, con famiglie al seguito, dai paesi che loro stessi avevano contribuito a massacrare. Altri fascisti furono uccisi sia da ex partigiani, sia da gente comune che non aveva dimenticato, in una scia di sangue che continuò in tutta Italia per almeno due anni e per la quale, ancora oggi, la stampa di destra diffonde la retorica dell’ingiusto trattamento che quei ‘valorosi’ uomini si sono visti infliggere dopo il cessate il fuoco.37 I carnefici si trasformano in vittime. Ancora oggi quasi tutti i nomi dei collaborazionisti dell’epoca rimangono ignoti. Ciò ha contribuito alla dislocazione delle colpe dei morti della Resistenza, ma non è l’unico motivo. Il fattore determinante, purtroppo, è il ruolo che ha avuto la giustizia italiana e internazionale nei processi del Dopoguerra. Proviamo a capire cosa è successo. La (in)giustizia del Dopoguerra Il processo a Kesselring fu istituito a Venezia e durò dal 10 febbraio al 6 maggio 1947. Fra tutti i crimini commessi sotto il suo comando (ricordo che fu feldmaresciallo delle truppe tedesche in Italia da settembre ’43 a fine ottobre ’44 e che tutti gli ordini dei massacri ai civili durante questo periodo erano stati emanati direttamente da lui), l’accusa gli contestò soltanto l’eccidio delle Fosse Ardeatine a Roma, e quello di Fucecchio. Le indagini che i gruppi di investigazione Alleati avevano svolto tra il ’44 e il ’46 mostrarono evidenti segni di squilibrio e molti eccidi furono archiviati con la motivazione della mancata certezza dei responsabili.38 La presa di coscienza delle stragi italiane non fu subito lampante, tanto che inizialmente si pensava che i crimini commessi facessero riferimento quasi totalmente contro militari e civili Alleati39. Infatti fra i capi di imputazione non figuravano addirittura gli eccidi di Marzabotto e di Sant’Anna di Stazzema (12 agosto ‘44, 391 vittime)40. Sul banco degli imputati, il feldmaresciallo “negò di aver saputo di atrocità commesse contro le popolazioni civili”41. Ciononostante Kesselring fu sentenziato colpevole e fu condannato a morte tramite fucilazione. A questo punto ci fu un colpo di scena inaspettato. Contro la sua condanna reagirono duramente Churchill e Alexander42, ossia il primo ministro inglese e il comandante delle forze Alleate nel Mediterraneo (quest’ultimo aveva combattuto contro di lui per mesi nella risalita della penisola). Le pressioni furono così forti che la condanna fu commutata in carcere a vita dal giudice militare Hardling43 e, ad ottobre del 1952, gli fu concessa la grazia44. Kesselring è morto da uomo libero nel 1960. Sant’Anna di Stazzema Il perché è da ricercare nelle scelte e nella politica internazionale dell’Italia nel Dopoguerra. Negli anni Cinquanta il nostro Paese si ritrovava di nuovo alleato della Germania (o di quello che ne rimaneva) assieme a Stati Uniti e Inghilterra, in un blocco atlantico teso a contrastare qualsiasi deriva di sinistra; anche se questo voleva dire non condannare un criminale nazista che le forze Alleate avevano combattuto a fianco fino all’ultimo giorno della Seconda Guerra Mondiale. “Alle forze moderate e conservatrici, che gestirono il potere nei decenni immediatamente successivi alla Liberazione, non è difficile attribuire la responsabilità di aver usato in chiave strumentale risentimenti, rancori, sentimenti di dolore autentico in funzione di crociata anticomunista, quindi antipartigiana”45. E ciò era stato tremendamente in linea con l’Amnistia Togliatti, vagliata dal governo italiano il 22 giugno del 1946 con l’obiettivo di acquietare gli strascichi della sanguinosa guerra civile. Un conto però è amnistiare, un altro è insabbiare. Infatti solo negli anni Novanta sono stati messi a disposizione gli archivi inglesi, americani e tedeschi sulle stragi in Italia, consentendo una maggiore e dignitosa ricerca storiografica.46 Nel 1994 a Roma addirittura fu rinvenuto dal procuratore militare Antonino Intelisano presso la Procura generale militare in via degli Acquasparta un armadio con le ante rivolte verso il muro, contenente 695 fascicoli di inchiesta sui reati e i crimini di guerra durante l’occupazione nazifascista e testimonianze dei superstiti raccolte dai servizi segreti britannici; fu denominato ‘Armadio della vergogna’47. Grazie al vaglio di questi documenti top secret la magistratura fu in grado di venire a conoscenza, processare e condannare (anche se tardivamente) molti criminali nazisti ancora a piede libero. Il contenuto dell’armadio è stato interamente desecretato nel 2016 ed è disponibile, tramite ordine, sul sito della Camera dei Deputati. Questo ‘oblio’ volontario è stato il fattore determinante per la nascita della cosiddetta memoria divisa, ossia la scissione fra i fatti avvenuti nel 1944 e la percezione antipartigiana diffusa oggi. Ciò che è arrivato ai familiari delle vittime e a tutte le comunità colpite dai vergognosi intrallazzi politici e insabbiamenti in clima guerra fredda, è stata l’assenza di condanne esemplari ai colpevoli nazifascisti; il che “equivaleva ad una implicita assoluzione”48. Questo ha portato a un corollario pericoloso: se nessuno paga, le migliaia di morti, oltre ad essere state insensate nei metodi, sono diventate anche senza movente. Perciò, se da una parte venivano amnistiati gli assassini, le memorie colpite hanno dovuto rintracciare un colpevole tramite cui comprendere i massacri: i partigiani. Se da una parte i nazifascisti hanno usato criminosamente le stragi come strumento di battaglia e non come rappresaglia non venendo condannati, i partigiani si sono ritrovati rei “non solo e non tanto per avere commesso qualche azione di guerra infelice o errata, ma per il fatto stesso di essere esistiti come patrioti e di avere combattuto”49. Oggi è venuto il tempo di far crollare questo castello di costrutti fasulli e far reintraprendere alla memoria una migrazione verso il proprio punto d’origine dal quale è stata sfrattata: la verità. Non perdiamo questa occasione. 1 U. Jona, Le rappresaglie nazifasciste sulle popolazioni toscane. Diario di diciassette mesi di sofferenze e di eroismi, ANFIM, Firenze 1992, elenco dei morti consultabile a questo link. 2 L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia. 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 333. 3 C. Biscarini, Morte in Padule, 23 agosto 1944: analisi di una strage, Edizioni dell’Erba, Fucecchio 2014, p. 11. 4 C. Biscarini, ivi, p.12. 5 Cfr. F. von Senger und Etterlin, Combattere senza paura e senza speranza, Longanesi, Milano 1968. 6 P. Paoletti, Il passaggio del fronte all’Impruneta, Associazione Intercomunale N.10 Area Fiorentina, Firenze 1985, p. 23. 7 C. Biscarini, Morte in Padule, cit., p. 18. 8 P. Paoletti, Il passaggio del fronte all’Impruneta, cit., p. 19. 9 C. Biscarini, Morte in Padule, cit., p.18. 10 Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, http://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=3211. 11 Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, http://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=3494. 12 Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, http://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=4596. 13 P. Paoletti, Il passaggio del fronte all’Impruneta, cit., p. 24. 14 Cfr. P. Paoletti, ivi, pp. 25-27. 15 Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, http://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=3996. 16 C. Biscarini, Morte in Padule, cit. p.22. 17 Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, http://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=3181. 18 C. Biscarini, Morte in Padule, cit. p.22. 19 I. Tognarini, Kesselring e le stragi nazifasciste. 1944, estate di sangue in Toscana, Carocci, Roma 2002, Regione Toscana, Firenze 2002, pp. LXII-LXIII. 20 M. Battini e P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Marsilio, Venezia 1997, p. 200, che cita Record of a meeting held in Hobart House to discuss Minor War Criminal Trials, 20 agosto 1945, PRO WO 32/14566. 21 Cfr. R. Lamb, War in Italy 1943-45. A brutal story, Penguin Books, Londra 1993, pp. 92-93. 22 V. Ferretti, Kesselring, Mursia, Milano 2009, p. 224. 23 Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, http://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=3676. 24 Intervista a Eugenio Chiappelli e Iliana Giuntoli del 18/06/2003, effettuata su incarico del comune di Ponte Buggianese da Gian Paolo Balli, registrate su videocassette miniDV e depositate presso l’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea di Pistoia, viale P. Petrocchi 159, Inventario n° 110 “Palude Fucecchio – parte 4, dal minuto 59.00 a 1.02.26”. 25 Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, http://www.straginazifasciste.it/?page_id=338&grande_strage=18. 26 Cfr. Relazione dell’attività formazione partigiani Silvano Fedi di Ponte Buggianese, 30 settembre 1944, ISRT, fascicolo Silvano Fedi n. 15. 27 P.E. Magrini, Barbarie e vittime. Memorie di tre giorni di ferocia tedesca a Ponte Buggianese nel 1944, Pescia 1945, ristampato in M. Bonanno (a cura di), Barbarie e vittime. Memorie di padre Primo Egidio Magrini, Editrice CRT, Coscienza, realtà, testimonianza, Pistoia 2004, pp. 5-9. 28 Cfr. Klinkhammer, L’occupazione tedesca, cit., p.338. 29 Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, http://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=5705. 30 I. Tognarini, Kesselring e le stragi nazifasciste, cit., p. XLIII. 31 Cfr. A. M. Banti, L’età contemporanea. Dalla Grande Guerra a oggi, Editori Laterza, Bari 2009, pp. 236-239. 32 Cfr. Klinkhammer in L’occupazione tedesca (op. cit.), pp. 430-433. L’autore fa riferimento a dati ufficiali della repressione congiunta nazista e fascista che si attesta a 120.000 morti soltanto fra i civili in 20 mesi di occupazione, ma le stime sono decisamente al ribasso. 33 Intervista del 12 giugno 1997 a Eugenio Cappelli e Iliana Giuntoli, in M. Folin (a cura di), Popolo se m’ascolti… Per le vittime dell’eccidio del Padule di Fucecchio. 23 agosto 1944, Diabasis, Reggio Emilia 2005. 34 Testimonianza di Oreste Silvestri, Special Investigation Branch (SIB), 15 febbraio 1945, in L. Baiada, Raccontami la storia del Padule. La strage di Fucecchio del 23 agosto 1944: i fatti, la giustizia, le memorie, Ombre Corte, Verona 2016, p. 106. 35 “Il comandante in capo del Gruppo di Armate afferma che il duce acconsente ormai a provvedimenti più duri e che, di conseguenza, la proposta dell’Armata di fucilare, in caso di assalto delle bande, 10 uomini atti alle armi fra la popolazione locale per ogni soldato tedesco ucciso risulta attuabile”. KTB n°4, AOK 14, microfilm T. 312, roll 491, National Archives Washington, in C. Biscarini, Morte in Padule, cit., p.15. 36 Cfr. V. Ferretti, La Resistenza nel pistoiese e nell’area tosco-emiliana (1943-1945), Consiglio regionale della Toscana, Firenze 2018, pp. 44-45. 37 Rispetto per tutti i morti tranne per quelli usati in malafede per coprirne altri. 38 Cfr. I. Tognarini, ivi, pp. XXVII-XXVIII. 39 Ibidem. 40 Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, http://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=4908 . 41 I. Tognarini, ivi, p. XXIX. 42 War Office 32/15490, 11A. 43 Cfr. I. Tognarini, ivi, p. XXX. 44 Cfr. I. Tognarini, ivi, p. LXXIV. 45 I. Tognarini, ivi, p. XLVII. 46 Cfr. I. Tognarini, ivi, p. LXXXVI. 47 F. Giustolisi, L’Armadio della Vergogna, l’Espresso, 9 novembre 2000. 48 I. Tognarini, ivi, p. LXXIV. 49 Ibidem.... Read more...I superflui di Dante Arfelli, un articolo di R. Cannarsa || THREEvial Pursuit14 Aprile 2021I superflui di Dante Arfelli di Rocco Cannarsa Copertina di una delle prime edizioni del romanzo d’esordio di Dante Arfelli, I superflui “Quella sera Lidia non uscì. Seduta accanto alla stufa, ora spenta, gli occhi a terra, pareva che pensasse a qualche cosa. Luca la guardava, le guardava il ventre dove era cresciuto un altro pezzo di carne, una vita, che a un certo momento sarebbe venuto fuori all’aria e sarebbe stato un uomo, come lui, Luca, o una donna o un altro essere in più, inutile, superfluo”. Eccedente i limiti della necessità. Romanzo d’esordio di Dante Arfelli, I superflui nel mondo editoriale è stato ritenuto tale per ventisette anni ( l’ultima a pubblicarlo fu Marsilio nel ‘94, dopo Rizzoli nel ‘49 e Vallecchi nel ‘54). Oggi il romanzo è tornato alla luce con la giovane casa editrice RFB. «Non è un libro per addetti ai lavori», lo dicono in troppi e come dargli torto: «il libro ha venduto bene, è arrivato oltreoceano, pubblicato da “Scribner”, lo stesso editore di Hemingway, vendendo quasi un milione di copie».Perché è scomparso? Perché non lo ha ripubblicato nessuno? Perché il mercato editoriale pare punti sugli “sporchi, maledetti e subito” e sempre meno sulla qualità?Oppure (forse ancor di più) perché dobbiamo sentire la necessità di riesumare cadaveri? È la letteratura contemporanea che è avvilente o lo sguardo con cui ci si approccia?Perché l’uomo si illude che lasciando un’opera al mondo l’abbia scampata all’ineluttabilità della morte?Non ne ho idea. L’unica certezza, come mi ha sempre detto un amico, è che «Il successo è solo il participio passato di succedere». Quindi, fatti i convenevoli, vediamo di cosa parla il libro. Dante Arfelli e Gino Montesanto Il romanzo segue un topic piuttosto classico: un giovane provinciale, Luca, fugge dal proprio paesino di nascita alla volta della città, che in questo caso è Roma. Questa trama resta sempre garanzia di sventure, delusioni, profonde riflessioni sulla precarietà dell’esistenza e, alle volte, di rimpianto.La ripetitività-ricorrenza-tipicità rende il romanzo come genere letterario morto? Siamo fermi all’800? Ha ragione chi parla di Giovani Indiana Jones? Forse. Ma se camminiamo su strade già battute da altri, e la vita è un ciclo senza altro scopo che ripetersi, io non me la prenderei più di tanto se è stato già detto tutto. Poi un giorno arriverà il genio che invece di dipingerci sulla tela, la squarcia. Appunto. Il progresso osservato con occhi cinici e noncuranti. Gli occhi dei poveri. Il quadro dell’Italia del Dopoguerra è dipinto con eccezionale maestria, e il colore non si è ancora asciugato. Le antiche speranze di un tempo migliore soccombono schiacciate da quella piaga immortale che è la miseria, come se il presente fosse la bomba che la guerra aveva lasciato inesplosa. L’attualità delle sensazioni, delle aspettative e dell’aria che viene fuori dalle pagine è terribilmente spaventosa. Non voglio dire certo che le cose non siano cambiate. Prendiamo la scena iniziale: Luca è diretto a Roma, in tasca ha la lettera di raccomandazione del prete del suo paese, don Aldo, da consegnare al suo aggancio, un certo Monsignore. I viaggiatori con cui divide lo scompartimento lodano la donna-oggetto (meglio se italiana), una Svizzera che probabilmente non hanno mai visitato e non vedono l’ora di tornare a Milano per fuggire da questi terroni di merda che sono animali, non persone, tanto che: «Bisognerebbe fare una linea sotto Ancona e segare l’Italia lì». Sceso dal treno incontra Lidia, una prostituta. Ci va? Non ci va? Non importa, quello che importa è che finisce per condividere con lei un appartamento. Grande spazio Arfelli lo dà all’osservazione dell’incapacità di pensarla donna, prima che prostituta. Anche sulla pelle di Luca, l’incertezza e il disagio, la repulsione verso quella parola, ostacolano l’avvento di una conoscenza, di una amicizia. Queste dinamiche sono rese con una analisi talmente spicciola e brusca da risultare brillante, tanto da evocare Stigma, del sociologo Erving Goffman (“ noi normali riteniamo che una persona con uno stigma non sia del tutto umana. Partendo da questa premessa mettiamo in atto una varietà di discriminazioni, grazie alle quali di fatto, , gli riduciamo le possibilità di vita” – Stigma, Goffman). Ma poi le confidenze arrivano, e così la condivisione di un destino che era già intaccato dalla tristezza o soltanto dal tentare di vivere, giorno per giorno, sentendo i tonfi dello sgretolarsi dei propri sogni. Dante Arfelli (Immagine d’archivio) E c’è una vecchia, l’appartamento è il suo, lo affitta da quando il marito ferroviere è morto, e riscuote con avida prepotenza l’affitto ogni ultimo del mese, nonché qualche spicciolo per chiudere un occhio sull’attività svolta in casa da Lidia. E insiste sul volere il prete, ché ormai è anziana: corna e bicorna che non succede, ma se succede vuole il prete perché, nonostante tutto, è cattolica. I giorni Luca li passa bussando alle porte per un impiego, perché sebbene il Monsignore ora sia Eccellenza, purtroppo non può fare nulla, ma se avesse potuto… e questa tiritera si ripete con politici, avvocati, e chi più ne ha più ne metta. Il punto è che Luca è un giovane buono e il lavoro, che in città ce n’è per tutti, manca a questa categoria, che si rivela poco audace, poco furba, come gli verrà rimproverato più volte dal suo futuro “amico” Alberto. Non manca neanche la politica, perché Luca, quando guarda chi ha di fronte, cerca di collocarlo di là o di qua, anche se nota che il birraio, l’artigiano e il tessitore contano solo sotto campagna elettorale. Il problema di fondo resta sempre lo stesso: «Io dico che se gli uomini fossero tutti buoni non ci sarebbe più da lamentarsi». «Ma non lo saranno mai». «E allora tutto il resto non conta niente. Però, anche se non lo potranno diventare, dovrebbero cercare di provarci». Ed è per questo che «È inutile dire: “Buttiamo tutto per aria e rifacciamo”. Si rifà come prima, perché siamo sempre noi».(Dialogo di Luca e Lidia, I superflui) «Io mi son chiesto spesso che cosa sono al mondo a fare. Quando ero più ragazzo ci pensavo delle ore intere, fino a farmi male alla testa. Diventando grande ci penso sempre di meno perché ci sono tante altre cose». «E ancora non lo sai che cosa sei venuto a fare?» «No. C’è chi dice che ognuno di noi ha da fare una parte: come uno in un paese fa il fornaio, un altro il falegname, e ci vogliono tutti i mestieri, così dicono che ci vogliono anche i poveri e gli stupidi».(Dialogo di Luca e Lidia, I superflui) L’abbattimento dei toni, che sembra una resa alla vita, e la pacatezza della narrazione rendono lo stile crudo. E l’umiltà con cui Arfelli scandaglia la tragedia dell’esistenza rende il flusso narrativo nobilmente audace o, più tristemente, consapevole. Ciò rende I Superflui tutt’altro che una lettura noiosa. Le profonde riflessioni confluiscono in quella che si illude di essere catarsi, ma non è che felicità nella tristezza. È proprio sapere che se le cose si mettono male è facile mettere a tutto la parola fine che porta i personaggi a vivere il proprio presente con spensieratezza. Dante Arfelli nel suo studio Leggere Arfelli mi ha insegnato che sì, siamo tutti superflui, ma ci siamo, ed è solo esistendo che si può fare la differenza in un mondo che non ha bisogno di noi. Sul web si leggevano strazianti appelli per non dimenticare questo scrittore (a marzo c’è stato il centenario dalla nascita). Sono anni che molti intellettuali spingono per ripubblicarlo. Il problema però non è solo lui, sono tanti gli autori che stanno scomparendo dai cataloghi editoriali, dagli scaffali delle librerie, dalle biblioteche. Ma se questa è una tendenza deve essere indagata davvero, perché la colpa non può essere soltanto degli editori, contro i quali è troppo facile accanirsi. Come scrive Gian Carlo Ferretti nel suo saggio Siamo spiacenti, in un autore per quanto il valore estetico sia una qualità importante, “ una durata più o meno lunga può non esserne condizionata del tutto. Fondamentale resta che un libro continui a essere letto”. “I Superflui” è sparito per ventisette anni. Ok, ma ora è ricomparso. Lo rileggeremo? O questa pubblicazione sarà la riprova di una condanna?... Read more...1 + 1 fa sempre uno || Intervista ad ACHE77 || THREEvial Pursuit31 Marzo 20211 + 1 fa sempre uno Intervista ad ACHE77 di Niccolò D’Innocenti e Simone Piccinni ACHE77 at work Cari Threevialisti,questa settimana vi (ri)proponiamo l’intervista ad ACHE77, uscita in cartaceo lo scorso Dicembre sul numero #18 di StreetBook Magazine. Ecco qui la versione completa. Buona lettura! Sono un po’ emozionato. È venerdì, sono sul treno, sto tornando da lavoro e devo andare a fare un’intervista. Ma non è come le altre volte: vado ad intervistare un’artista a cui voglio bene come ad un fratello, oltre ad essere una persona che stimo infinitamente. E, ad essere sinceri, dovessi dare una voce alla mia coscienza probabilmente assomiglierebbe alla sua. Quindi sì, sono un po’ teso. Ci troviamo nella sua nuova galleria che, insieme all’associazione ARTiglieria, ha tirato su durante quest’ultimo anno. Non potrei chiedere di meglio: l’odore di vernice, l’atmosfera da work in progress e la birra di fronte a noi mi fanno rilassare. Poi basta uno sguardo ad ACHE77 per capire che non mi devo preoccupare: se non trovassi le parole per andare avanti sicuramente le troverebbe lui. Io devo solo stare attento che non mi si spenga il registratore (cosa che succederà, ovviamente). Three Faces: Cominciamo dall’inizio: cosa ha portato ACHE77 a Firenze dalla Romania? ACHE77: È una domanda corta che necessita di una risposta forse molto lunga. Firenze l’avevo visitata nel passato. Se sei appassionato d’arte questa città ha un certo richiamo e magnetismo: ha una lunga tradizione e una storia che gira intorno all’arte. Volevo fare l’artista da grande, quindi appena ne ho avuto la possibilità, una volta arrivato agli studi magistrali in scultura, ho deciso di richiedere una borsa Erasmus per venire qua. Di provare la fortuna insomma. Mi sembrava la sfida suprema: riuscire a formarmi a Firenze facendo arte. Poi, avendo un bel giro di turisti – venti milioni circa di visitatori l’anno – mi sembrava un ottimo hotspot da cui diffondere un messaggio a tutto il mondo. Almeno, quando si poteva viaggiare… Poi, quando sono arrivato qua, avevo il pensiero fisso di trovare una realtà, un’associazione o una galleria, in cui fare il tirocinio. Sono arrivato a Firenze nel novembre 2015. Ho conosciuto la Progeas Family con il progetto Inseminazione Artistica, la mostra disobbediente organizzata da Matteo Bidini. Attraverso di lui ho conosciuto Zeus Oczb e con lui è partita l’esperienza Street Levels Gallery, la cui prima mostra per la galleria è stata Unity Wanted. Questo, quello di unità, è un concetto a cui sono molto vicino da sempre: l’idea di unità, è da lì che deriva la forza. In giro ci sono molti nuclei sparsi che, se s’incontrano, hanno un altro peso. Questo era il nome della mostra, vogliamo unità, cerchiamo un’unità. A quei tempi la situazione nel mondo della street art fiorentina era diversa, era il periodo in cui gli Angeli del Bello coprivano tutti, nel 2016. Ci sono stati arresti e indagini, alcuni dei nostri colleghi sono “caduti” in quel periodo. Sentivamo il dovere di “uscire da sotto il cappuccio”, di spiegare cosa stavamo vivendo, cosa stavamo facendo. Non cosa è, ma cosa potrebbe essere: l’arte urbana come mezzo di espressione. Ci siamo (im)posti l’obiettivo di diventare un punto di diffusione dell’informazione, di divulgare, di fare cultura. Abbiamo curato una biblioteca incentrata sulla street art, con un sacco di libri di riferimento. Abbiamo fatto attività in giro, ci siamo dati tanto da fare per il movimento. Con questo sono arrivato un po’ alla fine della domanda, sono arrivato con uno zaino di sogni e una valigia di bombolette, e un altro zaino di libri. Firenze – ACHE77 TF: A proposito di questa tuo “binario” Firenze-Romania, ti volevamo chiedere del progetto “Hubrica”, che è un progetto molto interessante. Ecco, come è nato, cosa ti ha lasciato, cosa ha significato portare l’esperienza maturata a Firenze nella tua terra d’origine? ACHE77: È stato un piacere ed un onore, un ottimo modo di arricchimento di conoscenze di contatti, rapporti umani, esperienze. Provare piano piano a trasformare i sogni in realtà. Il progetto Hubrica era partito a maggio 2016 quando ero qua a Firenze, un progetto che non si sarebbe potuto svolgere senza il mio mentore ai tempi, Alexandru Paicu, un community builder visionario. In Romania esistono tantissimi siti industriali, quasi abbandonati, e sono come delle ferite aperte nelle città che ricordano i tempi del Comunismo e che adesso sono in rovina. Vicino a Iași, una grande città universitaria, c’era un complesso industriale di capannoni dismessi, che si sviluppava in 14 km². Abbiamo preso un piano di un palazzo intero, un palazzo di progettistica. E abbiamo cominciato a ricercare quell’unità di cui parlavamo prima. Ai suoi tempi d’oro erano presenti quaranta studi diversi, fra architetti, scultori, pittori, organizzatori di eventi, gioiellieri, orafi… se eri un creativo, eri là, e se non eri là volevi esserlo. Mi sembrava un’opportunità grandissima per poter far uno scambio d’esperienza, per creare dei ponti culturali tra gente che più o meno fa le stesse ricerche ma vive in posti diversi. Mi affascina la ricerca. Tanti chilometri quadrati di capannoni significano anche tanti muri che erano quasi di nessuno, avevano un proprietario ma erano abbandonati. Abbiamo bonificato la zona e poi abbiamo organizzato il primo festival serio di street art in quella regione. Prima si dipingeva a eventi sparsi ma mai su muro, si dipingeva su pannelli o altri supporti. Cazzo finalmente abbiamo dei muri! Abbiamo creato il primo festival di street art, l’abbiamo approcciato in maniera differente. Non abbiamo chiamato solo i nomi grossi ma abbiamo chiamato tutti, veramente tutti. Chi voleva venire bastava che ce lo comunicasse e avrebbe trovato tutto il necessario per dipingere lì. In questo modo abbiamo dato possibilità di partecipare anche agli studenti d’arte delle varie scuole, che hanno potuto confrontarsi con artisti da tutta la Romania e non solo. Alla fine, ho portato, diciamo, circa sedici tra artisti e realtà creative come No Dump, per esempio. Hanno dipinto anche loro là con l’intento di iniziare uno scambio culturale, cosa che è successa. È stato bellissimo veder dipingere artisti affermati accanto a quelli che si approcciavano per la prima volta a un muro e che avevano la possibilità di poter imparare guardando gli altri. Se prima volevi fare l’artista di strada, andavi per conto tuo, provavi da solo, senza supporto di nessuno. Invece, in questo modo abbiamo provato ad accorciare i tempi, dando la possibilità di creare un contesto di divulgazione di conoscenze, ed è stato bellissimo, perché grazie a quel festival sono nati tanti artisti che hanno fatto il loro primo pezzo proprio lì! Artisti che hanno continuato e alcuni di loro sono anche diventati bravi. Il festival si chiamava The Gathering, il raduno. Abbiamo fatto due edizioni e poi niente, nel 2019 l’hub creativo ha chiuso come spazio fisico ma è rimasto come concetto e modo di essere. Peraltro, avevamo preso lo spazio a un euro al metro quadro e quando ce ne siamo andati ne valeva undici. Comunque, lì ho capito cosa volesse dire “processo di gentrificazione”. Avendolo fatto in pieno, senza rendercene conto, ha insegnato a noi sognatori ad essere più pragmatici agli approcci di vita. E poi mi piaceva moltissimo che potessi portare là quello che facevo qua e viceversa. Per me è molto importante capire e sapere, il resto deriva da questo. Se hai capito, puoi svolgere in piena consapevolezza quello che stai facendo, anche se spesso capisci mentre stai facendo. Ritratti dell’infanzia negata – ACHE77 TF: Parlando invece di un altro progetto, come è nata l’idea che dalla scenografia del Copula Mundi ha portato poi alla copertina che hai realizzato per noi, quella alla base del progetto Ritratti dell’infanzia negata? ACHE77: È stata una follia, è stato magico quello che è successo. La proposta mi era arrivata da un bel po’: provare a pensare ad un allestimento di una mega struttura, quella dove si è svolto l’ultimo Copula Mundi. Quel marzo ero a Follonica, dove ho dipinto il mio primo muro di grandi dimensioni, durante l’Urban Art City. Ho fatto quel lavoro sulla facciata del museo Magma, e durante la ricerca per creare il bozzetto ho visitato sia il museo che i suoi archivi. Lì ho trovato una mostra di fotografie di alcuni anni fa che aveva un qualcosa (schiocca le dita). Sono andato a ricercare il fotografo, il caro Pino Bertelli, che è di Piombino, una città vicina a Follonica e sono andato a cercare su internet informazioni su di lui. Il museo mi ha dato il suo numero, l’ho contattato e ho scoperto che quelle fotografie esposte al museo facevano parte di un progetto più ampio. Pino mi ha anche invitato a casa sua. Quindi l’ho incontrato e mi ha fatto vedere tutto il suo archivio fotografico: è stato amore, amore al primo scatto. Ci trovavamo sulla stessa linea, le nostre ricerche erano complementari, usavamo soltanto medium diversi per realizzarle ed esporle. Ho avuto vari incontri con lui, è un fotografo straordinario e un uomo di un certo spessore. Mi ha fatto vedere le fotografie di un album che stava per pubblicare. L’album si chiama Contro la guerra, ritratti dell’infanzia negata. In pratica ha visitato tutti i teatri di guerra a livello mondiale, scattando soprattutto foto di bimbi, ritrattistica di bambini, mettendo l’accento sul loro sguardo. Ma tornando alla genesi del progetto per la scenografia: il Copula Mundi si sarebbe svolto nel Parco delle Cascine e in una riunione plenaria eravamo arrivati alla conclusione che quello era un po’ “il posto degli ultimi”, pusher, prostitute, ecc. ecc… Inizialmente volevo concentrarmi su quell’aspetto lì, quindi ho provato ad entrare in contatto con queste persone. È stato facile parlare con gli spacciatori, ma con le prostitute non è stato possibile… Ho provato, ma difficilmente escono dal loro film, dal loro ruolo… Quindi ho abbandonato quel progetto, per il momento, e mi sono concentrato sugli stimoli di Pino Bertelli. Poi, ti dirò la verità, sono entrato in quel capannone (lo spazio in cui abbiamo realizzato le scenografie, un capannone di Lastra a Signa. NdR) con due soli ritratti pronti. Ma avevo con me il libro di Pino. La scenografia nella sua interezza è nata lì, in quel capannone. Ed è stato incredibile. Penso che non potrò mai ringraziare abbastanza tutti voi che siete stati lì. Dovevamo fare questa scenografia in una settimana e il modo più efficiente per riuscirci era tramite un processo di arte partecipativa. Avevo bisogno di una mano per riuscire a rendere il risultato finale di un certo impatto… e sono stato più che felicemente sorpreso quando ho proposto questo progetto e la mia idea, la mia follia, e ho trovato altri pazzi che mi hanno affiancato. Il resto è storia. È stato bellissimo: così tante persone disposte a sacrificare il loro tempo e a dare una mano per fare qualcosa più grande di loro. Tutto questo nonostante le condizioni che vivevamo in quei giorni, con il cantiere attivo alle Cascine e la gente che veniva, dopo tutto una giornata di lavoro a installare tubi e montare strutture, per dare due spennellate, per stare in compagnia e dare forza a quelli che erano lì… è stato incredibile. Per me è stato come un rito di iniziazione: mi ha cambiato in tanti aspetti che non posso esprimere a parole. Il fatto che adesso siamo in questo spazio (ARTiglieria) è grazie a quell’esperienza che mi ha fatto rendere conto dell’importanza di avere uno spazio, delle persone e lo stare insieme. Riuscire a parlare davanti a tutti in quel capannone, poi, per proporre la mia idea, coordinare, riuscire a spiegarmi e farmi capire in una lingua che non è la mia, un anno fa, è stato incredibile. Non avevo mai svelato prima di allora il mio processo creativo. I rapporti con tante persone si sono consolidati durante quel festival, permettendomi di conoscerle nella loro vulnerabilità e umanità, nei loro scazzi, nei loro sbagli e difetti. Scopri te stesso attraverso gli altri. Quest’anno è stato stranissimo, nessun cantiere, nessun festival… Dal concorso #LaFirenzeCheCrea – StreetBook Magazine 2 – ACHE77 TF: Infatti… come lo hai vissuto quest’anno? ACHE77: L’ho vissuto un po’ strano… è volato. Potrei parlare a lungo di questo argomento: partendo dal lockdown, ovviamente mi dispiace per chi è stato male fisicamente o per la mancanza di certe risorse, ma personalmente avevo bisogno di una pandemia per riposarmi per bene, per dormire senza sentirmi in colpa nel togliere tempo a qualcosa a cui dovrei dedicarne. Mi dispiace, certo. Sono stati però mesi fondamentali per ritrovare il concetto di tempo e dargli anche un’altra misura di valore, non per forza basata su quanti task hai compiuto in un giorno. Onestamente, per quanto sia stato strano navigare nell’ignoto, aspettando di giorno in giorno l’uscita di informazioni, a parte lo shock iniziale, quando ho preso consapevolezza per bene della situazione che si prospettava ho preso tutto il materiale possibile e ho spostato lo studio a casa. Mi sono detto che se potevamo essere sicuri di una cosa che non sarebbe mancata, quella era il tempo. Che poi è la cosa che normalmente manca di più nella nostra epoca. Questa furia perpetua nel compiere più cose possibile, mettere più bandierine possibile, vincere più possibile… è stata rallentata. Il presente è il come lo vivi. Spero che questa situazione sia diventata un campanello d’allarme per la coscienza di tutti: un piccolo reminder che certi paradigmi non funzionano, che forse stiamo idealizzando troppo tutto e ci rifiutiamo di accettare la realtà oggettiva solo perché non corrisponde a quella proiezione idealistica che ci siamo fatti nel tempo. “Aspetta un attimo, adesso abbiamo un sacco di tempo: cosa volevo fare da tanto?”. Dall’altra parte è venuto meno il lato sociale e collaborativo: pensare che quest’anno non ci siano stati festival ed eventi ti fa anche pensare a quante connessioni non sono nate. Ma spero che oltre a quello che abbiamo perso ci sia anche qualcosa che abbiamo guadagnato a livello umano: spero davvero che la gente abbia un po’ rivalutato la propria esistenza, le proprie priorità e valori. Guardando un po’ fuori, al momento, sembrerebbe che non è successo un cazzo, ma mi piace sperarlo. Anzi durante il lockdown, quando mi sentivo rinchiuso, come tanti altri, ho provato a decorare la mia gabbia per farla un po’ più confortevole e accettabile… e da lì ho pensato che magari siamo tutti dei bruchi che adesso hanno la possibilità di avviare una metamorfosi e uscire come farfalle da questa esperienza. Altrimenti, se rimaniamo bruchi, rimarremo schiacciati da quello che verrà. Voglio sperare che sia stata un’occasione per una possibile metamorfosi. Cazzo, è palese che il mondo non può andare avanti così, Era solo questione di tempo perché il vecchio paradigma crollasse. Poi vabè… è strano quello che sta succedendo a livello più serio (l’intervista è di novembre, ma sembra si possa più che sottoscrivere anche ora questa affermazione, ndr). Quest’estate siamo tornati a fare quello che facevamo prima pur sapendo che novembre stava per arrivare, Winter is coming. Ho seguito un po’ la situazione della Romania, dove il politico medio è stato molto più concentrato su fare campagna elettorale e sulle elezioni rispetto alla sanità. È uscito anche lo slogan la “pandemia non ammazza la democrazia”: ma dove cazzo è la democrazia quando mi chiudi in casa? Non siamo sempre in democrazia anche li? Mi sembra che il sistema politico, in genrale, sia solo un meccanismo che non si concentra sugli obiettivi sui quali dovrebbe teoricamente concentrarsi, come sulla rappresentanza e la protezione del suo popolo, ma su come frodare, rubare denaro pubblico, su come non fare il proprio lavoro. Se pensi agli ospedali, a tutti i piani mai aggiornati nel corso degli anni, su tutti quelli che non hanno fatto quello che avrebbero dovuto, non eravamo in questa situazione. Non importa chi ha sbagliato se la situazione è uniformemente disastrosa. TF: La pandemia ha anche portato allo spazio in cui siamo adesso (ARTiglieria). Ne vuoi parlare? ACHE77: Dopo l’esperienza del Copula Mundi mi è rimasta l’idea fissa di spostare lo studio in uno spazio più ampio. Così mi sono messo a cercare locali e a ricercare di nuovo un’unità (1+1 fa sempre uno). Ho sparso la voce con tutti quelli che conoscevo su quanto sarebbe stato fico avere un luogo di lavoro un po’ più grande e a gennaio siamo riusciti a firmare il contratto. Abbiamo organizzato i nostri studi artistici e, se non fosse stato per il covid, questo spazio sarebbe già stato pronto e funzionale, con uno studio fotografico e una galleria di arte contemporanea. Per gestirlo abbiamo fondato un’associazione che si chiama ARTiglieria. Abbiamo anche pensato a uno spazio per gli associati con un piccolo bar, ma vedremo più avanti. Dal concorso #LaFirenzeCheCrea – StreetBook Magazine 2 – ACHE77 Comunque, il punto è che a Firenze sono pochissimi gli artisti emergenti, perché non vengono considerati come artisti e come giovani e qui o hai un peso o nessuno ti caga, ma per crearti quel peso hai bisogno delle palestre. Questa sarà una di quelle palestre. L’intento con cui nasce questa associazione quindi, la Galleria ARTiglieria, è quello di essere un canale per la promozione dell’arte contemporanea. Alla Street Levels avevamo un sacco di proposte da artisti validi, ma che non erano in sintonia con la nostra scelta stilistica incentrata soprattutto sulla street art. Pur essendo molto validi non potevamo ospitarli lì, e non avevano alternative in zona. Qui invece accogliamo qualsiasi tipo di arte, dalle performance alla fotografia, alla letteratura, pittura, scultura e qualsiasi medium di espressione. Oltre ad essere una galleria sarà uno spazio di laboratori, workshop e conferenze. Ovviamente se il nuovo paradigma sociale post pandemia ce lo permetterà. In questo momento penso che la caratteristica più importante sia l’adattabilità: se non puoi cantare danza, se non puoi danzare fischia. Basta non compiacersi nel non fare nulla, una soluzione la troverai. Consapevolezza. Qui siamo in cinque artisti e due promotori culturali. Siamo Exit-Enter, Nian, Gaia Altucci, Martina Rotels, una pittrice straordinaria, Niccolò Vanucchi, uno scultore molto bravo, Caterina Milli, una futura antropologa della Madonna e Sofia Bonacchi che fa parte anche dell’associazione “A testa alta” e del collettivo Street Levels Gallery, ed è lei che tiene le fila un po’ di tutto. TF: Cambiando argomento: come mai la scelta dei tuoi soggetti spesso gira intorno ai volti? ACHE77: Se ci pensi un po’ in tutte le storie, miti e leggende, le opere del mondo spesso ruotano intorno all’essere umano. I volti li uso perché voglio parlare agli altri, voglio comunicare, nonostante un po’ di sociopatia. Non è solo il volto a essere speciale, ma anche la microespressione, quello che il volto trasmette. Mi sono buttato in una comunicazione non verbale, senza parole, senza porre limiti: rapportati alla mia opera, a quello che stai vedendo, senza questi limiti, questa parola e questa chiave di lettura. Uno sguardo può comunicare quello che non posso descrivere a parole. All’inizio l’ho fatto istintivamente, senza una strategia o una scelta a priori. L’arte per me è catartica, una disciplina, una forma di meditazione in movimento. È partito tutto come uno studio fenomenologico: “vediamo cosa succede se…”, “vediamo cosa potrebbero pensare se…”. E sono arrivate varie risposte alle mie opere. È strano: ogni persona si raffronta in maniera diversa ai miei lavori. Per me è molto importante riflettere, rimettere in discussione, rivalutare periodicamente non dico tutto, ma quasi. Stiamo vivendo la cosidetta società liquida, che cambia costantemente la sua forma, il suo contenuto e il suo significato, anche se le radici dovrebbero rimanere le stesse. Poi io sogno tanto e spesso mi sveglio con delle figure o con delle espressioni in mente, o cerco di comunicare con me stesso attraverso quello che sto facendo, riscoprendomi. Guarda quel secchio lì in alto (indica il tappo di un secchio di vernice con un volto disegnato), quella è un’espressione di godimento ma anche di sofferenza, l’ho fatta durante il lockdown: una sweet agony, una dolce sofferenza… perché me la godevo per quanto ne soffrissi. Alcuni sono più bravi a trasmettere quella espressività in un tratto di pennello anche in una forma astratta, per me la figura umana è soprattutto quello che non viene detto però viene comunque comunicato. Tendo a vedere più di quanto viene comunicato, e vorrei comunicare quello che vedo ma non posso o non riesco a dire. Quello che però posso dire a voi di Three Faces è che vi ringrazio di esistere e di portare avanti la vostra attività nonostante i tempi che stiamo vivendo. Tenete duro. Uno dei “volti” più celebri di ACHE77 Grazie a te ACHE77, teniamo duro!... Read more...Il Gioco dell’Oca (a grandezza naturale) || THREEvial Pursuit17 Marzo 2021Il Gioco dell’Oca (a grandezza naturale) di Three Faces Oggi, cari lettori, vi proponiamo un THREEvial diverso dal solito: un classico articolo di taglio prettamente giornalistico. Sì, lo sappiamo che non siete abituati, ma del resto dopo tanti THREEvial sperimentali, per noi diventa sperimentale anche scrivere un pezzo del genere. La realtà però è che lo facciamo anche per raccontarvi, nella maniera più oggettiva e distaccata possibile, di un progetto che secondo noi meritava rilievo. E so cosa state per chiederci, ma la risposta è no, non ci stanno pagando per questo, anche perché tecnicamente saremmo noi a dover dare dei soldi a loro e il motivo lo capirete a breve. Ad ogni modo, tornando alla ragion d’essere di questo THREEvial, vi diremo che semplicemente, essendo un nucleo molto ben assortita di artistoidi con declinazioni generalmente tendenti alla sana follia, l’idea di un Gioco dell’Oca a grandezza naturale realizzata con scarti di argilla, non poteva che farci impazzire e quindi dovevamo farci un articolo. Avete letto bene. A Montelupo Fiorentino, nota città della ceramica, sorgerà il primo Gioco dell’Oca a grandezza naturale realizzato con argilla di recupero. Ogni casella racconterà la storia di Montelupo, i suoi luoghi, le sue curiosità, i suoi aneddoti, i suoi personaggi, le sue peculiarità. L’opera di rigenerazione urbana a marchio MoMi (/mòn.do mi.gliò.re/), che si basa su un innovativo metodo di riutilizzo della ceramica, punta infatti a divenire un marchio certificato, simbolo di sostenibilità ambientale e artigianale. Infatti, secondo alcune ricerche e test effettuati da Mina Bartolini dell’ITS di Faenza presso lo Studio Ceramico Giusti-Pelli e in collaborazione con il Prof. Claudio Lubello del Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale dell’Università di Firenze, una possibile combinazione di argilla e smalto arriverebbe a creare un materiale secondo con ottime prestazioni di resistenza, specialmente agli agenti atmosferici. Questo nuovo materiale può essere utilizzato per oggetti di arredo urbano, rivestimenti o pavimentazioni e si presta a essere realizzato in semplici moduli standardizzati. I risultati delle ricerche e le procedure dell’innovativo metodo di riduzione dei rifiuti prodotti dai laboratori di ceramica saranno trascritte nel Quotidiano Ceramico Sostenibile. La pubblicazione, realizzata dai ceramisti di Arte della Ceramica con la supervisione dell’Università di Firenze, spiegherà nel dettaglio come riutilizzare le materie prime avanzate nel laboratorio (argille e smalti vari). Per questo verranno coinvolti artigiani ceramisti, scuole, aziende, associazioni e tutti coloro che con l’argilla e la ceramica ci lavorano quotidianamente, affinché rigenerare i materiali possa diventare una pratica di impatto sociale replicabile oltre che di impatto ambientale. Dietro al progetto, ci sono Le Cocciute. Un nome particolarmente indicativo quell del team formato da: Camilla Meciani, architetto; Carlotta Antichi, designer; Isotta Caria, operatore sociale; infine Lia Montagni, tecnico restauratore. Sono state loro a pensare al progetto di riqualificazione urbana, affiancando poi l’Associazione La Fierucola nell’ideazione e nell’elaborazione grafica e concettuale del progetto. Per portare a termine il progetto, come anticipato burlescamente poco sopra, è stata organizzata una campagna di crowdfunding intitolata C’è sempre tempo per giocare e ideata dall’Associazione La Fierucola, dedita alla promozione del consumo consapevole e sostenibile. Il crowdfounding sarà ancora attivo ancora per 19 giorni (e quindi se non abbiamo fatto male i calcoli fino a domenica 4 Aprile) sulla piattaforma Eppela e vi lasciamo pure il link se volete dare un’occhiata (www.eppela.com/momi). La campagna nasce con lo scopo di sensibilizzare sul tema della rigenerazione: sia ambientale, con un’opera realizzata interamente con scarti di argilla; sia sociale, poiché grazie al progetto si assisterà alla riqualificazione di un luogo di incontro per i più piccoli. Il progetto è realizzato all’interno dell’iniziativa Social Innovation Jam 2 di FondazioneCR Firenze all’interno di Siamosolidali, in collaborazione con Impact Hub Firenze e Feel Crowd. L’iniziativa è patrocinata dal Comune di Montelupo Fiorentino, con la partnership di Arte della Ceramica. A supporto del progetto anche Sammontana, Pro Loco di Montelupo, Auser Montelupo, Foto Lupo e Sezione Soci Coop di Empoli. A dimostrazione che quando si vuole, un modo per fare le cose si trova. In conclusione. Per realizzare il progetto servono 6.000 €, mentre in un secondo momento la Fondazione CR Firenze raddoppierà il budget, il quale servirà per finanziare: la realizzazione del Gioco dell’Oca di Montelupo con gli avanzi recuperati dell’argilla e la stampa del Quotidiano Ceramico Sostenibile da diffondere a professionisti, hobbisti della ceramica, scuole e aziende. Non solo. Il finanziamento servirà anche per la registrazione e il lancio del marchio MoMi. Verranno inoltre organizzati corsi di formazione per gli addetti ai lavori, grazie ai quali gli artigiani potranno utilizzare il marchio per certificare le proprie opere. Fra le ricompense messe a disposizione sulla piattaforma Eppela, per chi sosterrà il progetto, anche pezzi unici in ceramica realizzati dai Maestri artigiani, il Quotidiano Ceramico Sostenibile, visite guidate nella città della ceramica di Montelupo ed esperienze e laboratori di ceramica. In bocca al lupo! (Non a voi lettori, al progetto. Voi lettori pensate a fare un salto su eppela.com/momi… Ecco ci avete fatto sbilanciare. Doveva essere un articolo classico, di quelli belli imparziali e invece niente, c’avete fatto scivolare sul finale. Però oh, quanno ce vo, ce vo).... Read more...Intervista a Guerrilla Spam, di G. Silvestrelli || THREEvial Pursuit3 Marzo 2021Intervista a Guerrilla Spam 10 anni di Guerrilla urbana di Giorgio Silvestrelli Compiti per Casa – Venezia, 2017 (Photo by Guerrilla Spam) Guerrilla Spam è un misterioso ed enigmatico collettivo artistico che ha da poco festeggiato i suoi primi dieci anni di attività. Tra murales, performance, poster e molto altro abbiamo deciso di incontrarli per farci raccontare il loro primo decennio nel mondo dell’arte. Volto coperto e su il cappuccio. Si comincia. Giorgio Silvestrelli: Guerrilla Spam che piacere avervi qui. Grazie per aver accettato questa intervista. So bene quanto siete impegnati! Volete presentarvi? Diteci chi siete e cosa fate. Guerrilla Spam: Ciao Giorgio. Grazie a te. Iniziamo male però (ridono, ndr)!Abbiamo risposto molte volte a questa domanda e non ci piace ripeterci. Semplicemente basta andare su internet, scrivere il nostro nome e vedere quello che facciamo… Usiamo questa intervista per approfondire altro… Dunque, prossima domanda. GS: Scusate ragazzi. Errore mio. Vediamo se riesco a “recuperare” con le prossime domande (tutti ridono, ndr). Come nasce Guerrilla Spam? Qual è stato l’evento scatenante? Guerrilla Spam: Come spesso raccontiamo, non abbiamo mai progettato Guerrilla Spam a tavolino. Era il 2010 e casualmente, in modo molto naturale e spontaneo, alcuni amici che frequentavano il primo anno dell’Accademia di Belle Arti di Firenze hanno fotocopiato dei nostri disegni e, con qualche tentativo improvvisato, li hanno attaccati in giro per la città. I disegni non erano firmati. Il nome Guerrilla Spam, insieme alla consapevolezza di quel che stavamo facendo, è nato successivamente. GS: Siete tra i pochi ad avere un manifesto artistico. Ce ne volete parlare? Guerrilla Spam: Il nostro manifesto è stato scritto di getto nei primi mesi del 2011 per chiarire, innanzitutto a noi stessi, cosa fosse Guerrilla Spam, o perlomeno quali fossero i nostri motivi d’esistenza. Non crediamo nelle cose che restano fisse; al contrario ci piace mutare, adattarci, trasformarci in base ai vari contesti e ai tempi. Paradossalmente però, quei punti del manifesto scritti ormai quasi dieci anni fa, sono rimasti dei nodi saldi: l’anonimato, l’essere autonomi e liberi, agire nello spazio pubblico in modo non invasivo (anche se incisivo) e, soprattutto, avere lo scopo di comunicare con gli altri. Ecco, negli anni abbiamo cambiato tecniche, stili, contenuti, ma questo estremo trasformismo ha avuto sempre una sua coerenza. GS: Da quanti membri è composto attualmente il vostro collettivo? Ci sono dei membri (fondatori e non) che sono andati via dal gruppo e altri membri che si sono uniti nel corso del tempo? Guerrilla Spam: È sempre difficile rispondere alla domanda “quanti siete?” proprio perché Guerrilla Spam non è un classico collettivo artistico, ma più che altro un gruppo organico che nel tempo si allarga e si restringe. Esiste un nocciolo di due o tre persone che si confrontano costantemente su ogni scelta, e poi tante altre che negli anni hanno dato il loro contributo con modi e con intensità differenti. Potremmo chiamarla Spam family, ed è composta da chiunque abbia vissuto con noi, abbia dato idee o spunti, consigli di letture, aiuto negli attacchinaggi, nei blitz non autorizzati, nei laboratori. Insomma, genera la curiosità di tutti sapere quanti siamo e chi siamo esattamente, ma potremmo dire che non è un’informazione essenziale alla comprensione di Guerrilla Spam. Figure a pezzi (Personaggi meticci tra arte etrusca e africana) – Pratovecchio-Stia, 2018 (Foto by Alessandra Cinquemani) GS: Avete appena varcato il traguardo dei vostri primi dieci (ma spero che ce ne saranno molti altri) anni di attività. Volete/potete fare un bilancio? Guerrilla Spam: Ci sentiamo all’inizio di un percorso. Finalmente, dopo dieci anni, abbiamo raggiunto un livello di libertà artistica che ci permette di fare tutto quello che vogliamo senza l’ansia di non essere coerenti. E soprattutto, abbiamo un poco imparato a disegnare (ridono, ndr). Quindi, tutto deve ancora accadere. GS: A vostro parere com’è cambiata la street art dal 2010 ad oggi? Guerrilla Spam: È diventata più nota senza però essere meglio conosciuta. Tutti pronunciano il termine “street art” buttandoci dentro quello che hanno visto: dallo stencil realizzato da una bambina al murale di Che Guevara, fino ai lavori di quegli artisti famosi alla Banksy e alla Obey, quando va bene, o alla Jorit e alla Maupal, quando va male. Insomma, un gran minestrone.Questo fenomeno eterogeneo, amato dal ragazzino come dall’assessore, ovviamente per motivi molto differenti, inizialmente era conosciuto in modo approfondito da una ristretta cerchia di addetti ai lavori, un po’ nerd, se vogliamo. Oggi è conosciuto da tutti in modo superficiale. GS: La street art, a mio modo di vedere, non ha una definizione precisa. Ogni singolo individuo e ogni singolo artista ha la sua personale idea. Cosa è quindi per voi la street art? Spam: Non ci siamo mai interrogati su questo. Diciamo che è un termine che non usiamo spesso. Lasciamo la patata bollente agli esegeti del caso che sicuramente, prima o poi, ci diranno cosa la street art è e cosa non è. Il fallimento dell’occidente – Sarajevo, 2019 (Photo by Guerrilla Spam) GS: Ci sono degli artisti a cui vi ispirate? E artisti che hanno influenzato il vostro modo di fare arte? Guerrilla Spam: Questa domanda potrebbe aprire un vaso di Pandora; sono tantissimi i riferimenti artistici, e non, che da sempre abbiamo e che con il tempo si sono stratificati uno sull’altro creando una Babele di spunti e conoscenze dalla quale attingiamo.Facciamo dei nomi: Bosch, Brueghel e tutti i pittori fiamminghi, così densi di metafore e allegorie, il simbolismo delle immagini medievali, le pitture e incisioni rupestri, le maschere e la statuaria africana. Anche Goya, Pontormo, Beccafumi, Otto Dix, Grosz, i muralisti messicani, Picasso, Dubuffet e, ovviamente, Pasolini sono una costante fonte di ispirazione. Molti nomi sono stati tralasciati ma questa sintetica lista mostra già un’eterogeneità di fonti che per noi è essenziale. Oltre a tutti questi “celebri defunti” guardiamo anche a qualche “vivo”, soprattutto giovani artisti con i quali cerchiamo di confrontarci, parlare, lavorare insieme, per imparare cose che il passato non ci può dare e di cui, comunque, sentiamo di aver bisogno. GS: Visto che siete un collettivo, immagino che prendiate delle decisioni di comune accordo. Ci volete raccontare come si svolgono le vostre riunioni? Guerrilla Spam: I disegni spesso sono realizzati da un’unica mano, i muri da due, i laboratori o gli attacchinaggi da molte mani.La chiave della longevità ed eterogeneità di stile di Guerrilla Spam risiede in un rapporto di amicizia e stima tra varie persone che negli anni hanno coltivato interessi e percorsi differenti ma che sono rimasti comunque molto legati. Ogni lavoro, anche il più marginale, nasce sempre da un confronto tra minimo due persone; questa creazione prende così strade e forme differenti da quelle che avrebbe avuto se fosse nata solo dalla mente di un singolo soggetto. Per fare questo è necessario retrocedere sulle proprie convinzioni e fidarsi sempre degli altri. GS: Voi siete degli artisti senza volto e le vostre vere identità restano un mistero. Quali sono gli aspetti positivi e negativi del non voler rivelare il vostro vero nome e cognome? Guerrilla Spam: L’anonimato serve a dare visibilità a ciò che facciamo e non a chi siamo. Ci interessa che abbiano la priorità i disegni e i messaggi rispetto ai dati anagrafici o all’aspetto fisico. Ovviamente non è un anonimato intransigente e purista: nelle scuole andiamo a parlare a volto scoperto, non incappucciati; allo stesso modo partecipiamo a conferenze, lezioni, progetti con associazioni e festival. Ma se qualcuno cerca sul web Guerrilla Spam non trova i nostri volti. In questo senso, quindi, tale anonimato parziale soddisfa il suo scopo. GS: Raccontateci attraverso dieci delle vostre opere su strada i vostri primi dieci anni di attività. Non necessariamente una per ogni anno della vostra storia. Guerrilla Spam: Ci stai facendo studiare per questa intervista (ridono, ndr)!Allora, dieci forse sono un po’ troppe, ci limitiamo a raccontare solo una a cui teniamo molto e che sta ai margini rispetto ai grandi dipinti o alle grandi mostre nei musei. Si chiama The Game ed è, in sostanza, un viaggio a tappe autoprodotto e organizzato senza committenza intrapreso dalla Grecia alla Serbia, ripercorrendo la vecchia rotta balcanica dei migranti. Questo percorso, fino alla costruzione del muro tra Serbia e Ungheria voluto da Orban nel 2016, è stato compiuto da circa 650.000 migranti che hanno subito maltrattamenti, abusi e respingimenti, oltre alle quotidiane fatiche del viaggio; molti di loro non sono mai arrivati in Europa. Gli stessi viaggiatori hanno rinominato la strada “The Game” perché, in sostanza, “vince il gioco” chi sopravvive e arriva a destinazione. Prima di partire abbiamo raccolto delle vere testimonianze di migranti sulle quali sono stati realizzati i disegni da attaccare come poster, in modo non autorizzato, in Grecia, Bulgaria, Macedonia e Serbia. Questo viaggio che abbiamo intrapreso voleva ribadire che, ancora oggi, il diritto alla mobilità non è universale ma un privilegio di pochi. The game (la rotta balcanica dei migranti) – Sofia, Bulgaria, 2019 (Photo by Guerrilla Spam) GS: Guerrilla Spam non è solo poster e murales, ma anche installazioni, performance e videoclip. Nel corso degli anni vi siete confrontati con diversi modi di comunicare le vostre idee. Come mai questa scelta? Cosa vi ha spinto a diversificare e sperimentare così tanto? Guerrilla Spam: Se ripensiamo ai primi anni fiorentini (2010-2013, ndr), oltre ai numerosi attacchinaggi di poster facevamo blitz e azioni nello spazio pubblico. Dal nascondere dei disegni dentro i libri delle biblioteche al mettere dei finti santini di Pasolini nelle chiese. Oppure lanciare acetati con scheletri di sardine dentro a una fontana o attaccare cartelli ‘Vendesi’ sui monumenti. Ecco queste sono tutte azioni molto particolari e differenti tra loro, unite da una matrice non autorizzata del gesto, che poco avevano a che fare con i poster e i dipinti che oggi chiamiamo street art. Quindi, quella di diversificare i mezzi, gli strumenti e le azioni a seconda del contesto è un cosa che facciamo da sempre e che ci viene spontanea. Forse abbiamo addosso questa etichetta della “street art” in modo un po’ casuale ma questo pensiamo possa valere anche per tanti altri colleghi e amici perché, a pensarci bene, abbiamo sempre fatto altro. GS: Tra tutte queste forme espressive, quali preferite e perché? Guerrilla Spam: Fare un poster vale come scrivere un libro, fare un laboratorio, una performance, un’installazione o un dipinto. Ogni tecnica e ogni metodo ha i suoi punti di forza che vanno sfruttati in base al contesto e al pubblico con il quale si interagisce.Facciamo un esempio culinario: la polenta è molto buona ma forse è più adatta se mangiata a dicembre invece che ad agosto. Conoscere più ingredienti possibili aiuta a preparare il piatto più adatto a seconda delle occasioni. GS: Parliamo dei laboratori che di tanto in tanto organizzate. Quanto è importante questa parte didattica per voi? Guerrilla Spam: Andare nelle scuole e parlare con i ragazzi è certamente la cosa più soddisfacente nel nostro lavoro. Molto più che dipingere un muro o attaccare un poster. È un modo per avere un confronto reale con altre persone, per capire la lontananza che può esserci tra noi, cercando magari di colmarla. Nelle scuole cerchiamo di portare la nostra esperienza e di far conoscere altri mondi; come diciamo spesso, anche gente tremenda come Salvini ha fatto la scuola media, quindi andare nelle scuole significa trovare chiunque, chi la pensa come te e chi no, ed è qui che pensiamo si possa fare la differenza. Le presentazioni, gli incontri o le conferenze con i tuoi fan servono a molto meno, perché sai già che tutti ti faranno i complimenti e gli applausi. GS: Si può dunque “insegnare” la street art? Guerrilla Spam: No, come non si può insegnare lo skate e come non si possono insegnare tante altre cose. Si possono raccontare storie ed esperienze dalle quali ognuno poi potrà trarre i propri insegnamenti. Nelle nostre lezioni raccontiamo ai ragazzi storie di antichi viaggiatori, d’incontri e contaminazioni del passato, finalizzate a riflettere sul presente. Se ti accorgi che metà degli oggetti che usi, dei cibi che mangi, delle parole che conosci, appartengono ad altre culture, magari comprendi che non ha senso gridare “prima gli italiani”.Ma questa consapevolezza ognuno la trova da sé, non la si può insegnare. Organismo – Pratovecchio-Stia, Stand Up for Africam 2017, a cura di Serena Becagli e Rita Duina (Photo by Alessandra Cinquemani) GS: Tra le ultime vostre fatiche, anche un bel libro autoprodotto dal titolo Il Bestiario. Ce ne volete parlare? Avete altre pubblicazioni all’attivo oltre al Bestiario. A quale pubblico vi rivolgete? Guerrilla Spam: L’ultimo libro che abbiamo prodotto è un bestiario che riflette sul rapporto uomo-animale e su quanto, alle volte, certe bestie abbiano caratteristiche umane e certi uomini bestiali. Insomma, un gioco di specchi che serve, in fondo, a riflettere su certi nostri comportamenti.Di norma non pensiamo a quale pubblico rivolgerci ma al senso della pubblicazione: i libri nascono per raccontare qualcosa in modo più approfondito e documentato, che sia questo un dipinto come una mostra o un progetto. Il libro ti permette di descrivere meglio il tutto, svelare i retroscena, le fonti iconografiche, gli spunti e mostrare dei dettagli. In generale crediamo nell’approfondimento e le nostre pubblicazioni tentano di fare proprio questo. GS: Quanto è importante ancora oggi, nel 2021, realizzare un libro non digitale? Guerrilla Spam: Molto. È la vecchia storia della perdita del sapere che il digitale, alle volte, può comportare. Vecchia storia ma pur sempre valida. Esempio: in questi dieci anni di attività abbiamo più volte perduto documenti e immagini del nostro lavoro con la cancellazione di diversi hard disk, ma conserviamo ancora tutti i disegni, gli appunti e bozzetti cartacei prodotti dal 2010 ad oggi, in vari raccoglitori.Ora, è vero che un’inondazione o un bombardamento potrebbero distruggere questo archivio proprio come è accaduto allo studio berlinese di Otto Dix, con tutti i suoi dipinti dentro, ma sono queste pur sempre delle opzioni remote rispetto a un hard disk che si frigge. Quindi la carta, che sia quella dove è stato fatto un disegno o quella di un libro, è un mezzo di salvataggio e trasmissione del sapere che ha ancora il suo valore. GS: Che rapporto avete con i vostri fan e supporter? Fateci un identikit, se possibile, del fan tipo di Guerilla Spam. Guerrilla Spam: Un rapporto di reciproco rispetto. Cerchiamo da sempre di rispondere a chiunque ci scriva, dal ragazzino del liceo al direttore del museo; anzi, con il ragazzino usiamo una premura e un impegno nel rispondere che, spesso, è maggiore. Questo perché anche noi abbiamo, a suo tempo, scritto ad artisti che stimavamo, con quel tipico timore reverenziale, senza aver ricevuto risposte. Quindi, consapevoli che quanto ci è successo non sia stato bello, ci sforziamo di fare il contrario. In fondo rispondere a qualche mail, o messaggio social o intervista per qualche tesi o dottorato (anche se negli anni sono un bel po’ aumentate…) non è un grande sforzo.Per quanto riguarda l’identikit del fan è difficile da tratteggiare; ce ne sono di ogni tipo, da quello riservato e timido che ti segue da sempre e che sa tutto ma che si palesa magari solo dopo anni, a quello che settimanalmente ti scrive ponendo domande molto specifiche in modalità stalker (ridono, ndr).In generale, tutti quanti loro sanno sempre più cose di Guerrilla Spam di quante noi stessi ne ricordiamo. Il dromedario di Sulmona – Sulmona, 2020 (Photo by Luca Del Monaco) GS: Abbandoniamo momentaneamente il mondo fisico e parliamo del digitale. Che rapporto avete con i social network? Guerrilla Spam: Cerchiamo di usare i social per veicolare i nostri lavori, e magari approfondirli, senza vederci nessuna contraddizione con la fruizione di chi osserva quei lavori in strada. Come la zappa di Caino, che può essere usata per arare un campo o per uccidere un uomo, allo stesso modo i social, e internet in generale, possono essere utili quanto distruttivi. GS: Pensate che internet abbia modificato la percezione della street art? E se sì, in che modo? Guerrilla Spam: Tutti tengono in mano ogni giorno queste “tavolette” ricevendo centinaia di input visivi che, in modo superficiale e istantaneo, formano e condizionano il gusto, lo stile e i desideri estetici o concettuali di una persona. Tale condizione vale anche in campo artistico sia per i creatori che per i fruitori, con una tendenza scontata che va verso l’omologazione. Questo fatto non può essere annullato; non ha senso estraniarsi, decidere di non usare il web, i social e non guardare come va il mondo. Alle volte occorre vedere proprio i programmi trash o ascoltare i trapper mainstream che i quindicenni seguono. In questa società “eliminare” non ha efficacia, quindi, l’unica soluzione rimane “aggiungere” altro rispetto agli input omologanti che ogni giorni riceviamo.Per tornare alla sfera artistica, se tutti i giovani artisti in Italia oggi sono condizionati da quello che scrollano su Instagram chi è che alla fine riesce ad avere una ricerca più personale e autonoma? Quelli che, oltre a scrollare Instagram, sfogliano libri, vanno alle mostre, parlano con gli amici e così via. Se questa società ci impone una formazione omologante non possiamo far altro che sovrastarla con una nuova formazione autonoma, diversificata, sbandata. GS: La street art ormai è un fenomeno sdoganato a livello planetario. Non solo grazie ai social network, ma sempre più spesso i media generalisti si interessano al fenomeno. Dunque la street art fa notizia. Secondo voi perché? Guerrilla Spam: Per tanti motivi, soprattutto perché può essere veicolata in modo superficiale, istantaneo, con pochi sforzi e massimi risultati. Dipingere un murale costa meno che far imbiancare la facciata da un’impresa ma il risultato d’immagine è inverso. Giornalisti e tv locali accorrono a documentare l’avvenimento, gli assessori gridano al miracolo riqualificante del quartiere, promettono una vita migliore, tutti sono contenti, più belli e più buoni. Un dipinto murale può fare tutto questo.Ovviamente il risultato è momentaneo; dopo due anni quella facciata crolla a pezzi e i giornalisti non tornano più nel quartiere, gli abitanti sono abbandonati a loro stessi con i disagi di sempre. Quindi la street art fa notizia e va di moda semplicemente perché è un fenomeno per i pigri e per i furbi, che entrambi abbondano nei nostri tempi. GS: Secondo voi cosa spinge le persone ad appassionarsi alla street art? Guerrilla Spam: La facilità di entrarci in contatto. La street art funziona perché è facile e semplice, c’è poco da capire. Basta fotografarla, postarla sui social per qualche settimana e già si è degli esperti del settore. Il grande pubblico non conosce i nomi dell’arte concettuale o della performance art, fatta eccezione dell’Abramovich ma solo perché ha fatto un film. Al contrario sa bene chi sia Bansky e simili, perché c’è poco sforzo da fare. Le immagini sono chiare, fruibili e con messaggi che ci fanno stare bene come ad esempio: “Abbasso la guerra – Viva la pace”, facendoci credere di essere ribelli. GS: Dove sta andando Guerrilla Spam? Cosa dobbiamo aspettarci per il futuro? Guerrilla Spam: Dovete aspettarvi che Guerrilla Spam cambierà. Cambierà com’è già cambiato in questi dieci anni; mutare non significa rinnegare o tradire, ma adattarsi e ampliarsi. Sappiamo di andare in questa direzione ma, ovviamente, non abbiamo idea di quali forme assumeremo.Poco tempo fa un signore ci ha detto: «Ah, Guerrilla Spam non è più quello di una volta!» Esatto, è proprio vero! Grazie infinite Guerrilla Spam per la vostra disponibilità e pazienza. Alla prossima e speriamo di vederci in strada da qualche parte. Frutti di mare comune – Civitanovamarche, 2017 (Phot by Guerrilla Spam) Figure a pezzi (Personaggi meticci tra arte etrusca e africana), Pratovecchio-Stia, 2018 (Photo by Alessandra Cinquemani)Organismo – Pratovecchio-Stia, Stand Up for Africam 2017, a cura di Serena Becagli e Rita Duina (Photo by Alessandra Cinquemani)The game – Balkan migrant route, Atene, 2019 (Photo by Guerrilla Spam)... Read more...La seconda tiratura di Waltzing Matilda, romanzo d’esordio di G. Bindi || THREEvial Pursuit24 Febbraio 2021Waltzing Matilda È così facile che sembra difficile di Gianluca Bindi L’immagine di copertina di Waltzing Matilda nella sua interezza. Opera di Bue2530 Ci siamo… Dopo il successo della prima tiratura di Waltzing Matilda – È così facile che sembra difficile, romanzo d’esordio di Gianluca Bindi – e di Three Faces -, che ha visto volatilizzare le sue 110 copie numerate in meno di tre settimane dal lancio, eccoci ad annunciare l’arrivo delle copie della seconda tiratura!Le nuove copie sono disponibili sul nostro e-commerce riservato ai soci – le password sono in arrivo entro domani, giovedì 25/02: se sei socio e non vedi la mail controlla nelle cartelle ‘Spam’ o ‘Promozioni’ -, ma anche se non sei tesserato puoi averne una: ti basterà mandarci una mail a threefacespublish@gmail.com per ricevere le varie informazioni per l’acquisto. Le novità Come nella prima tiratura ad accompagnare le avventure di Gianluca ci saranno le super illustrazioni di Bue2530. Ma non finisce qui. Per aiutarti a seguire l’itinerario del nostro amico abbiamo deciso di inserire una mappa della Tasmania con i vari luoghi citati nel libro. E ovviamente mica potevamo fare una cosa a tirar via: la mappa è disegnata a mano dal nostro altrettanto super Brucio!Oltre a questo abbiamo creato anche una playlist Spotify con tutte le canzoni che troverai come colonna sonora dei vari capitoli del romanzo – ti avevamo detto che la musica è un elemento centrale quasi quanto i luoghi e le esperienze narrate da Gianluca? No? Bene, ora lo sai! -. Waltzing Matilda e le scarpe con cui Gianluca ha attraversato la Tasmania Il romanzo: la sinossi Ventitré anni, l’università che non va, la bussola che tentenna e la voglia di vivere di più, conoscere il mondo, se stesso e gli altri. L’incontro con la meraviglia di un primo amore, giovane e fresco.Ecco le premesse di questo romanzo di viaggio che segue le orme dell’autore Gianluca Bindi nelle sue avventure in Tasmania.Un contemporaneo waltzing matilda – il tipico lavoratore nomade australiano munito solo di zaino e materassino – che a poco a poco si spoglia delle aspettative, dei progetti che ci richiede oggi la società e così si libera di timori, pregiudizi e schemi scoprendo che la sincera ospitalità verso un estraneo non è poi così difficile se si ha fiducia nell’altro.Fra camminate in montagna, bevute, concerti, nuove amicizie e percorsi mistici, la cifra che tiene tutto insieme sono la musica e gli occhi di Gianluca, uno sguardo profondo e interrogante ma che riesce a prendere la vita anche con leggerezza, con un tono quasi canzonatorio. “Un inno alla libertà intesa non tanto come perpetuo vagabondaggio da un posto all’altro, ma piuttosto come vita priva di qualsiasi tipo di attaccamento o proprietà. Una vita fatta per godere di piccoli e semplici piaceri, dal sentire addosso la brezza che muove gli eucalipti all’udire il canto degli uccelli al risveglio. Una vita in cui l’unica preoccupazione è il pasto successivo, e non la costruzione di una carriera.” Dunque… Bene, ora che hai tutte le informazioni non ti resta che acquistare la tua copia del romanzo d’esordio di Gianluca Bindi. Così facendo, oltre a regalarti un’esperienza di lettura notevole, ci aiuterai ad affrontare questo nuovo anno pieno di difficoltà e insidie! Visita lo shop!... Read more...Dystopian Blues, un articolo di C. Francioni || THREEvial Pursuit10 Febbraio 2021Dystopian Blues di Chiara Francioni Dystopian Blues – 1984 di Michael Radford – 1984 Vorrei poter dire che questo folle e sconcertante periodo che ci troviamo a vivere mi ha insegnato molto, ma ho delle grandi riserve. Tuttavia una verità è stata messa ben in evidenza, giacché i social hanno rivelato un massiccio ricorso dei propri utenti al modello orwelliano (ovviamente parlo di 1984) come minaccia incombente senza però centrare il punto. In altre parole, per dirla come se magna: ho visto una gran quantità di citazioni fatte, come suggeriva il vate René Ferretti, alla cazzo di cane. E allora mi sono chiesta: cosa non è chiaro? Nel mio vano tentativo di trovare risposta, ho finito per immergermi in un profondo oceano di congetture su quello che il genere distopico ha cercato di dirci negli anni, su quali fossero i moniti che gli autori sentivano di dover lanciare. E così, abbandonando la domanda originaria, ho finito con il farmi un po’ di seghe mentali (si può scrivere?) sui significati reconditi, e non solo, dei grandi film distopici, meritevoli di aver cercato di smascherare il contesto sociale di riferimento, mettendone in mostra le debolezze e i timori. E, siccome il regresso all’infinito è sconsigliabile, ho deciso di far cominciare la mia indagine dagli anni Ottanta, scegliendo una pellicola per decennio e giungendo così agli anni dieci del nuovo millennio. Perché? Ma è semplice, sono gli anni in cui la sottoscritta, ormai decisamente vintage, ha camminato su questa terra. Anni ’80: Brazil (1985) Dystopian Blues – Brazil di Terry Gilliam – 1985 So benissimo che quando si accosta il termine distopia agli 80’s il titolo che balza in mente è Blade Runner, ecco perché vi parlerò di Brazil, indimenticabile opera dell’ex Monty Python, Terry Gilliam. “Da qualche parte nel Ventunesimo secolo“, troviamo Sam Lowry (un ottimo Jonathan Pryce), grigio impiegato del Dipartimento di Informazione di una non meglio precisata nazione governata dalla burocrazia. Sam, che incarna alla perfezione l’archetipo dell’inetto, sopravvive rifiutando ogni responsabilità e conservando gelosamente il proprio status quo, in un mondo dove l’ossessione per i processi formali ha plasmato ogni aspetto della vita civile. Tuttavia ogni notte un sogno ricorrente si intromette nella sua piatta routine, mostrandogli una versione cavalleresca di sé stesso intenta a salvare una giovane donna. Sarà proprio la scoperta dell’amore, tormentato e impossibile, e l’incontro con un idraulico oppositore del sistema (Robert De Niro) a trasformare Sam in un perfetto Winston Smith, con il quale tuttavia dovrà condividere il triste destino, finendo per essere reso innocuo dal sistema che egli stesso avrebbe voluto sovvertire. Terry Gilliam, nel suo omaggio – non troppo celato – a 1984 di George Orwell, indaga i timori di una società, quella occidentale di fine Ventesimo secolo, costretta a fare i conti con la crescente perdita di libertà dell’uomo medio, sempre più incastrato in una ripetitiva routine dettata dai ritmi serrati imposti dalla costante ricerca della massimizzazione dei profitti e del benessere. Neanche la forza dei sentimenti, ci ammonisce Gillian, è in grado di sovvertire l’ordine sociale, condannando il singolo all’eterna scelta tra l’essere una parte indistinta dell’ingranaggio o soccombere, tentando invano di liberarsi. Il linguaggio scelto dal regista è senz’altro funzionale all’obiettivo, giacché si spazia dal grottesco – utile a estremizzare i tratti del contesto sociale – all’assurdo di chiara matrice pythonesca e il drammatico, mai evidente durante lo svolgimento, ma che si manifesta, inesorabile, nell’amaro retrogusto che resta in bocca al termine della visione. Un tragicomico che spiazza. Anni ’90: Matrix (1999) Dystopian Blues – Matrix di Lana & Lilly Wachowski – 1999 Sì, lo so cosa state pensando. Prima ho fatto la figa scegliendo un film meno scontato e ora vi propino l’apoteosi della prevedibilità. Eppure proprio Matrix, sebbene sopraggiunga in zona Cesarini, è il film distopico simbolo del decennio, in quanto incarna le incertezze destate dalle conseguenze, sempre più evidenti, dell’assoluta automatizzazione e informatizzazione. La rivoluzione telematica, infatti, è ormai iniziata quando le sorelle Wachowski, ci regalano una favola sci-fi imbottita di metafore (anche bibliche) che ruota intorno al confronto tra l’essere umano, fatto di carne e irrimediabilmente imperfetto, e l’intelligenza artificiale, sterile e apparentemente infallibile. La storia dovrebbe essere nota ai più: abbiamo Thomas T. Anderson (un Keanu Reevs nel fiore dei suoi anni), alias Neo, che vive la sua doppia vita inconsapevole di essere intrappolato in una realtà simulata (la matrice) creata per lui e per i suoi simili dalle macchine. Quest’ultime, avendo sconfitto i propri creatori in una sanguinosa guerra, adesso dominano il mondo e sfruttano gli umani, intrappolati in un sogno senza fine, come risorsa energetica. Neo viene liberato e arruolato nella resistenza da Trinity (Carrie-Anne Moss) e Morpheus (Laurence Fishburne), i quali credono fermamente che lui sia The One (Neo is The One… surprise!), ossia colui che, secondo una profezia nota tra i ribelli, libererà il genere umano dalla inconsapevole schiavitù. Senza analizzare gli stilemi proposti dai registi (tutti apprezzatissimi, come le famose pillole blu e rossa, il cucchiaio non esiste, l’introduzione del bullet time che ha cambiato per sempre l’approccio agli effetti speciali, la figaggine di Keanu, no scusate sto diventando ridondante), vorrei passare subito alla ciccia: la metafora. A tale proposito citerò un aneddoto. Il mio professore di filosofia delle superiori utilizzò Matrix come esempio per farci capire Schopenhauer. In altre parole, diceva il docente, Neo sarebbe colui che, liberatosi dal Velo di Maya, riesce a superare la realtà fenomenica e a ricongiungersi con il noumeno. In verità le Wachowski e Arthur Schopenauer non dicono proprio la stessa cosa, lo so. Tuttavia ho sempre pensato che, stiracchiando un po’ il pensiero dell’illustre esistenzialista, si potesse davvero scovare un trait d’union e che, quindi, la trovata del Prof. non fosse solo un espediente geniale per attirare la nostra attenzione. Infatti, le menti dietro Matrix ci mostrano quello che la realtà potrebbe diventare se lasciata in balia dei soli desideri umani, governarti dalla bramosia, tipica dell’uomo moderno, di ottenere tutto ciò che percepisce, spesso erroneamente, come a portata di mano, inclusa – ed ecco la metafora – la creazione di macchine senzienti che dovrebbero servirlo come il più ricco dei signori. Soltanto che il cammino intrapreso condurrà l’inconsapevole essere umano a scambiare la propria libertà con un mondo/finzione in cui tutti gli obiettivi sembrano raggiunti, nonostante il totale annientamento dell’individuo. E allora è giusto porsi delle domande, fermarci finché siamo in tempo, abbandonare l’ingordigia ossessionante, concentrandoci su quella che è la nostra vera natura, così da far prevalere il noumeno sul fenomeno (e magari in una chiave più ottimistica di quella proposta da Shopenauer). Riportare l’uomo e le sue libertà al centro di tutto. Insomma, vi sto proponendo di leggere Matrix come il manifesto di un moderno umanesimo reduce della presa di coscienza del più analitico degli esistenzialismi. A voi che pare? Per me funziona. Ah, i sequel? No, non esistono. Punto. Anni 2000: Children of Men (2006) Dystopian Blues – Children of Men di Alfonso Cuarón – 2006 Alfonso Cuarón santo subito! Già perché questo – almeno per quanto mi riguarda – è il miglior film di fantascienza del decennio e ora vi spiegherò perché. Siamo nel 2027, in un futuro sconvolto dalla piaga dell’infertilità femminile: non nascono più bambini da almeno diciotto anni. Intanto il Regno Unito, la nostra location, è diventato un vero e proprio stato di polizia a causa delle difficoltà incontrate dall’establishment nel gestire il problema dell’immigrazione, che viene quindi affrontato ricorrendo alla totale negazione dei diritti dei migranti, imprigionati e ghettizzati senza ritegno (sono toccanti le scene delle gabbie di contenimento, soprattutto se ripensate oggi, all’indomani della vicenda messicana voluta da Donald Trump). Il protagonista è Theo Faron (Clive Owen), ex attivista disilluso e ormai rassegnato alla brutalità del sistema che si trova, a causa di una complessa sequenza di fatti, a dover proteggere una giovane immigrata. La ragazza deve riuscire a imbarcarsi sulla Tomorrow, nave-miraggio del Project Human, organizzazione che si batte per i diritti dei rinnegati, al fine di salvarsi dalle persecuzioni del sistema e dal campo profughi, dove viceversa dovrebbe rimanere internata. La giovane donna è incinta e ciò la rende, allo stesso tempo, un inaspettato miracolo e un boccone appetitoso per le forze impegnate nei truci giochi di potere che fanno da sfondo al viaggio di Theo. Viaggio che non sarà solo geografico ma anche interiore, portando il protagonista ad approdare nuovamente sulle sponde della speranza per il futuro del genere umano. Non c’è bisogno di aggiungere che le tematiche affrontate sono incredibilmente attuali, al punto che non è possibile non fare parallelismi tra la pellicola (tratta dall’omonimo romanzo di P.D. James) e l’emergenza umanitaria che sta affliggendo il nostro presente: criminalizzazione dell’immigrazione, negazione delle cause dell’emorragia di profughi, denigrazione delle organizzazioni che, riempiendo i gravi vuoti istituzionali, cercano di arginare la crisi in atto. Senza contare la minaccia della sostituzione etnica, sventolata da certe correnti politiche, che nel film è rafforzata dalla brusca interruzione della crescita demografica. Theo, nel suo percorso evolutivo, rappresenta due facce ben distinte dell’opinione pubblica: dapprima incarna coloro che, voltandosi dall’altra parte, fingono che il problema non esista, trincerandosi sovente dietro un preteso cinismo fecondo di fatalistiche considerazioni del tipo “non può che essere così”. Successivamente, abbraccia l’istanza attivista secondo cui limitarsi a tollerare equivale a concorrere con i persecutori, accettando l’assunto che l’intervento attivo è l’unica scelta responsabile. Questa seconda visione del personaggio, certamente positiva, è quella che Cuarón promuove con un narrato drammatico, intenso e introspettivo, volto a mettere in luce non solo le debolezze delle istituzioni, ma anche dei movimenti che le contrastano, spingendo lo spettatore a confrontarsi con la propria coscienza. Con ciò non sto ovviamente suggerendo che ognuno di noi dovrebbe unirsi ad una ONG per rendersi davvero utile, sto semplicemente dicendo che dovremmo guardarci dentro e chiederci, con estrema franchezza, se c’è qualcosa che possiamo fare, in concreto, per migliorare una realtà che non intendiamo più accettare. Riflessione facilmente mutabile anche in altri contesti, come quello che mi accingo ad affrontare. Anni 2010: Snow Piercer (2013) Dystopian Blues – Snowpiercer di Bong Joon-Ho – 2013 Siamo giunti al termine di questo excursus e chiaramente l’approdo non può che essere quello ecologico, giacché la più grande paura (eccezion fatta per i negazionisti, i quali meriterebbero un discorso a parte) con cui dobbiamo – o dovremmo – fare i conti oggi è il disastro ambientale che, salvo brusche virate di rotta del sistema economico-politico, sembra sempre più inevitabile. In altre parole, siamo giunti al mostro finale, letale e con potenzialità distruttive illimitate. Il film in questione è la prima opera hollywoodiana del coreano Bong-Joon Ho (regista di Parasite e Memories of a Murderer), che ispirandosi alla graphic novel Le Transperceneige, affronta in modo peculiare la tematica ambientalista. Nel 2031 l’umanità subisce le conseguenze del suo più grande fallimento: per cercare di contrastare il global warming, ormai inarrestabile, è stato infatti tentato un disperato esperimento volto a raffreddare l’atmosfera, il cui esito disastroso ha però condotto la terra in una nuova era glaciale. Gli unici sopravvissuti sono i passeggeri dello Snowpiercer, un treno appositamente congegnato per restare eternamente in movimento e sfrecciare tra i ghiacci che ormai avvolgono il mondo. All’interno del convoglio gli schemi sociali sono ridotti all’osso: i più poveri vivono nelle ultime carrozze e vengono avidamente sfruttati, mentre i più ricchi occupano la vetta del veicolo, godendo di qualsiasi comfort ci si possa aspettare. In altre parole, i poveri subiscono le conseguenze peggiori del disastro ambientale mentre i ricchi, riuscendo a gestire quel che resta delle risorse, conducono un’esistenza – nei limiti del possibile – agiata. Le tensioni sono inevitabili e si arriva ben presto a una vera e propria lotta di classe, incentrata sulle istanze rivoluzionarie e sovversive dei disagiati (capitanati da Curtis, alias Chriss Evans), da un lato, e quelle conservatrici dei benestanti (supportate da Mason, alias Tilda Swinton), dall’altro. La satira sociale, rafforzata dalla rappresentazione grottesca dei personaggi e dei loro rapporti, è volta a lanciare un monito, che avrebbe poi incontrato quello di Greta Thunberg e del movimento Friday for The Future: il pianeta sta soffrendo, vittima delle logiche efferate di un capitalismo sempre più spinto, e arriverà il momento in cui non ci sarà più un rimedio opzionabile, nonostante le disponibilità economiche da schierare in campo. Nel mondo di Snowpiercer si assiste alla rivolta delle classi operaie che, spodestando quel che resta dei capitalisti, riescono a recuperare il controllo di una realtà compromessa e a fermare quel treno in corsa, scendendo dal quale, si rendono conto che i ghiacci hanno cominciato a ritirarsi e che forse un nuovo inizio, con nuove regole sociali ed economiche, è possibile. Potremmo leggere tutto questo come un invito alla presa di coscienza da parte della base sociale, che unendo le proprie forze potrebbe raggiungere la potenza necessaria a mettere alle strette le classi dirigenti e i magnati che governano il mondo, così da inaugurare un nuovo percorso, più consapevole e sostenibile, che dia speranza al genere umano. Viceversa, non dimentichiamoci mai che il pianeta Terra sopravvivrà anche senza di noi, riadattandosi, mentre l’uomo non sarà che un ricordo sbiadito di cui forse, nessuno, avrà memoria. Curiosità: il generale ottimismo che regnava durante gli anni del boom economico, spinse la Universal a pretendere da Gilliam la riscrittura del finale che doveva essere, a tutti i costi, un happy ending. Esiste, infatti, una versione alternativa del girato dove Sam riesce a coronare il suo sogno d’amore e fuggire, sano salvo, dai suoi oppressori. Gilliam ha però combattuto e ottenuto che il finale ufficiale fosse quello che tutti conosciamo, per fortuna (N.d.R).... Read more...Jugoslavia ovvero la morte del sogno (Pt. 2), un articolo di Cartavelina || THREEvial Pursuit4 Febbraio 2021Jugoslavia ovvero la morte del sogno (Pt. 2) Risoluzione 757 di Cartavelina La grande Jugoslavia 22 giugno, ore 20 e 15, Stadio di Ullevi, Göteborg. Il momento degli inni nazionali, San non se lo godette come al solito. Fremeva per arrivare alla fine di quello strazio, in cuor suo sperava nella vittoria ma il cervello, dannato pompiere di emozioni, gli ricordò subito cosa diceva il nonno. “Umrijeti u ljepoti”. Fischio d’inizio. Il Brasile d’Europa sembrava un po’ meno spavaldo del solito. Savićević fece due o tre errori non da lui, Prosinečki non riusciva a togliersi di dosso Rijkaard e Van Basten là davanti stava creando più di un grattacapo alla retroguardia slava. L’unico che sembrava a suo agio era Boban, biondo, sicuro. San si aggrappò, idealmente, a lui e credette che lo stessero facendo tutti i tifosi jugoslavi perché al quinto minuto lasciò partire una bordata che si incastrò perfettamente nell’angolino alto alla sinistra di Hans van Breukelen. Ora si cominciava a ragionare, pensò. San, sicuro che tutto ormai sarebbe andato per il verso giusto, si distrasse. Guardava il tramonto nella sua Sarajevo, il sole si perdeva dietro il Monte Trebević. Si pentì amaramente per quella disattenzione. Perché al ventitreesimo minuto Bergkamp segnò il gol del pareggio. Il Brasile d’Europa frastornato ma non domo si riversò nella metà campo avversaria in cerca del nuovo vantaggio. Avevano perso però la grazia e la leggerezza che li aveva sempre contraddistinti. Erano una furia, cieca, passionale ma pur sempre una furia e loro non sapevano giocare in quel modo. Al trentatreesimo minuto un pallone mal rinviato dal centrale olandese Jan Wouters capitò nel posto giusto al momento giusto, cioè dove sostava con le mani sui fianchi Darko Pančev. Perché con Darko era sempre così, non dava l’idea di essere lui a cercare il pallone ma che il pallone casualmente si recasse dove si trovava il macedone. Come per un’attrazione non voluta ma inevitabile. E Darko fece quello che sapeva fare meglio, segnò. Sentì dei colpi provenire dalla strada, si sparava per la gioia nelle vie della sua Sarajevo. I suoi eroi, riconquistato il meritato vantaggio, ritrovarono la leggiadria che li caratterizzava e tornarono a giocare ballando, con un pizzico di quella sfacciataggine slava che non guasta mai. Sprecarono plurime occasioni per chiudere definitivamente la partita. Una volta toccò a Savićević, arrivato davanti al portiere dopo una serpentina soave, sprecare tutto cercando di segnare di tacco. Prosinečki era immarcabile, però non sembrava prestare attenzione al terzo occhio e cercava di entrare in porta con la palla. Mihajlović tirava saette da ogni dove che lambivano, come respinte da una forza ignota, la porta olandese. Solo Boban sembrava concentrato su quello che stava accadendo e solo lui sembrava ricordarsi che stavano vincendo solo di un gol. E all’ottantatreesimo minuto successe l’impensabile, Frank Rijkaard segnò per gli olandesi. Tomislav Ivković, ovvero il portiere della Jugoslavia San cercò subito con lo sguardo Boban, primus inter pares, sperando di incrociare i suoi occhi fieri e invece lo trovò con le mani nei capelli e lo sguardo perso. Arrivare a un passo dalla gloria e non avere niente. Si andò ai supplementari ma le due squadre preferirono aspettare i calci di rigore, per stanchezza o per paura, questo San non lo poteva sapere. Lui sentiva solo il cuore accelerare i battiti e poi rallentarli bruscamente, se avesse avuto più di sessant’anni sarebbe stato un principio d’infarto ma il braccio non doleva. Era solo il centro emozionale del suo corpo che non era capace di gestire tutto quello. Quel mix di timore, ebbrezza, gioventù che strabordava impaziente da quel corpo ancora non cresciuto. Una vocina prese campo nel suo cervello, prima flebile e poi via via sempre più tonante, fino a diventare un urlo folle e disperato. “Sarebbe stato un bel morire, perdere ai calci di rigore? Semmai con un errore del suo idolo Boban?” quello sarebbe stato troppo. “E se avesse sbagliato Savićević? Oppure se Prosinečki, troppo sicuro di sé, avesse sparato alto con il portiere già sdraiato a mangiar ciuffi d’erba sconditi?” Non doveva far altro che aspettare. L’arbitro, lo spagnolo Soriano Aledrén, si avvicinò ai due portieri e fece le raccomandazioni di rito. Il primo a parare sarebbe stato il portiere jugoslavo Ivković e a tirare, per gli Orange, il difensore, con vizio del gol, Koeman. Palla da una parte, Ivković dall’altra. Poi fu il turno di Hans van Breukelen, davanti a lui Pančev. Pančev affrontò quel rigore come noi affrontiamo una fila alla cassa del supermercato, con fastidio. Aveva l’aria di chi era in ritardo per qualcosa. Tirò e si voltò con le braccia al cielo, la palla non era ancora entrata. Lui sapeva già. Olanda uno, Jugoslavia uno. Ivković tornò tra i pali e gli si parò davanti Van Basten, il cigno di Utrecht. Un duello con Van Basten aveva uno sconfitto certo, il portiere. Ivković forse si ricordò delle plastiche parate del gatto Beara, portiere jugoslavo degli anni Cinquanta, talmente forte che Jašin, unico portiere nella storia a vincere il pallone d’oro, lo definì più forte perfino di lui, o forse le correnti ascensionali sprigionate da tutti i cuori in sospeso per quel rigore arrivarono fino a lì, perché Ivković si lanciò e rimase in aria per un tempo che a San parve eterno. Non scendeva, sempre orizzontale, e con la punta della mano destra pizzicò la palla quanto bastava per farle cambiare traiettoria. A San si strozzò un grido in gola, la bocca si aprì ma non uscì niente. Mihajilović si presentò sul dischetto. E tirò una delle sue saette. Olanda uno, Jugoslavia due. Fu il turno di Bergkamp e Ivković tornò a essere Ivković. Gol olandese. Tirò Prosinečki e segnò, perché troppo forte per sbagliare. Per gli olandesi fu il turno di Rijkaard e non sbagliò. La tensione iniziava a essere troppa per il piccolo San. Inscenò una danza propiziatoria davanti al televisore, erano più spasmi del corpo che lo portarono a creare un’ellisse imperfetta sul tappeto. Si ridestò quando apparve il volto serio e fiero di Boban, il suo eroe. E Boban segnò, facendo tirare un sospiro di sollievo a San. Per gli Orange fu il turno di Witschge: non l’aveva mai sentito nominare prima di quel giorno. Sperò nell’errore, sapendo che l’ultimo rigore l’avrebbe tirato Savićević e Dejan avrebbe potuto far sprofondare un intero paese nella più profonda tristezza. Ivković aveva perso la sapienza del volo e si accartocciò goffo dalla parte opposta alla palla. Dejan Savićević, semplicemente il Genio San istintivamente si coprì gli occhi con le mani, non riusciva a toglierle, erano magneticamente attratte dal suo volto. Dopo due minuti, che furono interminabili, c’era qualcosa che non tornava. Sentiva la voce del telecronista dire: “Dov’è Savićević? Non si trova Savićević! Ah, eccolo! Savićević sta serenamente bevendo da una bottiglietta vicino alla sua panchina, gambe incrociate, spalle alla porta. Sembra un capo pellerossa che riflette sulla migrazione dei bisonti, più che un giocatore che sta per tirare il rigore più importante della storia di un’intera nazione”. Boban lo andò a richiamare e Dejan lo guardò come a voler dire: “Dimmi? Ah, il rigore! Sì sì, arrivo!” Boban rise, lo conosceva, era buon segno. Savićević prese la palla dalle mani dell’arbitro, la sistemò sul dischetto. Intanto Van Breukelen, portierone olandese, faceva dei saltelli laterali, prima a destra poi a sinistra, per provare a distrarre lo slavo. Il destino però non può essere distratto. Savićević prese una breve rincorsa guardando sempre negli occhi l’olandese e quando notò lo spostamento del peso sulla gamba destra, accarezzò il pallone con disinvoltura. Ne nacque una palombella sbilenca che entrò in porta. Olanda quattro, Jugoslavia cinque. Ivković corse ad abbracciare Savićević e furono sommersi dagli altri compagni che arrivavano dal centrocampo, da dove avevano assistito al rigore tirato da Dejan. C’era da aspettare il 26 giugno, giorno della finale. E il fatidico giorno arrivò. Se volevano vivere, anche solo un momento, nella bellezza, i ragazzi in blu, il Brasile d’Europa, avrebbero dovuto battere la Germania, campione del mondo in carica.Fischio d’inizio, ore 20 e 15.Prima gli inni nazionali, dopo la commozione per “Ehj, Slaveni”, fu il turno di “Lied der Deutschen”. E gli stonarono subito le prime parole, “Deutschland, Deutschland, über alles, über alles in der Welt…”, “Germania, Germania, al di sopra di tutto, al di sopra di tutto nel mondo…”Era sempre più convinto che il nonno avesse ragione, non c’era da scherzare con questi tedeschi. Fu il momento del calcio, quello giocato. Dopo una decina di minuti di predominio tedesco, più fisico, in realtà, che tecnico, uscì fuori lo spirito slavo. Erano tutti con il fuoco agli occhi e la poesia nei piedi. E al diciottesimo minuto, il boato. Boban aprì alla ceca per Prosinečki, questi superò lo spaesato “über alles” di turno e passò la palla in area a Savićević che le si fece incontro e all’ultimo istante stupì tutti allargando le gambe. La palla lo superò e si diresse, come sempre, da Pančev. San era già con le braccia tese verso le stelle, sapeva già cosa sarebbe accaduto. Quando abbassò lo sguardo il macedone aveva già tirato e Bodo Illgner, portiere tedesco, era già con il culo per terra. E ora chi era “…in der Welt…?” Si calmò subito. C’era ancora tanto, troppo tempo per poter essere così ebbri. La Germania provò a riorganizzarsi, provò a mettere la sfida sulla fisicità per limitare le scorribande di Boban e soci. Però, come si usa dire in ambito calcistico, non c’era o forse il Brasile d’Europa era solamente troppo forte, finalmente. Al settantottesimo minuto, contropiede micidiale dei ragazzi in blu. Mihajilović sradicò il pallone dal tedesco che si dirigeva verso di lui. Dopo due lunghe falcate lo cedette a Jugović, che era all’interno del cerchio di centrocampo. Jugović non si perse in inutili finte e allargò il gioco sulla fascia opposta. Sempre da Prosinečki andavano, era lui il giocoliere esperto in numeri d’alta scuola. Fece scomparire e riapparire il pallone e arrivato al limite dell’area, lo cedette a Pančev. Stranamente Darko era uscito dalla sua zona di competenza, i dieci metri davanti alla linea di porta, ed era venuto a vedere che aria tirasse da altre parti, come un orso che si risveglia da un lungo letargo. Non sembrava per niente a disagio a dover gestire il pallone, pensò San. Questo lo fece sorridere, non era mancanza di destrezza pedatoria a tenerlo a ridosso del portiere avversario, era pigrizia. Pančev, con la sfera tra i piedi, si voltò per affrontare il centrale difensivo, poi, come richiamato da canti antichi, si fermò e cedette il pallone all’indietro, di tacco. La telecamera inquadrò una chioma selvaggia che arrivava a tutta velocità. Era Mihajilović che, fatta partire quell’azione selvaggia e perfetta, era sopraggiunto per concluderla. L’apoteosi. Gli ultimi dodici minuti furono una passerella. I tedeschi non ci credevano e i suoi eroi si divertivano. Fischio finale. Il celebre calcio di Zvonomir Boban a un poliziotto durante gli scontri in Dinamo Zagabria-Stella Rossa Belgrado il 13 Maggio 1990 per molti un simbolo dell’inizio della Guerra jugoslava Mucchio selvaggio su Mihajilović, che era stato il mattatore della partita. Nel momento della premiazione, San si trovò ebbro di gioia, che sfociava in lacrime e tornava gioia. Montagne russe emotive. La telecamera inquadrò Lennart Johansson, il Presidente dell’UEFA, con la coppa in mano, in attesa che arrivassero i giocatori jugoslavi e soprattutto Boban, per poterla cedere in più sicure mani. Ma Boban non si vedeva, la telecamera dopo una ricerca di qualche minuto lo scovò in disparte, prono sul terreno di gioco. I compagni corsero da lui e lo alzarono, gli occhi erano lucidi, il guerriero piangeva. San sentì le sue lacrime meno solitarie. Lennart riuscì finalmente a liberarsi della coppa e si dileguò, poco interessato ai festeggiamenti slavi. Stavolta non erano “Umrijeti u ljepoti”, morti nella bellezza, semmai avevano “Živeti u ljepoti”, vissuto nella bellezza. Nella notte dalla collina alle porte di Sarajevo una batteria di artiglieria fece fuoco verso la città. Una bomba vigliacca colpì la casa di San Pokvaren. San rimase nel sogno e non poté vivere i quattro anni di assedio, il dover camminare con la paura dei cecchini. Però grazie a lui il Brasile d’Europa esisterà sempre, avrà vinto una coppa e non si sarà lasciato morire nella bellezza. L’assedio di Sarajevo iniziò il 5 aprile 1992 e terminò il 29 febbraio 1996. Si stima che ci furono più di dodicimila morti e oltre cinquantamila feriti. Il 1° giugno 1992 un fax della Uefa comunicò a Belgrado che la Nazionale Jugoslava non avrebbe potuto partecipare agli Europei svedesi. La comunicazione della Uefa seguiva la “risoluzione 757 del Consiglio di Sicurezza Onu” del giorno precedente. A onor del vero, i croati, già dal maggio dell’anno prima, non giocavano più nella nazionale jugoslava. Però questo è un sogno e il bello dei sogni è che le regole e i dogmi non hanno potere. I censori e i probiviri delle nostre emozioni non hanno le chiavi di accesso, semmai il trauma è sempre il risveglio. Ci manca il paracadute per planare nell’ordinario. Cartavelina... Read more...Jugoslavia ovvero la morte del sogno (Pt. 1), un articolo di Cartavelina || THREEvial Pursuit3 Febbraio 2021Jugoslavia ovvero la morte del sogno (Pt. 1) Risoluzione 757 di Cartavelina La grande Jugoslavia “San è ora di andare a letto”, disse Majka con un po’ di apprensione.Sarajevo era assediata ormai da circa un mese.“Sì mamma ora vado”, rispose assorto il piccoletto, senza alcuna apprensione, lui. A sei anni tutto è roseo, gli bastava poter ancora andare, dopo scuola, a inseguire un pallone. La felicità era tutta lì, una sfera di cuoio e il sogno di emulare i suoi idoli. Un giorno provava a essere svogliato e celestiale come Savićević, un altro a calciare saette infuocate come Mihajilović, certi giorni si sentiva, con scarsi risultati, letale come Darko Pančev o Davor Šuker, il suo preferito però era Boban, guerriero dalla classe cristallina. Stava sfogliando una rivista che gli aveva regalato il nonno, con le foto dei giocatori che avrebbero partecipato, un mese dopo, al Campionato Europeo di Svezia 1992. Nel girone di qualificazione la Jugoslavia, il Brasile d’Europa, era arrivata prima davanti alla Danimarca. Quindi slavi a giocare la coppa e danesi liberi di andare in vacanza al mare o dove avrebbero preferito. Una mano gli tolse, con dolce risolutezza, la rivista da sotto gli occhi. L’ultima immagine che vide fu la faccia guascona di Savićević che sorrideva. La mano arrotolò il cartiglio su cui stava fantasticando e lo calò, seguendo una ritualità da investitura cavalleresca, sulla sua spalla. San alzò lo sguardo e vide la madre sopra di lui che lo guardava, fintamente adirata. Corse in bagno, si lavò con celerità i pochi denti che non avevano ceduto alla forza di gravità e tornò, sempre correndo, in camera dove l’aspettava Majka. Si infilò nel letto, si prese un bel bacio sulla fronte e con lo spegnimento della luce fu sopraffatto da un sonno profondo. Era seduto davanti alla televisione, 11 giugno 1992, pronto per vedere i ragazzi slavi che in terra svedese provavano a essere, oltre che belli, vincenti. Malmö Stadion, Jugoslavia – Inghilterra. Risuonavano le note di “Ehj, Slaveni”, il petto gli si riempì d’orgoglio. La telecamera fece un rapido passaggio su suoi eroi schierati davanti alla tribuna, aveva buone sensazioni. Gli occhi di Pančev erano quelli di una tigre sorniona pronta ad azzannare; Savićević aveva quel mezzo sorriso da contrabbandiere di sigarette stampato in faccia, buon segno; Prosinečki si guardava intorno fintamente spaesato; Mihajilović aveva l’aria di chi era pronto ad andare in guerra per la patria, la famiglia, un grande amore o qualsiasi altra causa avesse l’onore di essere da lui difesa; e Boban era Boban, biondo, fiero. Poi fu la volta di “God save the queen”.“God save our gracious Queen! Long live our noble Queen, God save the Queen! Send her victorious, happy and glorious, long to reign over us, God save the Queen!O Lord, our God, arise, scatter her enemies, and make them fall, Confound their politics, frustrate their knavish tricks, on Thee our hopes we fix, God save us all.Thy choicest gifts in store on her be pleased to pour, long may she reign!May she defend our laws, and ever give us cause to sing with hearth and voice, God save the Queen!” Siniša Mihajilović, ovvero il mancino più temibile di Jugoslavia, d’Europa e forse del mondo La partita iniziò e fu un dominio slavo, le maglie blu erano ovunque. Savićević era in quelle serate in cui sembrava capace di controllare non solo i movimenti del pallone, come se avesse intorno al piede una propria forza di gravità, ma anche maree, venti e battiti di cuore. I sudditi di sua maestà erano impotenti. Ma il gol non arrivava. Ci provarono in ordine sparso Boban, Pančev, Jugović e Prosinečki. All’ultimo minuto punizione per i moschettieri slavi due metri fuori dall’area di rigore dei sudditi di sua maestà. Tutti guardarono Mihajilović, Mihajilović guardò il portiere, il portiere inglese guardò il cielo. Sembrava la sceneggiatura perfetta per permettere a San di liberare l’urlo di gioia che troppe volte, in quei novanta minuti, aveva dovuto trattenere. Mihajilović prese una lunga rincorsa, mentre correva studiava il portiere, il portiere, occhi spalancati e braccia larghe, aspettava l’inevitabile epilogo. Il pallone colpito di mezzo collo esterno prese a librarsi in aria curvando all’improvviso, era palese che il portiere non ci sarebbe mai potuto arrivare. La sfera di cuoio, seguendo le istruzioni del piede di Mihajilović, si dirigeva sicura verso l’incrocio dei pali.La gola di San si contrasse, i polmoni presero aria pronti a esplodere in un fragoroso urlo ma accadde l’imponderabile, la palla si stampò sui legni che segnavano il limitare della porta inglese e tornò quasi a centrocampo. San incredulo cercò subito l’arbitro e vide che metteva il fischietto in bocca e arrivarono quei tre maledetti fischi. La partita finì 0 a 0. Se fosse stato pugilato, la Jugoslavia avrebbe vinto ai punti, ma il calcio prevede che si gonfi la rete, sennò si prende un punto a testa e si va a casa a recriminare sulle occasioni perse.Non si dette troppo affanno comunque, c’erano ancora due partite da giocare, una con i padroni di casa della Svezia e l’altra con gli spocchiosi francesi. I suoi eroi avrebbero fatto quattro punti e si sarebbero qualificati alle fasi successive. 14 giugno 1992, Stadio Råsunda di Solna, arbitrava il tedesco Schmidhuber, il nonno gli aveva detto che non c’era da fidarsi dei tedeschi. Il nonno c’era quando erano passati da quelle parti, si sentiva di dare credito alle sue parole. Svezia e Jugoslavia erano schierate da rito e ascoltavano i rispettivi inni nazionali. Dopo cinquanta minuti il Brasile d’Europa aveva creato, deliziato, si era crogiolato nella sua bellezza e nel piccolo San stava crescendo la paura. Gli venne in mente cosa gli diceva sempre suo nonno quando lui chiedeva spiegazioni sul perché, se le nazionali jugoslave erano state sempre così forti, non avessero mai vinto niente. “Umrijeti u ljepoti”, morire nella bellezza. Era sempre sopraffatto da una sensazione di smarrimento quando sentiva quelle parole. Come poteva essere associato il concetto di morte con quello di bellezza, la cosa lo turbava. All’improvviso Brolin, un biondone con una discreta tecnica, segnò il gol dell’uno a zero per gli scandinavi.I suoi eroi non si scomposero più di tanto per il gol subito, consci della loro superiorità. Continuarono a fare quello che sapevano fare meglio, deliziare e assecondare i sensi propri e altrui.Ennesimo dominio slavo, come contro gli inglesi nella partita precedente. Anche stavolta non servì per vincere e anche stavolta San non poté urlare al cielo la sua gioia. Il tutto si concluse con gli avversari, nello specifico ragazzoni svedesi, con le braccia al cielo. San Pokvaren, anche se aveva solo sei anni, sapeva che dovevano vincere l’ultima partita del girone per sperare che il sogno proseguisse. Robert Prosinečki, ovvero il destro più imprevedibile di Jugoslavia d’Europa e quasi certamente del mondo Di nuovo Malmö Stadion, risuonava la Marsigliese con tutta la sua storia, la sua boria, la sua infinita bellezza. San, per un secondo avrebbe voluto essere francese, per poter cantare a squarciagola, “Allons enfants de la patrie, le jour de gloire est arrivé!Contre nous de la tyrannie, l’étendard sanglant est levé!L’étendard sanglat est levé! L’étendard sanglat est levé!Entendez-vous dans les campagnes, Mugir ces féroces soldats? Ils viennent jusque dans nos bras,Egorger nos fils et nos compagnes! Aux armes, citoyens! Formez vos bataillons! Marchons! Marchons! Qu’un sang impur, Abreuve nos sillons! Que veut cette horde d’esclaves, De traîtres, de rois conjurés?Pour qui ces ingobles entraves, Ces fers dès longtemps préparés? Ces fers dès longtemps préparés?Français, pour nous, ah! Quel outrage! Quels transports il doit exciter! C’est nous qu’on ose méditer,De rendre à l’antique esclavage! Quoi! Ces cohortes étrangères, Feraient la loi dans nos foyers!Quoi! Ces phalanges mercenaires, Terrasseraient nos fiers guerriers! Terrasseraient nos fiers guerriers!Grand Dieu! Par des mains enchaînées, Nos fronts sous le joug se ploieraient! De vils despotes deviendraient, Les maîtres de nos destinées! Tremblez, tyrans et vous perfides, L’opprobre de tous les partis, Tremblez! Vos projets parricides, Vont enfin recevoir leurs prix! Vont enfin recevoir leurs prix!Tout est soldat pour vous combattre, S’ils tombent, nos jeunes héros, La terre en produit de nouveaux, Contre vous tout prêts à se battre! Français, en guerriers magnanimes, Portez ou retenez vos coups!Epargnez ces tristes victimes, A regret s’armant contre nous. A regret s’armant contre nous.Mais ces despotes sanguinaires, Mais ces complices de Bouillé, Tous ces tigres qui, sans pitié,Déchirent le sein de leur mère! Amour sacré de la Patrie, Conduis, soutiens nos bras vengeurs!Liberté, Liberté chérie, Combats avec tes défenseurs! Combats avec tes défenseurs!Sous nos drapeaux, que la victoire, Accoure à tes mâles accents! Que tes ennemis expirantsVoient ton triomphe et notre gloire!Nous entrerons dans la carrière, Quand nos aînés n’y seront plus; Nous y trouverons leur poussière,Et la trace de leurs vertus. Et la trace de leurs vertus. Bien moins jaloux de leur survivreQue de partager leur cercueil, Nous aurons le sublime orgueil, De les venger ou de les suivre!” Poi iniziarono le note di “Ehj, Slaveni”,“O slavi, dei nostri avi la parola viva è ancora, mentre nei loro figli per il popolo batte il cuor. Viva, viva l’anima slava: vivrai nei secoli! Niente è il fuoco della saetta, niente l’abisso dell’inferno. E persino se adesso sopra di noi tutto sconvolge la bufera, che spacca le pietre e rompe gli alberi e fa tremare la terra, noi rimaniamo in piedi, fermi come le altre gole del fiume. Che sian dannati, della propria patria, i traditori!” Due infantili e orgogliose lacrime rigarono le guance, troppo soffici perché potessero coglierne davvero il significato. Però si ricordava il brillare degli occhi del nonno quando ascoltava quelle parole, quegli occhi non mentivano, gli occhi non mentono mai. E le urlò, però nella sua lingua,“Hej, Sloveni, jošte živi, reč naših dedova, dok za narod srce bije njihovih sinova. Živi, živi, duh slovenski. Živećeš vekorma. Zalud preti ponor pakla, zalud vatra groma. Nek se sada i nad nama, burom sve raznese, stena puca, dub se lama, zemlja nek se trese. Mi stojimo postojano, kano klisurine. Proklet bio izdajica svoje domovine!” La partita poi cominciò e il Brasile d’Europa fece il Brasile d’Europa: rabone, tunnel, tacchi. Tutto quello che il panorama calcistico prevedeva fu palesato su quel campo di calcio. In Svezia non avevano mai visto niente di simile dal 1958, quando Pelé e Garrincha, insieme a Vavá-Didi-Zagallo, avevano mostrato al mondo che si può giocare e danzare allo stesso tempo. Ora il testimone dello stupore era passato nei piedi di Savićević, Boban, Prosinečki e compagnia. Non ci poteva essere passaggio migliore. Darko Pančev, ovvero la punta più svogliata di Jugoslavia, d’Europa e in assoluto del mondo Andarono in vantaggio con un pallonetto di Savićević che, imbucato da Boban, scartò il primo transalpino che gli si parò davanti e come vide il portiere farsi sotto lo umiliò con un tocco beffardo, la palla sfiorata quanto bastava perché entrasse in porta. Anche il pallone, quando veniva toccato da Dejan, sembrava svogliato di rotolare tra i ciuffi d’erba, come se fosse in ritardo per un appuntamento e volesse sbrigare il suo compito controvoglia. Poi gli jugoslavi continuarono a muoversi per il campo e a divertirsi come se fossero al campetto dell’oratorio e non a giocare una sfida decisiva, di quelle da dentro o fuori. La Francia, molto più pratica, pareggiò con Papin al sessantesimo minuto. San sprofondò in una tristezza inspiegabile, gli era salita su alla destra del cuore, spintonando e prevaricando ogni tessuto che aveva trovato per arrivare al cervello. Si sentiva mancare, non era possibile. Un’altra volta belli e dannatamente perdenti. Poi quando mancavano, circa, dieci minuti alla fine, Prosinečki fece Prosinečki.Saltò il primo francese, saltò il secondo francese, saltò il terzo francese e anche il quarto e quando non trovò più francesi da frastornare nel suo errante cammino vide con il terzo occhio, quello degli eletti, Darko Pančev, il macedone, che bighellonava in area di rigore. I difensori lo controllavano con non troppa apprensione, Darko aveva l’aria di chi beve molto, fuma tanto e ama tutti i vizi che sono stati inventati, qualcuno l’avrà di sicuro inventato lui, per aumentare il proprio repertorio. Prosinečki mise in area una palla tagliata, una palla slava, indecifrabile ma non per Darko che si fece trovare sul secondo palo e di piatto, mai sforzarsi troppo, la regalò alla porta difesa dall’estremo difensore francese e al cuore di tutti i San che seguivano con apprensione quella che sembrava l’ennesima “morte nella bellezza”. Francia uno, Jugoslavia due. Gli ultimi dieci minuti passarono senza altri sussulti. Secondo posto nel girone e sfida in semifinale contro l’Olanda di Van Basten, Koeman, Gullit, Rijkaard e Bergkamp. Che questa fosse la volta buona? La Jugoslavia sarebbe riuscita a posizionarsi sulla mappa del calcio? San credeva di meritarselo, credeva che se lo meritavano. Per un personale senso di giustizia calcistica e per quell’infantile non accettazione della fine del sogno. Continua…... Read more...Memoria tesa al presente, un articolo di A. Polverosi || THREEvial Pursuit27 Gennaio 2021Memoria tesa al presente di Andrea Polverosi Questo articolo nasce in collaborazione col gruppo del Servizio Civile Nazionale 2020/2021 della Biblioteca di Scandicci che si è occupato del progetto di informazione e sensibilizzazione “La Settimana delle Memoria”. Dal 20 al 27 gennaio, ogni giorno, sono stati dati consigli e approfondimenti su libri e film riguardanti la Shoah ed eventi storici, sociali e politici affini. Per leggere tutti gli approfondimenti in versione integrale, potete andare sul blog della Biblioteca di Scandicci: https://labibliotecadiscandicci.wordpress.com/2021/01/19/giornata-della-memoria-2021/ Memoria tesa al presente Il Giorno della Memoria è un momento fondamentale per conoscere e ricordare il genocidio degli ebrei e la morte di tutte le altre persone perseguitate nei campi di concentramento. Questa memoria, però, dev’essere tesa non solo al passato ma soprattutto al presente: conoscere ciò che è successo per far sì che non accada nuovamente. La Shoah è stata terribile nella sua unicità e pochi eventi vi si possono paragonare. Purtroppo, però, ci sono tanti fenomeni affini che condividono con essa il tentato annichilimento dell’umanità altrui: considerare una persona una non-persona e per questo arrogarsi qualunque diritto su di essa. È per tale motivo che oltre a occuparci del genocidio degli ebrei abbiamo deciso di considerare anche altri eventi. Tracciando una linea di congiunzione fra le tre direttrici di migrazione-razzismo-genocidio abbiamo individuato fenomeni sia passati che presenti di cui riteniamo sia importante essere consapevoli. In particolare, la volontà è quella di riportare l’attenzione su fenomeni a noi più vicini come l’immigrazione in Italia, questione attualissima per cui purtroppo si è tornati in questi anni a parlare di razzismo e dei campi di tortura presenti in Libia. Spostandoci a est, emerge l’urgenza di conoscere meglio cosa sta accadendo in Cina sulla minoranza turco-islamica degli uiguri, popolazione repressa dal governo centrale cinese e vittima da anni di genocidio culturale. Infine, non potevamo evitare la spinosa questione del forte ritorno del suprematismo bianco negli Stati Uniti d’America, l’estrema destra che torna a macchiarsi pesantemente di slogan e atti violenti di razzismo e antisemitismo. Essere donne nei lager La deportazione delle donne nei campi di concentramento è stata vissuta in maniera specifica. Nei lager nazisti, la loro identità morale e fisica fu sin dall’inizio messa a dura prova: l’ispezione della testa, delle ascelle, del pube e la rasatura totale rappresentano la prima violazione dell’intimità fisica, un’offesa fatta alle donne, lacerate dal dolore di queste pratiche. Prima di distruggere psicologicamente e moralmente le detenute, i nazisti si impegnavano ad annullare ogni peculiarità che potesse individualizzarle. La «bruttezza» del corpo, inevitabile nelle condizioni di vita nei campi, la denutrizione e il lavoro massacrante sono anch’essi vissuti in maniera specifica dalle donne, che sopportano più difficilmente rispetto agli uomini le loro membra scarne e deformi. Non ci sono più donne anziane o giovani, donne belle o brutte: le loro caratteristiche non si rivelano più attraverso la loro femminilità o le loro particolarità fisiche. Esse si sentono di giorno in giorno meno umane. Un’altra caratteristica specifica della deportazione femminile è data dagli esami ginecologici, molto spesso inutili e proprio per questo sadici, come ulteriore violazione della femminilità. Sempre alla donna toccò la prova più sconvolgente: affrontare la maternità nel lager. Partorire significava andare contro il principio base del luogo, ossia morire. La donna e il suo corpo nei campi di concentramento è il tema fondamentale della raccolta di racconti Il fumo di Birkenau di Liana Millu pubblicata nel 1947. L’antologia è composta da sei storie che si snodano intorno agli aspetti più specificamente femminili della vita minimale e disperata delle prigioniere. Queste storie vedono come protagoniste le compagne di Birkenau di Millu: dalla narrazione riemerge la loro individualità negata e il tentativo di ognuna di lottare per la propria identità femminile. L’immigrazione in Italia Come un uomo sulla terra è un documentario di Andrea Segre e Dagmawi Yimer che svela le responsabilità dell’Europa e del nostro paese in merito alla creazione dei campi di detenzione libici per frenare l’onda di migranti provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo e chiarisce l’inefficacia delle politiche che abbiamo applicato, fatte di slogan vuoti e approssimativi che fanno dell’immigrazione solo una questione di sicurezza. L’Europa e i governi italiani che si sono avvicendati, sia di destra che di sinistra, hanno preferito guardare altrove, distogliendo lo sguardo dagli atti di privazione dei diritti umani che avvengono in Africa, quegli stessi diritti umani inviolabili che dicono di voler difendere e salvaguardare. Il governo italiano nel corso degli anni ha siglato accordi con la Libia che prevedevano ingenti somme di denaro, con le quali si sono costituite milizie e centri di detenzione. La verità è che non si è mai messo al centro i diritti inviolabili dell’umanità, ma si è preferito spendere fiumi di denaro affinché il problema rimanesse il più lontano possibile, seguendo il detto “occhio non vede, cuore non duole”. Il documentario contiene interviste di chi quella tratta l’ha percorsa, pagando caro il trasporto con il poco che possedeva; i soprusi e gli atti di violenza fanno tremare le vene dei polsi, le condizioni dei viaggi dipingono una situazione talmente indegna da essere a malapena immaginabili. Questo film è sicuramente un’ottima risorsa per capire la storia che si trova dietro a un argomento di forte attualità e che sarà importante continuare a trattare anche in futuro. La Cina e la repressione contro gli uiguri La guerriera gentile è la testimonianza della vita di quella che in molti definiscono la più nota dissidente della Cina. Rebiya Kadeer in questa autobiografia ricostruisce la sua vita e quella della sua gente, raccontando la spietatezza di un regime – quello cinese di Mao – la repressione, le fughe, l’incertezza, le paure, ma anche le speranze e il cambiamento, il riscatto e una nuova prospettiva. Le terre della popolazione di etnia uigura sono quelle del Turkestan orientale, oggi Xinjiang. Lì vi abitano uomini che da secoli condividono usi e costumi totalmente diversi dalle altre regioni cinesi. Originari della penisola dell’Anatolia e musulmani, gli uiguri sono riusciti a vivere in quella parte di Cina insieme alle altre etnie presenti in pace, rispettando la propria terra. Ma negli anni ’50 tutto cambia, e inizia quella che sarà una battaglia che dura tutt’oggi: da una parte la Cina, dall’altra gli uiguri. La politica aggressiva di Mao Zedong nella regione settentrionale ha un doppio risvolto. La Cina proletaria avvia prima di tutto un prepotente programma di inserimento di cinesi han (il gruppo etnico maggiormente presente nel paese) per andare a sostituire – o “riformare” – la popolazione e l’élite musulmana dello Xinjiang, mentre nel frattempo sfrutta le risorse energetiche della zona. Da meno di 300 mila che erano, gli han si ritrovano a essere la maggioranza nello Xinjiang, superando le 8 milioni di unità. Malgrado sia proprio Mao a parlare pubblicamente del diritto dei popoli all’autodeterminazione, quando nel 1955 dichiara la “regione autonoma uigura dello Xinjiang”, di fatto ha finito di estirpare ogni traccia di identità degli uiguri da quella terra. L’ingordigia del governo di Pechino non ha fine, e colpisce in seconda battuta i possidenti terrieri uiguri, grandi o piccoli essi siano. Derubati delle loro proprietà, vengono tacciati di essere traditori, borghesi e ostili allo stato: in pochi casi viene risparmiata loro la vita. A questo si aggiunge la Rivoluzione culturale di Mao nel decennio che va fino al 1977, che è prima di tutto una caccia al nemico e che sugli uiguri stringe una tenaglia sanguinosa fatta di soprusi e ingiustizie. La Rivoluzione culturale, infatti, ha un prezzo: la cultura altrui. Quella degli uiguri viene dilaniata, vilipesa, rinnegata. Vengono torturati e scherniti pubblicamente molti intellettuali che trovano la pace solo nel suicidio. In questo contesto terribile inizia l’azione controcorrente di Rebiya, che con le sue armi si batte per la sua gente esponendosi in prima linea contro il terrore di Pechino. Combatte, viene tradita, viene considerata pericolosa per la stabilità del paese, viene incarcerata, ma, nonostante ciò, riesce a rialzarsi e a ripartire per cercare di ritrovare la dignità sua e del suo popolo. L’America e il ritorno del suprematismo bianco Oggi si ha a volte la sensazione che gli avvenimenti accaduti durante i regimi nazifascisti ci riguardino meno, che siano ormai fatti del passato, che abbiamo imparato la lezioncina e che sia impossibile riaccadano. Tutt’al più se succede qualcosa di simile, non è da noi, non nella nostra presunta civiltà ma in qualche povero paese sparso nel mondo. La verità è un’altra. La verità è che in Occidente il razzismo è dilagante. Il 2020 ha riportato alla luce tutto ciò: la morte di George Floyd e di tanti altri afroamericani uccisi dalle forze dell’ordine testimoniano un odio razziale pressoché sistematico. Le rivolte di Black Lives Matter hanno risvegliato le nostre coscienze, ma è evidente che il problema non sia stato risolto. Il 6 gennaio 2021 centinaia di militanti di estrema destra, sostenitori di Trump, hanno invaso e occupato il Congresso americano costringendo alla fuga i parlamentari, gravità che solitamente si accompagna ai colpi di stato. Non dobbiamo minimizzare ciò che è accaduto: quelle persone non erano dei burloni da bar, dei semplici grulli che vanno dietro alle fake news. Come ci mostrano i simboli da loro usati, c’erano tanti militanti di estrema destra, ossia razzisti, neonazisti, nativisti e suprematisti bianchi. In una parola, fascisti. E questo è successo a Washington, negli Stati Uniti d’America, e ciò che succede là ha eco in tutto il mondo. Per questo motivo non dobbiamo sottovalutare il ritorno forte dell’estrema destra in Occidente. Alt-America. L’ascesa della destra radicale nell’era di Trump è un saggio di David Neiwert, giornalista e massimo esperto del fenomeno. L’alt-America è l’universo parallelo fatto di fake news, complottismi, teorie razziste ed eliminativiste in cui vivono gli estremisti di destra. Un mondo di fantasia che fino a poco fa credevamo di pochi invasati e che invece negli ultimi anni, a partire dal 2015/2016 con le primarie repubblicane vinte da Trump, è emerso dalla sua caverna. Partendo dagli anni Novanta, l’autore descrive i gruppi neonazisti di allora che formavano milizie armate e che rivendicavano il loro potere in quanto “cittadini sovrani”, ovvero non sottoposti alle leggi federali degli Stati Uniti. Riportando alla mente alcuni pesanti scontri e stragi avvenute fra questi gruppi e le forze dell’ordine, Neiwert introduce una delle questioni più sottovalutate negli ultimi decenni in America: il terrorismo interno, portato avanti dai bianchi contro i non-bianchi. Questo movimento venne rinfocolato dagli eventi dell’11 settembre, che hanno favorito una retorica militaristica legittimando l’emergere di un forte sentimento contro tutti i musulmani. È anche da qui che le credenze sbagliate dei gruppi suprematisti e neonazisti si sono spostate, passando dall’essere relegate a un mondo oscuro e minoritario a diventare forza politica prevalente infiltrandosi nei ranghi del Partito Repubblicano, fra i conservatori moderati. Questo cambiamento, però, è avvenuto in primis con due novità: la prima è internet. In questo immenso spazio fatto di siti e blog anonimi, gli estremisti di destra hanno potuto accedere a uno strumento di diffusione mai avuto prima. Coloro che propagandavano idee razziste hanno raccolto intorno a sé sempre più persone, in particolare giovani, bianchi, maschi, celibi e disoccupati. È da qui che la normalità ha iniziato gradualmente a mutare: da questi canali sono emerse alcune delle più aberranti teorie del complotto come il Pizzagate e l’idea per cui Barack Obama fosse in realtà un musulmano pronto a imporre una dittatura religiosa in America. L’idea di fondo che muove queste persone è che siano loro ad essere sotto attacco, come se ci fosse qualcuno pronto a togliere le posizioni di comando che finora i bianchi hanno avuto, imponendo un governo anti-bianchi che li deporterà tutti in campi di concentramento. In breve, ribaltano completamente il discorso: sono razzisti, suprematisti e neonazisti proprio perché un fantomatico Nuovo Ordine Mondiale è pronto a prendere il controllo e a sterminarli tutti. Per difendersi, saranno loro a sterminare tutti gli altri. È da questo mondo che poi vengono fuori carnefici che davvero compiono stragi ammazzando in sinagoghe e moschee. La seconda novità: un leader carismatico capace di riunirli tutti e di diffondere queste idee nel mondo istituzionale. Trump. Secondo l’autore del libro, Trump non è fascista ma un narcisista populista di destra, pronto ad appoggiare qualunque idea che lo faccia vincere e che col suo governo ha favorito l’emergere di una situazione di proto-fascismo. Trump non ha mai condannato le parole e gli atti dei militanti di estrema destra che lo appoggiavano. Con un balletto da contorsionista si è sempre difeso dalle domande e critiche dei liberali e progressisti ammiccando, favorendo e persino condividendo la retorica e la violenza dei suprematisti. Proprio come ha fatto il 6 gennaio quando, continuando a sostenere la teoria complottista per cui le elezioni in cui ha perso fossero state truccate, ha incitato e rigettato allo stesso tempo gli atti violenti dei suoi sostenitori. Trump oggi non è più al potere e forse non lo sarà nemmeno in futuro, ma l’alt-America, il mondo fascista a cui ha aperto le porte, è ancora lì e tutti noi dobbiamo fare attenzione.... Read more...5 superpoteri da viaggio, un articolo di G. Bindi || THREEvial Pursuit20 Gennaio 20215 superpoteri da viaggio di Gianluca Bindi Iran 2019, photo by Daniele Lombardi Viaggiare, oltre a soddisfare un’innata curiosità per il diverso e il lontano, ha sempre avuto un’importanza decisiva per la mia salute psicofisica. Soprattutto negli ultimi dieci anni, quando le mie scelte di vita andavano sempre più a sedentarizzarmi davanti a libri e a file word su computer portatili. È da lì che la voglia si è trasformata in bisogno: di sfogo nevrastenico, di fare scorte di ispirazione e avventure, di passare dal tempo-senza-spazio al mirabile spazio-senza-tempo dei CSI. Il viaggio trasforma, fa rendere consapevoli dei limiti e delle potenzialità della tua persona. A volte mi ha fatto acquisire veri e propri superpoteri che, purtroppo, non ho potuto utilizzare in questo 2020 di chiusure e zone colorate. Di seguito, in ordine cronologico, vi racconterò di come, quando e dove sono venuto a contatto con la mia parte marvelliana. Spagna 2010, photo by Gianluca Bindi Invisibilità Nel 2010 intrapresi con testardaggine e molta disorganizzazione il mio primo viaggio in solitaria: il Cammino di Santiago. Ero così disorganizzato che mi ero accorto soltanto dopo una settimana che non avevo comprato la guida giusta, non capacitandomi di come mai i percorsi scritti mi portassero spesso e volentieri in sentieri impossibili per la bicicletta, alternando fasi di ingiustificato odio per l’autore con fasi di incaponimento, trascinando a mano il mio mezzo di trasporto con zaino su salite fatte di ghiaia e al 20% di pendenza media. Dopo una crisi sui Pirenei e un masso preso in pieno in discesa da un’altura che mi ha quasi scaraventato nel letto di un fiume, ho iniziato a stare attento e non seguire la guida alla lettera: ovviamente in un primo momento ipercompensando, e finendo sull’autostrada che porta a Pamplona. Dopo due settimane di relativa tranquillità in cui mi stavo godendo il viaggio senza tanti intoppi, arrivai in Galizia, l’ultima regione prima del traguardo. Scendendo con eleganza dal monte O’Cebreiro, ormai pregustando la vista dell’oceano dopo quasi mille chilometri di fatiche, svoltai a destra prematuramente in una viottola in superdiscesa. Dopo cinque minuti buoni di curvoni a ottanta all’ora, con il tarlo del dubbio e la preoccupazione di rifarla eventualmente tutta all’incontrario, il cuore mi saltò in gola e strozzai i freni fino a fermarmi. Una mandria di tori lasciati così alla cazzo di cane sulla strada procedeva verso di me. Mi ero portato soltanto tre maglie per il viaggio ma sì, oltre che a sbagliare strada dovevo indossare la rossa proprio quel giorno, ovviamente. Mi paralizzai, certo della mia fine. Poi sentii il pastore chiamarmi. Mi fece cenno di raggiungerlo. Riluttante cedetti e attraversai la mandria, lentamente; le cose erano due: o io ero diventato invisibile o i tori erano daltonici. Raggiunsi il vecchietto, chiedendo subito indicazioni per Triacastela nel mio neonato ma degno spagnolo. Lui però mi rispose in galiziano, che praticamente è portoghese, e tanto per cambiare non capii niente, tranne una cosa: dovevo rifare tutta la strada a ritroso, stavolta in supersalita. Pirobazia Australia 2013, photo by Gianluca Bindi Ebbi l’occasione di sperimentare l’antico superpotere di camminare su qualcosa di simile ai carboni ardenti nel 2013 in Australia, più precisamente nel Far (o Forgotten) Northern Queensland. Dopo una selezione che neanche Masterchef, X-Factor e gli Avengers messi insieme, vinsi il primo colloquio della mia vita per diventare compagno di viaggio, insieme ad altre due persone, di un ragazzo tedesco dotato di macchinone 4×4, sbaragliando la concorrenza di altre trenta persone (sì, lui aveva fatto la interview a tutti). L’annuncio prevedeva dalle sei alle otto settimane di strade sterrate e accampamenti lungo le migliaia di chilometri nello sperduto Nordest australiano, raggiungendo Cape York (punto più settentrionale del continente) per poi entrare nei Northern Territories e virare a sud verso Uluru/Ayers Rock. Il tutto senza ricezione telefonica, con piccoli centri abitati a volte distanti quattro giorni di guida e con una natura alquanto ostile: questa regione è denominata Croc Country, fate voi i calcoli. Durante la risalita della York Peninsula ci fermammo in un posto meraviglioso chiamato Cape Melville; e dico letteralmente visto che avevamo impantanato il gippone nelle sabbie mobili. Un tizio che viveva là (primo essere umano incontrato dopo due giorni) ci tirò fuori. Ci disse anche di non avvicinarci tanto alla riva perché era pieno di coccodrilli e che un mese prima aveva sparato a uno che aveva azzannato il braccio di una ragazza. La mattina dopo, consci di queste raccomandazioni, ci incamminammo sulla morbida spiaggia verso il relitto di un aereo alleato della Seconda Guerra Mondiale. Verso le 11 iniziammo a fare ritorno alla base per rimetterci in viaggio ma c’era un problema grosso: la sabbia vicino all’Equatore scottava, incredibile! Cercammo di ripararci all’ombra dei pochissimi alberi, ma il percorso era ancora lungo. A un certo punto Chris, Robin e Marco cedettero alla tentazione di andarsi a sciacquare un attimo i piedi a riva. Lo vidi subito, un missile sottomarino che dalla lontananza puntò subito sui miei compagni di viaggio. Tirai un urlo che squarciò l’aria, loro si misero subito a correre. Il coccodrillo rimase sott’acqua, tradito. In seguito decidemmo di prendere la via più alta, con più alberi. Dalla nostra postazione riuscimmo a vederne altri due, esattamente dove eravamo passati all’andata, cosa che ci fece venire sinistramente in mente le parole di un aborigeno che avevamo incontrato qualche giorno prima: «Ricordate, quando vedete un coccodrillo vuol dire che lui vi ha già visto tre volte. Occhi aperti». La sabbia era incandescente, ma ce la facemmo a tornare. Tutti coi piedi semiustionati, io invece stavo bene. Superpotere? No, infradito. Cinomanzia Georgia 2015, photo by Gianluca Bindi Il 2015 fu l’anno di un altro superpotere, ossia quello della divinazione incentrata sul comportamento, i movimenti e i latrati dei cani (esiste veramente). Questa volta ero appena arrivato in Georgia, assieme al mio amico Davide. Avevamo prenotato l’ostello soltanto per le prime due notti a Tbilisi, consci del fatto che, in un mese di permanenza, ci saremmo organizzati giorno per giorno a seconda di dove ci avrebbe portato il viaggio. L’aereo, però, fece un ritardo mostruoso. Alle 5 di mattina riuscimmo a uscire dall’aeroporto e a prendere un taxi. Scritte strane si avvicendavano sui cartelli. Dopo una ventina di minuti l’autista si fermò lasciandoci a თავისუფლების მოედანი, che secondo la cartina scrutata dai nostri occhi assonnati doveva corrispondere a una sorta di Piazza della Libertà. Era buio, c’era silenzio. Ubriachi sporadici rientravano da un venerdì sera impegnativo. Ci avviammo per una stradina non illuminata del quartiere di Sololaki, in cerca dell’ostello. L’indirizzo ci portò di fronte a un piccolo androne senza porta, male illuminato, con fili elettrici esposti e una scala dai gradini grigi e sbriciolati. Nessuna insegna o cartello che indicasse qualcosa di simile a un ostello. Guardai Davide interrogativamente proponendo un «Che si fa?», subito ricompensato da un sincero «Io non entro». Provai ad avventurarmi per un piano – che, col senno di poi, vista la situazione non valeva proprio la pena per gli appena 3 euro di acconto che avevamo versato – ma niente. Decidemmo di aspettare su una panchina della piazza, giocando a carte: «Se è veramente un ostello prima o poi aprirà». La luce dell’alba fece apparire il contesto meno spaventoso, ma dell’ostello nessuna traccia. Verso le 7 di mattina un cane randagio ci approcciò alla panchina. Era sporco e aveva qualcosa di simile a una gomma da masticare appiccicata al pelo. Era affettuoso e ci rimase subito simpatico, tanto che gli demmo il nome Laki, visto il posto dove eravamo. Alla fine fece per andarsene, ma dopo qualche metro ci abbaiò. Noi lo seguimmo per dieci minuti buoni, non sapendo bene il perché. Entrò in un altro androne di un’abitazione e noi dietro, senza remore, forse per il sonno bestia. Era un ostello. Niente, non avevano posto. Quindi lui ripartì e noi sempre dietro come degli automi. Entrammo in un altro sottoscala, questa volta di legno, con una miriade di panni stesi. Lui montò le scale, noi pure. Al secondo piano abbaiò, noi suonammo, la receptionist di un altro ostello ci aprì. Avevamo un posto dove dormire. Ci disse che non potevamo portare il cane, noi ci guardammo intorno ma lui era già sparito. Provammo a raccontare a tutti l’accaduto, dubitando della nostra versione e facendoci dubitare del fatto che fosse soltanto un’allucinazione dovuta alla privazione del sonno. Ma alla fine del viaggio, qualche giorno prima di rientrare in Italia, di nuovo a Tbilisi seduti a un bar del centro, Laki si ripresentò per salutarci. E noi avemmo l’occasione finalmente per ringraziarlo. Xenoglossia Turchia 2018, Photo by Gianluca Bindi Questa parola strana indica la capacità paranormale di parlare fluentemente una lingua mai imparata. Mi rendo conto che qui si entra in contesto religioso, visto che in molti abbiamo in mente persone possedute da Satana che iniziano a sciorinare un B2 di aramaico o il passo del Nuovo Testamento dove lo Spirito Santo fa magicamente capire fra di loro “Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia che sono di fronte a Cirene e noi residenti di passaggio da Roma, Giudei e proseliti, Cretesi ed Arabi”, e chi più ne ha più ne metta. Ma vi anticipo subito che nel mio caso non è proprio andata così, anche se ci sono andato vicino. Era il 2018, ed ero in Turchia, famosa fra le altre cose per la sua lingua molto ostica e la difficoltà di trovare qualcuno che sappia uno straccio di inglese. Durante il mio soggiorno a Istanbul ero ospite di un ragazzo molto gentile anche se il problema linguistico era una barriera quasi invalicabile. Negli anni la tecnologia aveva fatto passi da gigante, quindi era già buono riuscire a comunicare tramite gli audio di Google traduttore. Nondimeno dopo un paio di giorni decise chiamare una sua amica dell’università che aveva studiato l’italiano a Perugia per qualche tempo, in modo da farle fare da traduttrice simultanea fra noi due. Facemmo subito amicizia e, nei giorni seguenti, Ceyhan mi portò prima a visitare la città e poi direttamente a dormire dai suoi nonni in periferia, per poter raggiungere con più facilità un’isola dell’Egeo l’indomani. Fui letteralmente travolto dall’ospitalità della nonna, una signora rotonda e molto materna. Ci preparò sia la cena che il pranzo al sacco per il viaggio. Poi io e lei ci spostammo sulla terrazza. Iniziammo a parlare. Io in italiano, lei in curdo. Non mi ricordo nemmeno di cosa, ma ricordo che ci capivamo, e che lei aveva una risata stupenda. Dopo un po’ ci raggiunse Ceyhan e, alquanto destabilizzata, constatò che effettivamente quel dialogo aveva un senso logico. Magari non so con lo Spirito Santo, ma con il cuore aperto si può comunicare con chiunque. Kairotecnia Iran 2019, photo by Daniele Lombardi Dio dell’opportunità, nonché ultimo figlio di Zeus, Kairos è stato declinato in molte discipline dello scibile umano. Nella Retorica, Aristotele lo definiva come tempo e luogo giusto per trattare certe questioni, mentre per Freud era il momento adatto, durante la psicoterapia, in cui dire al paziente quello che prima non era pronto a sentirsi dire (pena la ‘fuga’ dal processo di guarigione). Ho coniato questo penoso neologismo perché durante le mie ricerche non ho trovato quella sorta di “abilità di essere nel luogo giusto al momento giusto” che secondo me è, per distacco, il superpotere dei superpoteri. Forse semplicemente perché in gergo viene chiamato ‘culo’, ma oltre a essere troppo vago mi sembrava anche poco raffinato. Nel 2019 col mio amico Daniele, prendemmo la bellissima decisione di passare due settimane in Iran. Il nostro piano di viaggio era chiaro almeno fino al giro di boa, poi avremmo dovuto improvvisare. Arrivati al momento fatidico, davanti a un tè allo zafferano, cercammo in tutte le maniere di far coincidere giorni rimanenti, maggior numero di cose da vedere e il minimo sindacale di ore di sonno. Optammo per il sud, per Hormuz, un’isola del Golfo Persico e i suoi 50°C a ottobre. Prendemmo un pullman notturno, molto alla cazzo di cane, senza sapere dove avremmo dormito la notte dopo e soprattutto senza più soldi locali (in Iran non è possibile ritirare dai bancomat con carte straniere). Dopo una notte passata insonne, con l’aria condizionata in modalità Lapponia, approdammo nella città costiera di Bandar Abbas dove alle 6 di mattina c’erano già 38°C già belli umidi, ma soprattutto consci che avremmo dovuto cercare un posto che cambiasse i nostri euro e quello dove prendere il traghetto in appena un paio d’ore. Miracolosamente riuscimmo a far tutto in tempo e cademmo in un oblio di sonno appena il traghetto si mosse. Attraccati, uno sciame di risciò ci assalì nel bollore. Ci facemmo caricare da uno a caso ma noi non sapevamo dove andare. «Hostel» avemmo soltanto la forza di dire. Lui non capiva, ma alla fine fece come ritenne giusto, imboccando una delle tante strade sterrate. Incuranti della situazione, ballonzolavamo nel rimorchio del risciò sudando copiosamente, quando la motoretta si fermò davanti a un blocco di cemento armato circondato da una ringhiera malandata. «Hostel» ci fece lui, e noi sperammo subito che non intendesse il film horror di qualche anno fa. Invece ci aprì un ragazzo che ci fece accomodare nell’unica stanza, con appena tre letti a castello. Il soggiorno era ampio, con tappeti morbidi e un tavolino basso. Non facemmo in tempo a mettere su un tè che lui ci offrì una canna. I buoni propositi sullo stare alla larga da tentazioni che in questo Paese possono voler dire svariati anni di galera svanirono all’improvviso. Ci mettemmo tutti attorno al tavolo a fumare: noi, lui, un tizio che poi scoprimmo spacciatore (ci avrebbe accompagnato nei tour in risciò dell’isola con la merce da piazzare) e un altro tizio che dormiva sotto al divano, probabilmente già sotto oppiacei. Parlammo e ridemmo. Il titolare accese la musica e mise il mio album preferito, Lateralus dei Tool. Gli feci vedere il tatuaggio sul mio braccio e lui tirò su il pollicione. Finimmo io a cantare e il tossico a mugolare da accompagnamento. Ero felice, consapevole che, non sapendo come, ero nel posto giusto al momento giusto. Grazie al Kairos.... Read more...La prossima innovazione, un articolo di D. Petrelli || THREEvial Pursuit13 Gennaio 2021La prossima innovazione di Dario Petrelli La prossima innovazione che dobbiamo apportare nella nostra società non è tecnologica. Non ha a che fare con una grande invenzione che ci consentirà di teletrasportarci, o di conquistare Marte, o di generare grandi quantità di acqua dal nulla (ok, quello magari aiuterebbe, ma non è questo il punto). La prossima innovazione deve essere filosofica, etica, sociale. Deve riguardare il nostro modo di pensare: a noi stessi, alle nostre relazioni, al mondo che ci circonda. Ce lo diciamo già da tempo: solo un cambiamento radicale nel nostro modo di ragionare può aiutarci a trasformare in misura significativa il nostro modo di vivere. Non sarà il prossimo I-Phone a salvare la Terra – anzi, è molto probabile che il prossimo I-Phone contribuirà a peggiorarle. Ma quale potrebbe essere questa nuova idea, in grado di aiutarci a vivere meglio? Non lo so, ma sparo un esempio: il dare nuova, autentica importanza alla pausa. Sì, la pausa, intesa come mancanza di fretta, ansia, di voler fare, di voler avere, di essere sempre i numeri e le numeri uno. Mancanza di profonda, intensa avidità. La pausa, come nel gioco di Zidane, quando dopo un dribbling a metà campo si ferma e guadagna secondi aspettando la sovrapposizione del terzino sulla fascia, per poi servirlo sulla corsa. Senza ansia, senza voler accelerare il ritmo a tutti i costi, aspettando che i tempi coincidano. La pausa, come l’agricoltrice che evita di spruzzare pesticidi e veleni su ogni centimetro quadrato del suo campo per velocizzare il processo di crescita e maturazione dei suoi ortaggi, delle sue vigne, dei suoi alberi. La contadina che concede alla vita le condizioni migliori per venire a formarsi. La pausa, come quella delle città che scoraggiano l’utilizzo dell’automobile nelle proprie strade. Esistono davvero queste città, no? Magari non sono così diffuse, non in Italia almeno, ma esistono. Fatevi una camminata, gente. Non abbiate fretta. La pausa, come quella che esisterebbe in un mondo ideale dove non c’è l’obiettivo del profitto costante, il plus a ogni secondo che passa. Il plus che finisce per soffocarci tutti quanti: generando traguardi ogni volta più irraggiungibili nei nostri lavori; saturando i nostri smartphone di roba che ci martella e ci confonde; riempiendo gli scaffali dei supermercati e i nostri frigoriferi di cibo incommestibile basta che si compri. Cazzo, a volte mi sento come incastrato nella home di Netflix, dove scorrendo dall’alto verso il basso finisci per perderti nell’oceano di serie tv che continuano incessanti a sbucare fuori dal nulla, e sono tutte uguali e ogni volta che ne inizio una nuova mi sento subito preso per il culo perché dai, siamo seri, cos’ha veramente di nuovo questa nuova serie tv? L’innovazione di cui potremmo aver bisogno, insomma, è una rinuncia alle innovazioni. Perlomeno a quelle a cui ci siamo abituati così tanto da pensare che il nostro orizzonte debba essere sempre costellato dall’arrivo di nuovi prodotti, aggiornamenti, scoperte, esperienze, cose. Troppe cose, forse ce ne vorrebbero meno, forse sarebbe il caso che tutti provassimo a rallentare per un po’. [E so bene che in questo momento storico un concetto simile non può che riportare alla mente il lockdown, ma quello in fondo non ha davvero a che fare con la pausa per come ne ho parlato fin qui: è piuttosto uno stop forzato nel tentativo di salvare il salvabile e far diminuire le morti. Non è il calciatore che si ferma col pallone tra i piedi per far salire la squadra, è il calciatore che viene espulso dopo un brutto fallo e abbandona la partita. Certo, avremmo potuto sfruttarlo come un’occasione per ragionare a fondo su tematiche importanti e su come prevenire disastri futuri. Di solito nei film (o nei libri o in qualsiasi tipo di racconto), la pausa serve anche a preparare lo spettatore a cambiamenti inattesi nello svolgimento della trama. Dopo il primo lockdown invece abbiamo scoperto che non era cambiato nulla, e non è un caso se siamo ancora intrappolati in una situazione molto simile a quella in cui eravamo finiti a marzo]. La realtà è che la nostra è una società che va a mille all’ora sotto tutti i punti di vista. Si è già schiantata più volte ma ciononostante non accenna a frenare – sembra non sapere come si fa, a frenare. Sembra ansiosa di andare incontro allo schianto definitivo. La svolta, allora, potrebbe consistere nell’imparare a decelerare. Cambiare velocità, ma verso il basso – e non sempre e solo verso l’alto come ci siamo condannati da soli a fare. Magari non funziona, o magari invece potrebbe piacerci. Il cambio di ritmo, del resto, aiuta a rendere la fruizione di un’esperienza meno monotona. Insomma, avete afferrato il concetto, no? Niente di nuovo in fondo, se ne parla da tempo e risale agli anni ’90 il motto di Alexander Langer – personalità poliedrica i cui contenuti paiono farsi più urgenti a ogni anno che passa – “lentius, profundius, suavius”, che tradotto significa: diamoci una calmata. Capito, piattaforme di streaming? Datevi una calmata anche voi. Sul serio, c’è troppa roba su quella home e non si riesce mai a capire cosa scegliere: è un labirinto notturno pieno di potenziali scelte sbagliate e video che partono in autoplay per farti smarrire la via. Forse è meglio prendersi una pausa, anche dalle serie tv.... Read more...Intervista a Mathieu Romeo aka Trota, di G. Silvestrelli || THREEvial Pursuit23 Dicembre 2020Intervista a Mathieu Romeo aka Trota Nelle acque profonde del writing romano di Giorgio Silvestrelli TROTA, all’anagrafe Mathieu Romeo, è un writer di Roma. Non uno qualsiasi. Da sempre è considerato come un pilastro della scena del writing romano e non solo. Abbiamo deciso di incontrarlo e di fare una bella chiacchierata con lui dato che, insieme con Lorenzo D’Ambra, ha da poco dato alle stampe un libro dal titolo quanto mai emblematico: Roma Subway Art. Giorgio Silvestrelli: Ciao Mathieu, presentati al pubblico di Three Faces. Raccontaci chi sei e quali sono le tue passioni. Trota: Ciao, sono Mathieu, meglio conosciuto come TROTA.Le mie passioni sono la pesca con la mosca e i viaggi, mentre la cultura a cui appartengo è il graffiti writing. GS: Come ti sei avvicinato al writing e qual è il tuo primo ricordo legato ai graffiti? T: Mi bocciarono e dunque cambiai scuola, continuando nonostante tutto a fare politica. Entrai, così, a far parte di un collettivo dove, tra gli altri, c’era HIOM che qualche mese dopo mi chiese di andare a fare il palo a lui ed alcuni amici mentre dipingevano un treno. Una volta che ebbero finito, scrissi FUCK THE SYSTEM con uno spray giallo! GS: Raccontaci l’origine del tuo tag: Trota. T: Erano i primi giorni di scuola dopo Pasqua e stavamo facendo ricreazione quando i miei compagni mi dissero che la prof avrebbe interrogato così. Visto che come al solito non avevo studiato, appena rientrati in classe iniziai a raccontare di come qualche giorno prima, mentre mi trovavo dai miei zii in Francia, avevo pescato un piccolo pesce con dei puntini rossi lungo i fianchi: una trota.Doveva essere la seconda media, e da quel giorno tutti gli amici mi chiamano così. Da allora, per tutti, io sono TROTA GS: Ci sono stati dei writer in particolare che ti hanno ispirato? Parlo sia in riferimento alla scena romana, ma anche a quella americana. T: A Roma ci sono due writers che mi sono sempre piaciuti più di altri, e parlo di STAND e PANE, ma non mi hanno ispirato, anche se mi sarebbe piaciuto.In giro per il mondo ce ne sono stati tanti di writers che mi hanno colpito, su tutti ricordo SICK e MELLIE oltre ai tanti della scena di New York. Ho però un solo mito: DONDIGS: Cosa ne pensi dell’attuale scena romana di graffiti? T: Internet ha appiattito tutto e, purtroppo, la bella e particolare scena romana di una volta non c’è più. Così come manca il rispetto, sia sui muri che sui treni. Ormai le nuove generazioni, in larga parte, fanno le cose tanto per farle, senza capire bene di cosa realmente si tratti.GS: Come è cambiato, a tuo modo di vedere, il mondo del writing a Roma e, più in generale, nel mondo? T: C’è una generale regressione dello stile, si sta tornando alle origini di New York, al paleolitico del writing. Insomma, stiamo vivendo i veri graffiti! (ride, ndr). GS: A proposito di tempo che scorre inesorabile, parlaci del tuo libro Roma Subway Art, capace di raccontare 30 anni di graffiti nella Città Eterna. T: ROMA SUBWAY ART è un progetto nato dall’idea di Lorenzo, a cui avevo dato le mie foto affinché le scansionasse. Dopo una settimana che ci lavorava incessantemente, mi propose di fare un libro. E dopo oltre tre anni eccolo qui: Il libro. La metro.I graffiti.La storia.432 pagine, oltre 800 foto e 90 tra testi e interviste di alcuni dei writers più prolifici.GS: Questa è la prima volta che ti cimenti con un libro? T: Sì, questo è il mio primo libro. Già verso la fine degli anni ’90, insieme a DALE, avevamo dato vita a MACCARONI, che fu la prima fanzine di writing romano e della quale uscirono quattro numeri. Poi alzammo il tiro e a noi si aggiunse VELA, con il quale facemmo il primo video di writing in Italia, si chiamava STARTRASH. Chissà cos’altro mi riserverà la vita. Sicuramente per me questo libro è un punto di arrivo, un gesto d’amore verso il mio mondo, i miei amici, i nemici, la mia vita. GS: Quali sono state le maggiori difficoltà che hai incontrato nel realizzarlo? T: La parte più difficile, inizialmente, è stata quella di convincere le persone a partecipare, a scrivere un testo e a darci delle belle foto. Dopo un po’ che la voce ha iniziato a girare, devo dire che anche i più restii hanno voluto far parte del progetto. GS: Con quali criteri tu e Lorenzo avete selezionato le foto e i tantissimi writer che hanno preso parte alla realizzazione del libro? T: Il criterio è uno ed è molto semplice: se sei stato parte di questa storia, stai nel libro!A livello di testi, volevamo che tutte le crew importanti fossero rappresentate il più possibile, e credo che ci siamo riusciti. GS: Nel libro c’è una foto o un testo che più di ogni altro ti ha emozionato? T: L’emozione più grande l’ho avuta dai vari complimenti che mi sono arrivati dalle persone che hanno partecipato al progetto. GS: Perché era importante oggi, nel 2020, realizzare un libro sui graffiti? T: Non era tanto importante farlo uscire nel 2020, ma era fondamentale che Roma avesse un libro che raccontasse la storia del writing prima che se ne annebbiasse il ricordo. Alcuni writer sono morti, altri sono spariti nel nulla, altri ancora hanno ricordi vaghi. Mettiamoci anche che i vari traslochi hanno fatto sì che tante foto siano andate perse. Io e Lorenzo abbiamo scritto un libro di storia dell’arte di un qualcosa che, pur essendo effimero, è destinato a rimanere, custodito nelle librerie vicino a libri come SPRAYCAN ART e SUBWAY ART. GS: Vorrei parlare con te di street art. Per te, cos’è la street art? T: La street art è la necessità di artisti comuni di farsi pubblicità per poter poi vendere le loro piccole opere nelle gallerie. GS: Il writing può essere definito street art? Quali sono le differenze, se ci sono? T: Il writing fa parte della street art perché, nell’accezione del termine, è fatto per strada e ad alcuni cittadini piacciono i graffiti. Ma la verità è che il writing è una cultura, la street art, o come diavolo la si voglia chiamare, no. E, a mio personale modo di vedere la cosa, non lo sarà mai.GS: Street art vs. Urban Art. Illegale contro legale. Tu che opinione ti sei fatto? E i graffiti che ruolo hanno in tutto questo? T: Io credo che ognuno debba fare ciò che vuole e, soprattutto, ciò che lo fa stare bene. Quindi non importa che sia legale o illegale, l’importante è essere liberi di esprimersi ed essere felici del risultato. GS: Cosa pensi in generale del mercato dell’arte? Mi spiego meglio: sempre più spesso gli street artist, ma anche molti writer, trovano mercato tramite le gallerie che, ormai da diversi anni, hanno messo gli occhi sull’arte di strada. Tu cosa pensi al riguardo? T: È normale che il mercato dell’arte guardi alla street art poiché, come ti ho detto prima, è arte comune, che piace più o meno a tutti. La cosa interessante è la ricerca (da parte di pochi) di pezzi di writing, dove il collezionista è intenzionato a comprare la cultura e il mondo che c’è dietro a quei segni. Quando c’è una richiesta, c’è sempre anche un’offerta e dunque sì, sono a favore della mercificazione del writing anche se trovo che molti, troppi, si svendano.GS: Quanto resta oggi dello “spirito originario” del writing? T: Cosa rimane oggi? Come dice Frah Quintale in una sua canzone, solo “15 secondi di gloria su Insta”! GS: Roma, ad oggi, può ancora essere considerata come uno dei luoghi di culto italiani del writing? T: Non Roma. Il vero luogo di culto del writing mondiale, è la metro di Roma.Dove da 30 anni almeno un graffito al giorno ha sempre girato su una delle varie linee. GS: Personalmente cosa ti dà maggiore soddisfazione? Dipingere un muro o un treno? T: Dipingere treni è un’emozione unica. L’adrenalina è indescrivibile e l’idea che il mio pezzo si fermasse davanti agli occhi di qualcuno che non poteva far altro che ammirarlo, mi faceva sentire invincibile. Poi, però, gli anni passano, gli acciacchi aumentano e capisci che devi accontentarti di scrivere il tuo nome sui muri perché non sei più un ragazzino. GS: Che rapporto hai con i social network? Pensi che i social abbiano cambiato il modo di percepire e fare graffiti? T: Come dicevo prima, le nuove generazioni vivono di istanti (e distanti) sui social. Io preferisco ancora la carta stampata, una foto cartacea o ancora meglio un libro, nonostante, per lavoro, io stesso abbia dovuto mettermi al passo coi tempi.GS: C’è qualche cosa che vorresti raccontarci ma che nessuno ha mai osato chiederti? T: Vorrei tanto raccontarti il mio giro del mondo. Ma sarebbe una storia troppo lunga. GS: Hai un sogno nel cassetto? T: Li ho realizzati tutti.GS: Hai un messaggio per i lettori di Three Faces? T: Non so se il writing sia arte o vandalismo, però, che vi piaccia o meno, una scritta su un muro non ha mai fatto del male a nessuno. Grazie Mathieu e a presto Foto tratte da Roma Subway Art photos di Lorenzo D’Ambra / Foto graffiti di Mathieu Romeo aka TROTA... Read more...Labirinti notturni, di C. Durden || THREEvial Pursuit16 Dicembre 2020Labirinti notturni di Corto Durden Labirinti Notturni La scorsa notte stavo leggendo il libro che ho ordinato da Amazon, L’invenzione di Morel di Bioy Casares. Leggo sempre a letto prima di dormire, perché trovo che la calma della notte favorisca l’immersione nelle atmosfere di un racconto; il viaggio nei luoghi e nei tempi di una storia, inoltre, ha l’effetto di abbassare le mie difese e mi prepara ad arrendermi al sonno. Mentre leggevo Casares ed ero preso dai tentativi del protagonista di suscitare una reazione nella donna che guarda impassibile il tramonto dalla scogliera, curioso di scoprire come mai quella non gli prestasse la minima attenzione, sono passato da una pagina all’altra – senza voltarle, erano due pagine adiacenti – e mi sono accorto che l’inizio della seconda non aveva nulla a che fare con la fine della prima. C’era una rottura del flow in atto, il senso della frase che avevo iniziato non proseguiva affatto nel foglio successivo. “Che diavolo sta succedendo?” Ho cercato la risposta laddove ci si reca subito in questi casi, e cioè nei numeri delle pagine, e lì ho visto confermati i miei timori: da pagina 32 si passava direttamente a pagina 81. “Ma che cazzo”, mi son detto. Ho sfogliato il libro controllando la disposizione delle altre pagine, per scoprire che da quel punto in poi era semplicemente un casino: alcune stampate più volte, e altre totalmente mancanti (come le pagine da 33 a 80, chiaramente). Mi sono arreso. “Per stanotte è andata così”, ho pensato. “Domani contatto il servizio clienti, ora non resta che dormire”. Ho spento la luce, ma ero incazzato nero. Ci tenevo a leggere questo libro, l’ho ordinato perché mi incuriosiva parecchio e mi stava anche piacendo. Volevo proseguire l’esplorazione di quella cazzo di isola surreale su cui si trova il protagonista, e invece no. Te l’abbiamo stampato coi piedi, ah! Prendila in culo. Grazie. Non è nemmeno la prima volta che mi succede una cosa del genere. Un paio d’anni fa ho preso L’autunno del patriarca di Marquez in prestito dalla biblioteca comunale. Qualche notte dopo, mentre sono più o meno a metà del romanzo, assorto e bello comodo nel mio letto, volto pagina – stavolta la sorpresa attendeva che fossi io ad andarle incontro, come nei film horror – e trovo qualcosa che mi lascia di stucco: un mucchio di peli neri (pubici, temo) incastrati nella piega del libro, al centro fra le due pagine. Li guardo inorridito per qualche secondo, chiudo il libro, lo poggio per terra, vado a lavarmi le mani, dormo, il giorno dopo lo riconsegno alla biblioteca così com’è senza dire nulla. Ecco, magari è stato il karma: avrei dovuto interrompere quel sadico scherzo perpetrato dallo stronzo che aveva messo i peli nel libro, perlomeno avvisando le bibliotecarie mentre lo riconsegnavo (non so perché non lo feci, forse per imbarazzo, forse perché sono uno stronzo anch’io). O magari si tratta di una sorta di maledizione che mi colpisce quando leggo gli autori sudamericani del realismo magico, chi lo sa. Non c’era nulla di magico però in quei peli. Ad ogni modo, la scorsa notte non sono riuscito a prendere sonno come speravo. Sarà stato perché ho interrotto la lettura prima che le mie palpebre iniziassero a calare, sarà stato il nervosismo per la sfiga di aver beccato il libro rotto tra tutte le copie che potevano capitarmi, fatto sta che ero ben sveglio e mi sono ritrovato in balìa dei miei pensieri. Pensieri che si sono presto annodati in una spirale di negatività e riflessioni paranoiche. È qualcosa che mi succede alle volte nelle notti in cui non riesco a dormire, più o meno da sempre. Per fortuna da qualche tempo il sonno mi cattura quasi subito non appena chiudo gli occhi, ma se la mente è ancora arzilla quando spengo la luce, beh, la paranoia è dietro l’angolo. Sarà capitato a tutti almeno una volta nella vita, basta un attimo: seguendo il filo dei tuoi ragionamenti potresti intraprendere una direzione pericolosa e ritrovarti nel posto sbagliato, in un labirinto nero dalle pareti opprimenti, un groviglio di sentieri bui da cui non si riesce a venir fuori. È la notte stessa a farsi opprimente, seppure immobile, e il soffitto è più basso, come se venisse a cercarti. Dopo un po’ inizia anche a salire la temperatura, nonostante sia pieno inverno. Fa caldo per effetto dei tuoi movimenti continui, della nervosa ricerca di un riparo dai fantasmi nella tua testa. Le coperte diventano solo un peso, tu sudi, le scosti, ma passano i minuti e fa di nuovo freddo – sai com’è, è pieno inverno. Ti attivi sempre di più per cercare sollievo e il sonno continua ad allontanarsi. Ecco, è questo il tipo di trappola in cui mi sono incastrato la scorsa notte. Beh, ma pensa ad altro, potrebbe dirmi chi è abituato a dormire senza problemi. Eh, fosse facile. In nottate simili le tue angosce ti inseguono, ti si attaccano addosso e stringono la presa. Trovo anche inutile rivelare i motivi ricorrenti delle mie paranoie, perché non ci sono veri e propri motivi ricorrenti: l’ansia molto spesso se ne frega delle ragioni che l’hanno scatenata. Una volta innescata si nutre di tutto ciò che trova, e ci sono stati casi in cui ho finito per dimenticare come mai fossi ansioso. (Il casus belli, si sa, è solo un pretesto: la guerra si espande e si autoalimenta per amore della devastazione). Allora mi dico qualcosa per calmarmi: “pff, tra poche ore tutti questi pensieri non conteranno nulla. Ti sveglierai e sarà un altro giorno, come sempre”. Ci vuole un po’ di tempo perché questo mantra attecchisca, me lo ripeto. “Tanto alla fine ti addormenti sempre, sia pure per poche ore, ma il tuo cervello si arrende perché ne ha bisogno”. Aspetto. Guardo la mia compagna che dorme accanto a me – lei sì e alla grande – beata lei. Siamo vicini e su due pianeti diversi allo stesso momento. Mi piace guardarla nel buio, ma devo chiudere gli occhi. Mi rilasso, ci siamo quasi. “Domani è un altro giorno”. Sento i piani del mio pensiero slittare una prima volta, scivolano, la mia mente si è inclinata verso l’oblio. Ci siamo. Stamattina mi sono svegliato ed era un altro giorno, come sempre. Il sole riempiva la stanza dove avrei lavorato in smart working – un sole freddo e infiacchito dalle nuvole, ma pur sempre il sole. Notti così possono portarsi dietro degli strascichi durante la mattinata ma il fatto di averle superate – di aver dormito nonostante ti sentissi condannato a restare sveglio e in compagnia delle tue paure – dà come uno sprint iniziale alla giornata, ti fa partire più carico. È un periodo del cazzo, che ci fa sentire tutti fragili e in bilico. Lo stress sta mettendo a dura prova tantissima gente in tutto il mondo, e mi chiedo dove stiano trovando la forza di non impazzire le persone più indifese e che hanno meno strumenti per resistere alla pressione. Passerà ‘a nuttata? Saremo di nuovo carichi alla vista del sole che riempie le nostre stanze? Boh. Io per ora sto facendo il massimo, come tutti, per pensare positivo. Per conservare la fiducia nel fatto che sì, la notte è passeggera, e le paure che la abitano non trovano posto nel giorno che segue. “Non guardare dentro l’abisso”, mi dico. “Lo sai, quello poi guarda dentro di te e sono cazzi”. Ok, siamo d’accordo. Ma io che cazzo leggo stanotte?... Read more...Sentieri Leggendari, un articolo di R. Dell’Ali || THREEvial Pursuit9 Dicembre 2020Sentieri Leggendari Un libro per viaggiare altrove di Roberta Dell’Ali Copertina di Sentieri leggendari – L’arte di camminare fra storia, avventura e paesaggio, a cura di C. Honan, R. Klaten e A. Kouznetsova. A voi cosa manca dell’ante-Covid? A me viaggiare, mi manca un botto ed è per questo che oggi cedo la parola a luoghi magici e cammini lontani, raccontati in un bellissimo volume: Sentieri leggendari – L’arte di camminare fra storia, avventura e paesaggio, edito da Rizzoli, a cura di C. Honan, R. Klaten e A. Kouznetsova. Un libro prezioso, che due amici che non abbraccio da mesi e mesi e mesi mi hanno regalato tempo addietro. La dedica recita: Perché tra tutte le arti quella di camminare è quella che ti rende più libera In questo tempo sospeso che stiamo vivendo, le pagine di questo volume sanno portar lontano e, a volte, sembra persino di sentire i piedi affondare nella terra brulla dell’altrove, di cui il buon Calvino seppe dare la miglior definizione di sempre: Uno specchio in negativo Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà Facciamo un salto nell’altrove dei miei sogni quindi, vi va? Il circuito del Toubkal: montagne alte, villaggi berberi e boschetti di ginepro Vetta della Jbel Toubkal, Marocco, uno dei Sentieri leggendari Il circuito del Toubkal è un cammino semi-ostico che si srotola per circa settanta chilometri tra le montagne dell’Alto Atlante, la catena montuosa che attraversa diagonalmente il Marocco (dall’Atlantico a ovest all’Algeria a est). I nativi della regione chiamano le cime dell’Alto Atlante Idraren Draren, “montagne delle montagne”. Il circuito di Toubkal inizia e finisce nel pittoresco villaggio di Imlil e pare essere uno dei migliori trekking del continente africano. Un percorso che si sviluppa tra sentieri che sono stati battuti per millenni dai locali; luoghi dove si avvera una mescolanza strabiliante di valichi nascosti, vallate che sembrano oasi, vette innevate e creste panoramiche. Le vallate si succedono lungo il cammino, tutte diverse: alcune rigogliose e coltivate, altre sterili e spezzate dal vento. Bramo di percorrere i sentieri del Toubkal, di perdermici dentro (solo spiritualmente, questo è ovvio) e di imbattermi nel color smeraldo splendente del lago Ifni, appena a ovest del villaggio di Amsouzert. E poi, i berberi delle montagne: case fatte di mattoni di fango che sbucano dai fianchi pendenti delle montagne alte, le tajine, il tè alla menta e la tradizione berbera, preservata dal favore dell’aridità e delle fortificazioni. Il Wadi Rum: “Vasto, echeggiante e simile a una divinità” Il sentiero leggendario del Wadi Rum, GIordania, (Photo by Andrea Biagioni) Così T.E. Lawrence definì il Wadi Rum: “vasto, echeggiante e simile a una divinità”. Parliamo di un ghirigori profondo nella Giordania meridionale, scavato nei millenni da un corso fluviale. La chiamano anche ‘Valle della Luna’: un susseguirsi elegante e maestoso di vallate che scendono fino all’Arabia Saudita, un lungo intreccio di gole, archi, pilastri e sabbie color cremisi. Il Wadi Rum è molto simile a Marte, il pianeta rosso, solo con qualche forma di vita a noi nota che scorrazza qua e là: cammelli, qualche uccello. Stambecchi e capre di montagna. La notte, poi, si fanno avanti gatti delle sabbie e volpi del deserto. Ma vi immaginate che cosa indecente deve essere osservare l’intorno stando sulla cima del Jebel Um Adaami? Lì, sulla vetta più alta della Giordania, a 1839 metri sul livello del mare, immersa in una distesa di roccia infuocata. Dicono che il cielo del Wadi Rum sia impareggiabile: di notte, quando si raggruma di nero e le stelle lo tagliano con scie nette e limose; ma anche all’alba o nel tardo pomeriggio quando i raggi del sole infuocato creano sulla roccia un caleidoscopio rosso e arancione che dà senso alle parole del vecchio Lawrence, che il Wadi Rum lo conosceva bene. Quando tutto questo sarà finito io andrò in questi posti. Voi, invece, dove volete andare?... Read more...Voglia di droplets, un articolo di B. Bendinelli || THREEvial Pursuit2 Dicembre 2020Voglia di droplets di Benedetta Bendinelli In Peaky Blinders non rispettano la distanza di sicurezza Non so più cosa dire, scrivere o pensare riguardo questo Covid. Non so più cosa pensare di tutti noi, zitti e fermi nell’attesa che il nuovo anno cambi rotta – come se esistesse davvero un calendario con gli impegni del destino – mentre i colletti bianchi giocano a strega comanda colore. L’intrattenimento crudele della pandemia ha monopolizzato la sofferenza, la frustrazione, la noia e la solitudine, lasciando tutto il resto – i nostri soliti e piagnucolosi dolori da giovani Werther – in secondo piano: tutto fermo in un cassetto polveroso dove non ci sono sogni ma deboli realtà (semi cit.). Come questo pezzo che sto cercando di scrivere, e che vorrei fosse sano, privo dei sintomi di una malattia epocale, libero; e invece no, anche la scrittura è stata infettata dalla peste fredda: non la vediamo ma lei vede noi, ovunque siamo ci segue e ci rompe i coglioni; in silenzio sì, ma ce li spacca. Proprio l’altra sera, mentre cercavo di non pensare al Covid, ecco che mi trovo inaspettatamente a pensare al Covid. Stavo guardando un film e all’improvviso – dopo essermi chiesta per l’ennesima volta come mai gli attori non indossano le mascherine, per poi rendermi conto che la mia mente è già stata riprogrammata con i plug-in Covid – mi domando: cosa ne sarà degli sputi sul set? Gli attori saranno ancora a loro agio quando nel copione della sceneggiatura leggeranno: interno, casaMartin sputa in faccia a Henry più volte e poi esce di scena sbattendo la porta. Sebbene sia oramai un fatto certo che salteranno fuori vaccini e centinaia di altri metodi precauzionali per raggirare la malattia, bisogna sempre tenere a mente che sputare oggi non è soltanto un gesto spregevole e disgustoso, ma è anche la primaria azione veicolante del virus. Vi ricordate quando da piccoli leccavamo la merenda per non farcela fregare dal compagno di banco? Bene, pensate che d’ora in poi il principio di quella tattica primordiale sarà una regola fissa, che lo vogliamo o no saremo per sempre spaventati dalla saliva altrui. Quindi mi chiedo nuovamente: con che coraggio gli attori si faranno sputare in faccia? Se tutto va bene il 2021 sarà un anno salvifico e come per magia torneremo tutti a fare la vita di un tempo, ci abbracceremo, ci baceremo, scoperemo e torneremo anche a offenderci a colpi di sputi. Se tutto va bene non ci penseremo più. Se tutto va male arriverà un momento in cui faremo comunque ciò che ho elencato di sopra, ma probabilmente non assisteremo più a quegli intensi e patiti dialoghi tra le star di Hollywood che tanto ci garbano ed emozionano. Volendomi preparare al peggio – immaginando un mondo triste dove i dialoghi arrabbiati e sudati avranno bisogno di effetti speciali per ricreare i droplets – ho selezionato una classifica delle migliori scene di film o serie televisive dove partono sputacchi come piogge di stelle, alcuni dei momenti più memorabili della storia del cinema dove non ci sono regole di distanziamento e la saliva ha tutto un altro sapore. 10. L’allenatore nel pallone Un classico della commedia italiana anni ’80 dove schiaffoni, calci in culo e palpate erano archetipi estetici di un’epoca leggera in via d’estinzione (per fortuna, direi). Lino Banfi recita la parte di Oronzo Canà, un allenatore pugliese di serie B con grandi ambizioni calcistiche. Presto detto: in visita a Rio De Janeiro alla ricerca di un fuoriclasse per la sua squadra, Oronzo finisce in sala operatoria per un’appendicite. In una breve scena in coppia con Andrea Roncato, Lino nazionale prova a sputarsi in faccia da solo – soltanto dopo aver colpito anche il collega – in un gesto di auto umiliazione a seguito della sfortunata visita in Brasile. Grazie Lino, ma ‘sta roba non ci mancherà. Oronzo Canà (Lino Banfi) sputa in faccia ad Andrea Bergonzoni (Roncato). E poi sputa in faccia a sé stesso. 9. Il Petroliere Senza dubbio uno dei film più belli di Paul Thomas Anderson che in ognuna delle sue pellicole si preoccupa di fornire la giusta quantità di lacrime (Magnolia), sperma (Boogie Nights) e alcool (The Master). Nel lungometraggio che ho selezionato per questa classifica troviamo una delle scene più intense della cinematografia hollywoodiana, un dialogo ricco di pathos, dramma e senza dubbio saliva. Nel finale del film uno straordinario Daniel Day-Lewis si scaglia contro il collega in scena (il cucciolotto Paul Dano) e lo massacra di rabbia e parole, con una furia violenta che terminerà in un bagno di sangue, e non solo. Plainview (Daniel Day-Lewis) riempie di droplets il povero Sunday (Paul Dano) 8. Fight Club Memorabile per centinaia di ragioni: le botte prima di tutto, il fisico di Brad Pitt, le saponette; ma anche per la dura critica al sistema consumistico e a una società superficiale e materialista. Ma dove sono gli sputi? Durante la fase di reclutamento dei membri del fight club, Edward Norton si occupa di selezionare gli uomini del gruppo i quali, per avere accesso alla squadra, dovranno passare un lungo test d’ammissione che consiste semplicemente nell’attesa. Sul porticato della casa fatiscente di Tyler Durden & Co. volano sputacchi a distanze ravvicinate, in un contesto che ricorda un po’ Full Metal Jacket e soldato Palla di lardo. Già, adesso che ci penso… Il test d”ammissione al fight club di Edward Norton e Brad Pitt 7. L’odio – La Haine Qua urlano tutti e in faccia: più che sputi, volano pistole.Vinz, Hubert e Saïd si ritrovano in un bagno pubblico a farneticare di vendetta e porci d’ammazzare quando all’improvviso salta fuori un ometto canuto che li zittisce raccontandogli un vecchio aneddoto. Questo è un momento importante nella trama del film, non soltanto per l’intensità dei dialoghi ma anche per i loro contenuti. Il mio consiglio è quello di vedere il film oppure cercare su YouTube L’Odio ~ La predica di Grumvalski, dove proprio in questa scena convivono dense salivazioni e insegnamenti di vita. Un Vinz Cassel in vena di droplets ne L’odio 6. Friends, dall’episodio The One with Monica and Chandler’s Wedding (Part I) Niente di speciale in questo sketch se non la presenza edenica di Gary Oldman (per me, e per sempre, l’unico grande Dracula). È bello pensare che una volta attori del suo calibro trovavano il tempo per farsi sputare in faccia da dilettanti allo sbaraglio come Matt Le Blanc. In uno degli ultimi episodi della serie tv più famosa al mondo, Joey riesce ad avere una parte in un film di guerra e nella scena del confronto con un suo superiore entrambi gli attori enfatizzano la pronuncia delle parole con la P fino a spruzzare dalla bocca come fontane. Nulla di che, ma tanta saliva. Gary Oldman in Friends. Sì, è successo veramente ed è stato bellissimo. Pioggia di droplets a parte. 5. Kill Bill Vol.II Qua le cose si mettono male. Quentin Tarantino è noto per non risparmiare mai i suoi attori sul set. La sua filosofia è un po’ della serie “se devono rompersi una gamba, che se la rompano”. Ultimamente è stato criticato anche per l’eccessivo zelo adoperato durante le riprese di Kill Bill Vol.II nella scena di guida pericolosa di Uma Thurman. La macchina era vecchia e a quanto pare in pessimo stato, inoltre non venne utilizzata una controfigura e l’attrice fu obbligata a guidare ad alta velocità fino poi a scontrarsi (per davvero) con una palma. Con questi presupposti è ben chiaro che con Tarantino, quando si parla di sputi, non ci sono trucchi di scena. Beatrix viene messa a tappeto da Budd e il regista chiede a Michael Madsen di sputarle in faccia una miscela che somiglia a un mix di tabacco, whisky e fango. Voci di corridoio sostengono che Madsen da vero gentiluomo si sia rifiutato e così il buon vecchio Quentin si è trovato costretto a produrre personalmente l’orrendo fiotto melmoso.Uno degli sputacchi più brutti mai visti, vedere per credere. Lo sputazzo di Budd (Michael Madsen) prepara un mega-droplets per Beatrix (Uma Thurman) – che poi era di Tarantino. 4. Revolutionary Road Prima o poi a Di Caprio gli scoppia un embolo.Molte delle sue parti prevedono scene di incontrollabile rabbia, arricchite da indomabili vene gonfie che gli squarciano il collo e la testa. Potrei elencarne decine e decine, partendo da Buon Compleanno Mr.Grape fino agli anni maturi de Il Grande Gatsby, ma il mio “momento saliva” preferito si trova in un bellissimo e intenso scontro tra Leo e Kate Winslet in Revolutionary Road. A un certo punto urlano tutti, lei un po’ di più, e per questo motivo la prossima volta stileremo una classifica delle migliori grida sul set.Non è vero. L’evidente embolo di Leonardo Di Caprio in Revolutionary Road 3. Full Metal Jacket Non c’è bisogno di introduzione. Ha preso più schizzi soldato Palla di lardo che uno scoglio al molo di Viareggio. Semplicemente il droplets del sergente Hartman (Ronald Lee Ermey) per il soldato Lawrence (Vincent D’Onofrio). Che altro dovremmo dire? 2. Marriage Story Al secondo posto voglio celebrare una performance ingiustamente sottovalutata nel carosello dei premi hollywoodiani. Scarlett Johansson e Adam Driver nell’ultima pellicola di Baumbach, ci regalano un alto momento di recitazione nella cliccatissima scena del litigio. Il film è uscito nel 2019, e soltanto un anno dopo il mondo delle star – e di noi altri comuni mortali – si è ritrovato in un dramma degno dei più architettonici film di fantascienza. Scarlett e Adam ancora non lo sapevano, ma quella sarebbe stata una delle ultime scene in cui gli attori potevano affrontarsi con così tanta libertà fisica. La colonia di droplets nella bocca di Adam Driver 1. Peaky Blinders nell’episodio 6 della terza stagione Tommy Shelby e Alfie Solomons, interpretati da Cillian Murphy e Tom Hardy, sono probabilmente la rappresentazione più azzeccata, in una serie televisiva, dell’eroe negativo e il suo rivale in affari. Il loro rapporto di rispetto e odio è perfettamente narrato in una scrittura ricca e incalzante, degna delle più grandi opere cinematografiche. Ma oltre a brillare per regia e sceneggiatura, Peaky Blinders è il maggior portatore sano (boh) di saliva sul set.In questa scena da pelle d’oca si perde il conto dei droplets, ed è subito virus. Bene, cosa ci ha insegnato questa riflessione sugli sputi? Probabilmente niente. Oppure ci ha insegnato qualcosa di molto importante, a non dare nulla per scontato, a non sottovalutare l’importanza dei dettagli, perché sono proprio i dettagli i primi a sacrificarsi quando esplode una bomba come questa, che ci è scoppiata tra le mani senza preavviso e senza timer. Quindi amici, mi auguro di tornare presto agli abbracci e alle carezze, ma soprattutto auguro a tutti noi un mondo libero, dove finalmente potremo ricominciare a sputarsi in faccia.... Read more...QuaranThreevial Off: Lockdown 2.0. Un articolo di A. Di Raimondo25 Novembre 2020QuaranThreevial Off: Lockdown 2.0 La solitudine di chi rimane di Anna Di Raimondo Lockdown di Bladi Tra i film che mi fanno piangere come una fontana, c’è Air Bud, una storia d’amicizia tra il piccolo Josh, un giocatore di basket alle prime armi, e Bud, un cane che – incredibile ma vero – sa giocare a basket. Tutto molto tenero. Ma c’è un intoppo: Bud appartiene a Norman, un clown cattivo e particolarmente inquietante che vedendo le prodezze di Bud in tv, decide di riprenderselo per farci una marea di soldi. Il momento che mi fa versare litri di lacrime è quello in cui Josh decide di abbandonare Bud nel mezzo del nulla per evitare che finisca nelle grinfie del clown. Nella scena, Josh cerca in tutto modi di allontanare Bud: gli dà un budino per distrarlo (Bud è un eccezionale estimatore di budini), gli dice che non lo sopporta più, gli urla di andarsene, ma Bud rimane lì scodinzolante e con la lingua di fuori. Alla fine, l’unico modo è quello di fingere di voler giocare a basket. Così Josh gli lancia il pallone e, mentre il cane gli corre dietro, scappa via. Una scena straziante, ve lo garantisco. Per un motivo o per un altro, tutti i miei cinque coinquilini sono tornati dalle loro famiglie lasciandomi sola a Milano. Il giorno in cui una di loro se n’è andata mi ha ricordato moltissimo la scena di Air Bud. La conversazione è andata più o meno così: Io: «Quando torni?»Coinquilina: «Non lo so, devo ancora organizzarmi».Io: «Ma torni?»Coinquilina: «Certo che torno».Io: «Non è vero. Chiuderanno tutto e io rimarrò qua da sola».Coinquilina: «Ma smettila…»Io: «Anche a marzo dovevi stare via qualche giorno e non sei più potuta tornare. Resta!»Coinquilina: «Non posso! Devo farmi pesare dal dietologo».Io: «Ti peso io».Coinquilina: «Senti, ti ho lasciato uno yogurt e una ricottina in frigo!»Io: «Non mi compri con uno yogurt e una ricottina!»Coinquilina: «Ma scadono…»Io: «Non mi interessa!» Alla fine, mi sono addormentata verso le tre per un pisolino e quando mi sono svegliata c’era un biglietto sul tavolo che diceva: A presto! Promesso.P.S. Non buttare lo yogurt e la ricottina Ho così capito cosa ha provato Bud quando, tornando indietro con il pallone, non ha trovato nessuno. Giorno dopo giorno, ho osservato rassegnata i miei coinquilini andarsene. E adesso eccomi qui. A Milano, in smart working e senza amici. Un commento a caldo? Le prime 48 ore sono filate lisce come l’olio. Ho mangiato senza dover lavare subito i piatti, ho occupato il posto a tavola che più mi piaceva, ho messo la musica a tutto volume e ho guardato in tv quello che volevo, senza dovermi sorbire una partita di calcio o un documentario di tre ore su qualche omicidio ancora irrisolto. Poi ho iniziato a cedere. Dopo due giorni trascorsi a non fare nulla, domenica pomeriggio – sdraiata a letto sotto il plaid, con il computer sulla pancia e un pacco di triangolini di mais vuoto – ho iniziato a desiderare che fosse lunedì per poter lavorare e vedere, anche se attraverso un computer, i miei colleghi. Di fronte a quel desiderio, così lontano dalla scansafatiche che sono sempre stata, ho capito che le settimane successive sarebbero state molto dure. Quando a febbraio il virus è arrivato in Italia, si è iniziato anche a parlare della possibilità di chiudere tutto, ma era un’idea così lontana dalla realtà alla quale eravamo abituati che quando è successo non sapevamo che sentimenti provare. Adesso sappiamo cosa si prova. Il mio lockdown, però, è stato diverso. Sono rimasta chiusa in casa tre mesi con il ragazzo che mi piaceva e a cui, si è scoperto poi, piacevo pure io. È stata una convivenza forzata e difficile. Quando si litiga, quando si sente il bisogno di stare soli non ci sono molti posti dove andare se non la propria camera da letto. Ma quelle quattro mura non bastano quando sai che dall’altra parte della porta c’è la sua stupida e irritante faccia. Avete presente i primi mesi di una relazione? Quando tutto è perfetto ed entrambi sembrate usciti dalla copertina di un giornale di moda? Sempre ben vestiti, capelli in ordine, truccati e profumati? Ecco, in lockdown non esiste: c’è il pigiama stropicciato, le calze bucate, il viso pieno di brufoli, i peli che crescono, i rutti dopo cena, il mal di pancia per aver mangiato troppo, le ascelle che puzzano e nessuna voglia di fare la doccia. Non è esattamente una favola, ma ti ci abitui. È come saltare uno step e arrivare direttamente a quella fase della relazione dove non ci si vergogna più di niente. E un po’ ti senti fortunato nell’aver trovato qualcuno che ti infastidisce facendo finta di avere un puntatore laser solo perché hai un brufolo rosso e gigante sulla fronte, ma che ti abbraccia e ti consola quando ne hai bisogno. E io ne ho avuto di bisogno. Il 19 marzo, Festa del Papà, ho scoperto che mio padre aveva un tumore al quarto stadio ai polmoni con metastasi cerebrali. Con una videochiamata mamma ci ha dato la notizia. Io e mia sorella piangevamo ma papà rideva, dicendo di non fare sceneggiate: scherzava sui capelli che aveva sempre avuto in disordine e che ora avrebbe perso. Diceva che sarebbe andato tutto bene. Il dottore era positivo: papà era giovane, 58 anni appena compiuti, era forte e vigoroso e poteva sopportare la chemio e la radio. In un anno, diceva, si sarebbe ripreso. È morto il 28 luglio, dopo cinque mesi di una malattia che lo ha distrutto fisicamente e mentalmente. Non riusciva più a camminare da solo, non parlava o scherzava più. Era depresso perché aveva dovuto lasciare la sua casa, non riuscendo più a sopportare i quattro piani di scale necessari per raggiungerla. Ma era anche stanco e soprattutto preoccupato. “Vi lascio in mezzo alle pene”, ha detto a mia madre il giorno prima di andarsene, come se sentisse l’arrivo della fine. Io sono riuscita a tornare a casa il 27 giugno, solo dopo essermi accertata con test sierologici e quarantene di non essere un pericolo per mio padre. Siamo stati insieme un mese. In quel mese abbiamo mangiato tanti gelati gusto fragola e limone.Io, mia madre e mia sorella abbiamo parlato pomeriggi interi del nulla.L’ho visto ridere, con difficoltà, grazie ai racconti indecenti di suo fratello.È tornato a essere un figlio che necessita delle cure di sua madre.E poi è finito tutto. Con la sua scomparsa sono cambiate tante cose. Nel mio cuore, ad esempio, in quell’angolo riservato a mio padre, adesso c’è vuoto enorme. Chi ha vissuto un lutto dice che lo riempirò di ricordi, ma che il dolore non passerà mai. E non vedo neanche io come possa passare. Quasi tre mesi dopo, provo una rabbia che non so verso chi indirizzare, uno stupore continuo nel constatare che non c’è più e un immenso amore per mio padre, per l’uomo che è stato. Fantasioso, brillante, dispensatore di consigli, curioso e soprattutto un gran lavoratore, un marito e un padre meraviglioso. La scoperta di un sentimento combinata con la preoccupazione e l’ansia per mio padre non mi hanno fatto rendere conto nulla: non ho sentito il peso dello stare chiusa in casa perché ero troppo occupata nel fare o nel pensare ad altro. Come interessarsi a quello che succede intorno a te quando tuo padre dice che non ce la fa più? Come tenere a debita distanza un’amica che ti vuole abbracciare al funerale di tuo padre? Ma adesso ci sono solo io. Ora posso concentrare l’attenzione su una situazione della quale prendo veramente atto solo ora. Inizio anche io a guardare il telegiornale, a leggere i bollettini giornalieri, ad aspettare le conferenze del Presidente Conte. Mi informo su scenari futuri, sui vaccini, leggo i post di conoscenti negazionisti su Facebook e sono tentata di commentare. Sono di nuovo tornata a far parte del mondo, dopo una pausa di nove mesi in cui del mondo non me ne fregava proprio niente. Mentre scrivo sono passati cinque giorni dalla partenza dei miei coinquilini. La solitudine che provo è strana. Mi sento sola in modi diversi. Mi sento sola perché la casa è vuota.Mi sento sola perché lui, quello che mi prende in giro per i brufoli, è tornato a casa.Mi sento sola perché mio padre non c’è più.Mi sento sola, ma butto giù questi pensieri.Mi sento sola, ma mi alzo e cerco di cucinare degli hamburger vegetariani con discreto successo.Mi sento sola, ma pulisco casa.Mi sento sola, ma indosso qualcosa di decente e vado a fare un giro. Chiudo la porta di casa, ma torno indietro dopo cinque passi. Ho dimenticato la mascherina. Perché la solitudine di chi rimane non ha fine, ma il mondo deve continuare a girare. E io con esso.... Read more...Islanda: isola di fuoco e ghiaccio (pt. 3), un articolo di G. Levantini || THREEvial Pursuit20 Novembre 2020Islanda: isola di fuoco e ghiaccio Reykjavík e l’Ovest di Gabriele Levantini Reykjavík (Islanda 2016) Lasciata la bella Akureyri, la Capitale del Nord, proseguiamo l’esplorazione dei fiordi settentrionali e muoviamo verso ovest. Superiamo il vecchio porto commerciale di Hofsós, dal quale partivano per l’America gli emigranti islandesi all’inizio del secolo scorso, e poi la chiesa di torba di Grafarkirkia, la più antica d’Islanda. Ovviamente ricostruita. Giungiamo a Hólar, sito storico dove un tempo sorgeva un’antichissima cattedrale di cui purtroppo non resta molto. Al suo posto sorge un luogo di culto relativamente moderno, con delle belle decorazioni lignee. Un’interessante anomalia è che le chiese islandesi, quasi tutte di confessione luterana, presentino spesso delle decorazioni tipicamente cattoliche.: testimonianze sopravvissute all’iconoclastia della Riforma, diversamente da quanto avvenuto negli altri paesi protestanti. Proseguiamo attraverso il villaggio di Varmahlíð, in mezzo a un’area rurale di campi e serre, vicino al quale si è conservata l’antica fattoria di torba di Glaumbær, e la vecchia chiesa di torba di Viðimýrarkirkja. Ci rechiamo in seguito nel villaggio di Blönduós, dove ci fermiamo a mangiare. È un paese piuttosto anonimo al cui centro campeggia una fotogenica chiesa moderna. In un locale decorato con foto di foche pucciose dai grandi occhioni neri che giocano sugli scogli, troviamo nel menù “bistecca di foca”. Un po’ increduli rileggiamo: “grilluð selsteik – grilled seal”: ok, è proprio “bistecca di foca”. Sappiamo che la foca comune non corre alcun rischio di estinzione e che viene cacciata e consumata in vari paesi, sebbene sia un piatto un po’ inconsueto. Tuttavia, le foto sul muro ci mettono un po’ a disagio. Il vecchio tabù culturale per cui certi animali sono carini e vanno rispettati, mentre altri si meritano di finire in forno inevitabilmente è radicato anche in noi. Alla fine però la nostra curiosità ha la meglio e cediamo: la fredda razionalità trionfa sulle emozioni. Mentre ordiniamo, ci sembra che gli occhioni che ci osservano diventino più tristi. Ci sentiamo in colpa, ma il piatto è buono. Un forte gusto di selvaggina, complesso e deciso, ma gradevole. Vicino al paese troviamo Þingeyrakirkja, la prima chiesa in pietra d’Islanda. Da qui proseguiamo per la località di Hvammstangi, da dove cerchiamo di avvistare le foche. Purtroppo, forse a causa di quello che avevamo appena fatto, non si sono fatte vedere da noi. Ci aspetta a questo punto una lunga strada fino a Borgarnes, villaggio alle porte del Parco Nazionale di Snæfellsnes e finalmente un po’ di meritato riposo all’hotel Rjúkandi. Il sole sorge presto e va a dormire molto tardi, un po’ come noi. Ormai rimangono solo due giorni e cominciamo a sentire il tempo stringerci addosso: vorremmo restare di più, vedere di più, continuare ad attraversare questi paesaggi inviolati, ma purtroppo non è possibile. Chiesa con suonatore di alphorn (Islanda, 2016) Cominciamo la giornata da Staðarstaður, piccolo insediamento disperso nel niente, ed entriamo nella Riserva Naturale di Búðahraun. A Snæfellsbær nei pressi di Búðir, un borgo stretto tra il mare e i campi di lava, troviamo una chiesetta di legno nero davvero cinematografica. Il tutto è reso ancor più surreale da un tizio, forse il prete, che suona un grande alphorn nel prato davanti al luogo di culto. Poco dopo, nei pressi di Arnarstapi, ci imbattiamo in una colossale statua di pietre sovrapposte che raffigura Bárður Snæfellsás, leggendaria figura mezzo uomo e mezzo troll che avrebbe vissuto da queste parti. Ci facciamo una passeggiata sulla scogliera di basalto colonnare e poi proseguiamo verso Hellnar. Ogni tanto in mezzo ai prati compare qualche fattoria o qualche chiesetta, come la malmessa Hellnakjrkia. Oltrepassiamo Laugarbrekka, luogo dove nacque Guðríðr Þorbjarnardóttir, la più grande esploratrice vichinga e la prima donna europea a far nascere un figlio in America, nell’odierno Canada, che allora si chiamava Vinland. Visitiamo la bella spiaggia di Djúpalónssandur e l’adiacente cala di Dritvík composta da ciottoli lavici perfettamente sferici. Difficile immaginare che questi luoghi desolati furono un tempo, non troppo lontano, la base di una grande flotta peschereccia e di un villaggio di pescatori. Più avanti ci aspetta un’altra spiaggia di sabbia dorata attraversata da mille rigoli d’acqua: Skarðsvík. Passiamo l’insediamento rurale di Hellissandur, con una piccola chiesa bianca dal tetto rosso davanti alla quale hanno posto due grandi rocce molto scenografiche, poi il villaggio costiero di Rif dove incontriamo un altro giardino di ossa di balena, e il piccolo porto di Ólafsvík sul quale svetta una pretenziosa chiesa moderna. Da qua si comincia a vedere l’indistinguibile sagoma piramidale del monte Kirkjufell, uno dei monumenti naturali più fotografati d’Islanda. Ci dirigiamo alle sue pendici, dove si trova la cascata Kirkjufellsfoss, per scattare una foto di rito da bravi turisti. La bellezza del luogo è indiscutibile, ma c’è un po’ troppo affollamento, così non ci fermiamo molto e attraversiamo il villaggio di Grundarfjörður per andare alla scogliera di Gerðuberg, che con le sue ordinate colonne di basalto cinge il fianco occidentale della valle di Hnappadalur. La chiesa di torba di Grafarkirkia (Islanda, 2016) Ritorniamo sulla costa e ci imbattiamo in un’altra chiesa moderna altrettanto pretenziosa della precedente, che guarda dall’alto il minuscolo borgo di pescatori di Stykkishólmur. Al nostro arrivo troviamo la bassa marea, che ci offre lo spettacolo delle barche in secca su un improbabile prato di alghe. La nostra giornata volge ormai al termine. Sorpassiamo l’antico insediamento di Borg á Mýrum, che ci lascia in testimonianza una solitaria chiesetta di campagna, e siamo di nuovo a Borgarnes. Purtroppo, qui abbiamo la pessima idea di visitare il Museo della Colonizzazione, che è in realtà un percorso didattico per bambini. Comunque, impariamo un sacco di cose sulle saghe islandesi grazie a pupazzetti di legno e diorami, e alla caffetteria proviamo la mysa, siero di latte acido che piaceva ai vichinghi. Anche questa volta tratteniamo a stento l’istinto di rigettare. Decidiamo di fare una mezza follia e allungare la strada e andare a mangiare a Reykjavík. Alla fine – pensiamo – grazie alla galleria di Hvalfjörðu, è solo un’altra ora di viaggio. Arriviamo invece distrutti, e non riusciamo a goderci la città quanto vorremmo, però capiamo subito come sia una città piena di vita, con una movida che non ci saremmo aspettati e che ci godremo il giorno seguente. Premiamo comunque la nostra determinazione mangiando in un ristorante di livello, il Sjavargrillid, specializzato in cucina new nordic. Anche qui proviamo un piatto insolito: il marangone, un uccello marino simile al cormorano dal sapore deciso. Il nostro cameriere è molto felice di incontrarci perché, ci racconta, il suo italiano –imparato durante la sua lunga permanenza a Roma – è un po’ arrugginito. L’ultimo giorno siamo davvero tristi di dover abbandonare questo paese che ci ha rapito il cuore. Siamo determinati a non sprecare neanche un momento e visitiamo ancora alcune cose nell’area del Cerchio d’Oro, dalla quale siamo partiti quasi due settimana fa. Visitiamo il villaggio Reykholt, dove si trova anche il famoso laghetto termale Snorralaug, e proseguiamo per la piccola ma potente cascata di Barnafoss, che significa Cascata dei Bambini, a causa della storia popolare che racconta di due bambini caduti nel fiume. Poco più a valle visitiamo la cascata di Hraunfossar, generata da acque termali che escono dal sottosuolo gettandosi nel vertiginoso canyon del fiume Hvítá. Poco dopo arriviamo a Húsafell, dove percorriamo un sentiero storico che incrocia, tra le varie cose, un ovile in pietre a secco dove Snorri, antico poeta islandese, ha rinchiuso diciotto fantasmi. La cascata di Hraunfossar (Islanda, 2016) Il nostro viaggio continua con la visita di Surtshellir, grotta lavica sul cui fondo abbiamo trovato il ghiaccio, e infine il villaggio di Akranes alle porte della capitale. Qua, con nostro sommo sbigottimento, vediamo persone fare il bagno sulla spiaggia di Langisandur, contrassegnata dalla bandiera blu. Scopriamo poi che in prossimità della spiaggia, un piccolo corso d’acqua termale mitiga leggermente la temperatura del mare, che comunque difficilmente supera gli undici gradi. Il resto della giornata è dedicato all’esplorazione e alla scoperta della capitale Reykjavík, unica vera e propria città in Islanda. Dopo tanto vagare per lande desolate, non ci dispiace entrare in un centro abitato con strade a più corsie e alti palazzi in cemento, sebbene anche qui – come nel resto del paese – la maggior parte delle case siano di lamiera d’acciaio colorata. L’unico museo islandese degno di questo titolo, perlomeno per gli standard italiani, si trova qui: il Þjóðminjasafn Íslands, il Museo Nazionale d’Islanda. Visitiamo quindi i monumenti della capitale, a partire dalla splendida Hallgrímskirkja, l’iconica chiesa in cemento alta oltre settanta metri che domina il centro cittadino da ogni angolazione. Poi le vivaci strade Laugavegur, Austurstraeti, Lækjargata e Skólavörðustígur che brulicano di gente e di negozi. Vanno per la maggiore quelli di abbigliamento tecnico, con eccellenti marche locali quali 66° North o Ice Wear che purtroppo non possiamo permetterci, ma anche quelli che vendono lopapeysa, gli splendidi maglioni tradizionali di lana islandese, o ancora – da bravi nordici – quelli di design. Ciò che accomuna tutti questi negozi è la presenza di animali impagliati, pelli, pellicce e corna, sia in esposizione che in vendita. Evidentemente qui vanno ancora di moda. Ci sorprende il persistente odore d’erba che si respira in prossimità di molti locali frequentati. Non è legale, ma molti islandesi sono soliti passare week end di shopping nel vicino e tollerante Canada, e forse non acquistano solo vestiti. Strada centrale a Reykjavík (Islanda, 2016) La vecchia Reykjavik si sviluppa tra edifici pittoreschi e giardini intorno al laghetto Tjörnin sul quale si riflette il Ráðhús Reykjavíkur, il bel municipio moderno. Poco lontano si trova la vecchia cattedrale luterana Dómkirkjan e, a dimostrazione del cosmopolitismo della città, quella cattolica di Dómkirkjan Krists Konungs, la Cattedrale di Cristo Re, dal gusto vagamente inglese. Il lungomare e l’area del porto lasciano senza parole: l’ampia e fumosa baia è dominata da Sólfar, il Viaggiatore del Sole, una scultura in acciaio che rappresenta una nave vichinga stilizzata, e dalle moderne forme di vetro dell’Harpa Concert Hall. Ci rendiamo conto però che la sua bellezza non è data tanto da essi, quanto dall’atmosfera che qui si respira. La sensazione di relax che dà il sapere di trovarsi ai confini del mondo. Tra i palazzi moderni coperti di graffiti che si alternano agli edifici del vecchio porto, ci fermiamo a mangiare un pylsur, un hot dog di pecora al famosissimo chiosco Bæjarins Beztu Pylsur, pretenzioso nome che significa “Il miglior hot dog della città”. E pensare che ci avevano detto che Reykjavík non meritava una visita: niente di più falso. Però ci rendiamo conto che la bellezza di questa città non è dovuta ai suoi scorci e monumenti, quanto all’atmosfera che si respira qui. La rilassante sensazione di trovarsi lontano da tutto, ai confini del mondo. Ormai il viaggio è finito, domani prenderemo l’aereo che ci riporterà in Italia. Avremo solo il tempo di fermarci lungo la strada a vedere – e vedere soltanto – la Blaa lónið, cioè la Laguna Blu, il più famoso impianto termale d’Islanda che si trova vicinissimo all’aeroporto. Non vogliamo che domani arrivi, e questo sole che non vuol tramontare sembra capirci. Ci piace la sensazione di trovarci sospesi, in bilico su un’isola di fuoco e ghiaccio, a un passo dal Polo nord, con la terra che ribolle sotto i nostri piedi. In un luogo in cui l’uomo è sempre ospite, e non ancora padrone. Casa con il tipico tetto in erbaCase di torbaChiesa moderna a BlönduósGiardino con ossa di balenaStatua dell’Uomo-troll ad ArnarstapiIl luogo dove Snorri ha rinchiuso i 18 fantasmiIl Viaggiatore del Sole a ReykjavíkPelli e pellicceMonumento alla disobbedienza civile a ReykjavíkLa scogliera di GerðubergPesce steso ad essiccareSpiaggia di DjúpalónssandurSpiaggia di SkarðsvíkUn cartello invita i turisti a non mangiare la carne di balenaSpiaggia bandiera blu di LangisandurHallgrímskirkja a ReykjavíkIl monte KirkjufellStreet art nell’area del porto di ReykjavíkStrada con pecore islandesi All photos by Gabriele Levantini (Islanda, 2016)... Read more...Islanda: isola di fuoco e ghiaccio (pt. 2), un articolo di G. Levantini || THREEvial Pursuit18 Novembre 2020Islanda: isola di fuoco e ghiaccio Il grande Nord di Gabriele Levantini Sole di mezzanotte ad Akureyri (Islanda, 2016) Sono giorni che percorriamo centinaia di chilometri, approfittando di un sole che sembra non voler tramontare mai, ma ci alziamo comunque di buon’ora, mangiamo le solite aringhe, lo skyr e il pane nero. Beviamo un caffè lungo, anzi lunghissimo, e partiamo. La bellezza di ciò che ci circonda è un potente integratore vitaminico che corrobora le nostre forze: appena fuori dall’albergo ci sentiamo subito rigenerati. Non amo guidare, ma in questi paesaggi così maestosi e solitari è diverso. La guida qui ha qualcosa di romantico ed epico, è per me una specie di conquista del Far West. Non mi pesa affatto, anzi. Iniziamo dall’entroterra di Egilsstaðir, con le belle cascate gemelle di Hengifoss e Litlanesfoss. La prima salta giù da una parete di roccia a strati di diversi colori, che si alternano geometricamente come in una maglietta marinara. La seconda invece si tuffa da un trampolino di mille colonne di basalto, che sembrano una foresta pietrificata. Superiamo la piccolissima chiesa di torba di Geirsstadir, ricostruzione di un’originale medievale posta all’interno di un’area rurale dove si allevano pecore, e ci dirigiamo a nord. La prima sosta è la penisola di Borgarfjarðarhöfn, santuario naturalistico nei pressi del villaggio di Bakkagerði sul fiordo Borgarfjörður eystri dove le pulcinelle di mare nidificano. Questo uccello, chiamato anche puffin, è a rischio di estinzione in buona parte del suo antico areale, che si estendeva fino alle coste scozzesi e irlandesi, ma è invece relativamente comune in Islanda, tanto che in alcune regioni viene cacciato ed è servito abitualmente nei ristoranti di tutto il paese. La sua carne è tra più buone che abbia mai assaggiato. La caccia a questo animale si faceva tradizionalmente usando dei lunghi retini per catturare gli uccelli quando si lanciano dalle scogliere, ma al giorno d’oggi i fucili hanno sostituito le reti. Dopo un po’ di pazienza, riusciamo finalmente a vedere questi animali marini così buffi, col loro grande becco da pappagallo e il corpo da gabbiano, e – per quanto siano appetitosi – devo ammettere che osservarli è decisamente più emozionante che mangiarli. Poco lontano dal fiordo, visitiamo Álfaborg, una sorprendente formazione geologica di rocce nere e affilate, che sembra un set cinematografico di un film fantasy più che un luogo reale. È la famosa Città degli Elfi, capitale del Popolo Nascosto. In tutto il paese, e specialmente nel nord, la fede islandese nell’esistenza di entità misteriose che vivono tra le rocce e negli sconfinati paesaggi artici è testimoniata dalla presenza in molti giardini di piccole casine, messe lì come segno d’amicizia per queste creature gentili. Purtroppo nonostante i nostri sforzi, forse a causa della nostra poca fede, noi invece non siamo riusciti a scorgere neppure un elfo. Caratteristiche casette degli elfi davanti a un palazzo (Islanda, 2016) Ripartiamo facendo nuovamente rotta verso sud, per visitare una serie di fiordi e di incantevoli paesini marinari, dove pescherecci color arancio fluorescente sfidano un mare minaccioso nel quale si riflettono montagne impervie dalle cime bianche. Prima tappa Fáskrúðsfjörður (chiamata anche Buðir), con le indicazioni stradali in doppia lingua a memoria dei tempi – non molto lontani – nei quali era una colonia di marinai francesi, che dall’adiacente porto di Skrúður partivano alla ricerca di aringhe e merluzzi. Poi Eskifjörður e Neskaupstaður, dove ci fermiamo per una rigenerante passeggiata sulla scogliera e per visitare una grotta marina. Col mare sotto di noi, camminiamo su un terreno di torba intriso d’acqua, che si abbassa ad ogni nostro passo. Di tanto in tanto profonde spaccature sul suolo ci ricordano che di questa terra è bene non fidarsi troppo. Tuttavia, c’è una grande pace tra le verdi piante subartiche che fioriscono rigogliose nella breve e fredda estate islandese. Respiriamo a fondo l’umida brezza marina che porta in volo puffin e cormorani, consapevoli che stiamo vivendo un’esperienza unica. Scendiamo con attenzione alla grotta, lambita dalle onde. Dalla volta davanti all’ingresso scende una specie di rada cascatella, che dobbiamo oltrepassare per visitarne l’interno. Gli unici rumori che sentiamo sono i respiri della natura: l’acqua che cade, il mare si schianta con rabbia sui sassi neri davanti alla grotta coperti da alghe incredibilmente grandi, il canto degli uccelli marini. L’ultima tappa della giornata è il villaggio di Reyðarfjörður, sul cui lungomare si trova una mina oceanica inesplosa, testimonianza di come la follia della guerra si sia spinta fino ai confini del mondo. Rincasiamo infine a Egilsstaðir. È stata una giornata infinita, come il numero dei luoghi che vorremmo visitare. Collassiamo felici in albergo, nel crepuscolo quasi interminabile della notte ormai tarda. Dettifoss (Islanda, 2016) Il giorno seguente lasciamo definitivamente Egilsstaðir facendo rotta verso Dettifoss, la cascata più grande d’Europa, al cui cospetto ci sentiamo insignificanti. Non molto lontano si trova il canyon Ásbyrgi, che significa Rifugio degli Dei, il quale ha un’insolita struttura a ferro di cavallo. Questo non sorprendere, dal momento che è stato originato dal tocco di uno degli otto zoccoli di Sleipnir, il cavallo volante di Odino. All’interno di questo anfiteatro naturale troviamo una rara foresta di betulle e un lago verde che ricorda quelli delle nostre Alpi. Dopo aver visitato il luogo in cui gli dèi si rifugiarono una volta cacciati via dai cristiani, andiamo a cercare il luogo dove si manifestano tuttora ai loro moderni seguaci neopagani: Raufarhöfn, il punto più a nord dell’Islanda continentale. Questo gelido villaggio si trova a soli tre chilometri dal Circolo Polare Artico: più su di così c’è solo l’isola di Grímsey e poi ghiaccio e mare fino al Polo. Il villaggio è totalmente deserto e ha un aspetto desolato, il che contribuisce ad ammantarlo di un’aura poetica. C’è un piccolo cortile dove grandi vertebre di balena sono sparse a mo’ di seggiole; casette di legno e lamiera colorate e un albergo malmesso con una rete da basket all’esterno. Vista la temperatura, anche ora che è agosto, ci stupiamo di come qualcuno abbia avuto tanto coraggio da aprire un albergo qui. Sulla collina chiamata Melrakkaás, che significa Colle delle Volpi, è invece stato costruito l’Heimskautsgerðið o Artic Henge, una sorta di tempio (un henge per l’appunto) che dovrebbe interagire con l’energia delle luci nordiche nei vari periodi dell’anno. Facciamo una passeggiata sulla spiaggia poco fuori il villaggio, ma il vento che soffia implacabile dal Polo fino a qui non ci consente di resistere a lungo. Ripartiamo per Húsavík, delizioso vecchio borgo baleniero totalmente convertito al whale watching e all’ecosostenibilità, tanto da essere uno dei pochi luoghi in Islanda dove al ristorante non si trova carne di balena. Qua e là sono pubblicizzati menù vegetariani e addirittura vegan. Visitiamo il Museo della Balena, molto didattico. Proviamo ammirazione per il coraggio eroico degli antichi balenieri e senso di colpa per il comportamento di quelli moderni. Nei pressi del porto ci danno pure un volantino che spiega in inglese perché non avremmo dovuto mangiare carne di balena in Islanda. Giusto, ma anche questo un po’ di parte, visto che qui per fare bei soldi hanno bisogno che le balene si sentano tanto tranquille e sicure de entrare nella baia Skjálfandi. In ogni caso, oggi mangiamo degli ottimi pesce lupo e salmerino artico, pesci locali assai più “politicamente corretti” delle balene “sostenibili”. Ci allontaniamo un po’ dal mare per visitare le antiche case di torba di Grenjaðarstaður e attraversiamo ampie campagne dove corrono i cavalli islandesi, fino ad arrivare a Narfastaðir Guesthouse dove dormiremo. Prima del nostro arrivo il cielo, in un tramonto arancione come mai prima d’ora, ci regala il raro spettacolo di un doppio arcobaleno. Il vulcano spento Hverfjall (Islanda, 2016) Il giorno dopo lo dedichiamo all’area geotermica di Námafjall Hverir, e al lago Mývatn. Visitiamo il famoso sito di Grjótagjá, cavità lavica al cui interno una fonte termale forma un lago azzurrissimo, e poi attraversiamo un’ampia pianura fumante dove incrociamo fumarole, pozze calde, immensi impianti geotermici e doccia in mezzo al niente dalla quale esce acqua termale gratis. Facciamo un breve trekking fino alla cresta del vulcano spento Hverfjall e poi proseguiamo per Dimmuborgir, il cui nome significa Fortezza Oscura: un labirinto di formazioni laviche posto sulla sponda orientale del lago. Questo luogo è una specie di portale, una connessione tra il nostro mondo e gli inferi. Superfluo specificare che, sebbene sfuggano alla vista dei più, è densamente popolato di elfi e troll. Arriviamo infine al Lago Mývatn, che significa Lago dei Moscerini, a causa della fastidiosa presenza di questi animali, pressoché assenti nel resto del paese. Specchi d’acqua sono intervallati da pseudocrateri, particolarmente spettacolari a Skútustaðir. Sembrano il risultato di un pesante bombardamento a tappeto, ma sono in realtà il frutto del brusco raffreddamento di antiche colate laviche. Grazie al terreno vulcanico, le acque del lago sono estremamente ricche di nutrienti, perciò la vegetazione è piuttosto rigogliosa. L’intensa attività geotermica della zona ci consente di farci un bagnetto rilassante al Mývatn Nature Baths, uno degli stabilimenti termali più famosi d’Islanda. Interessante come qui sia obbligatorio fare una doccia integralmente nudi prima di poter accedere alle vasche, e come questo sia vissuto senza imbarazzo. Giriamo intorno al lago e nelle sue vicinanze incontriamo Goðafoss, la Cascata degli Dei, così chiamata da quando gli islandesi, appena convertitosi dal paganesimo al cristianesimo, decisero di buttare qui tutte le statue delle loro ex divinità. Goðafoss, la Cascata degli Dei (Islanda, 2016) Torniamo nuovamente verso nord e attraversiamo il villaggio di Reykjahlid ed il minuscolo e anonimo paesino di Laugar, prima di fare il nostro ingresso ad Akureyri, seconda area urbana del paese, con ben trentamila abitanti e capoluogo della regione Norðurland eystra. In Italia sarebbe un paese, qua è una metropoli. L’ingresso in città è costituito da un ponte dal quale si gode un panorama incredibile del fiordo Eyjafjörður, uno dei più lunghi d’Islanda. La vista del mare che si insinua tra alte catene montuose, alla cui base dorme questa città piena di luci, è talmente bella che torniamo indietro per poter attraversare due volte il ponte. L’atmosfera che si respira in centro è piacevole e vivace. Anche se la temperatura non si può definire mite, la gente mangia ai tavoli disseminati lungo le strade davanti ai locali, sotto i funghi riscaldanti e con i plaid addosso, ma all’aperto. Le stradine sono piene di negozi, immancabilmente addobbati con animali impagliati, che evidentemente trovano eleganti. Spesso questi oggetti sono anche in vendita, unitamente ai documenti necessari a esportarli legalmente fuori dal paese. Per la prima volta dal nostro arrivo, vediamo anche qua i segni della globalizzazione, che si manifesta prima in un ristorante indiano realizzato in una piccola chiesetta sconsacrata e poi in una simpatica ragazza italiana che lavora al chiosco degli hot dog e che ha fatto di questo paese così remoto la sua nuova casa. Dopo una gradevole passeggiata sul lungofiordo, andiamo a mangiare e questa volta proviamo l’uria, un uccello marino locale il cui gusto ricorda vagamente il nostro piccione. L’intera giornata successiva la spendiamo visitando questo grande fiordo: visitiamo i villaggi di Grenivík e Hauganes, che giacciono uno davanti all’altro sulle due sponde, e i resti del villaggio vichingo di Gásir, come al solito più da immaginare che da vedere. Ma il piatto forte del giorno è la visita all’isola di Hrísey, nel centro del fiordo. Doccia termale gratuita a Grjótagjá (Islanda, 2016) Partiamo dal minuscolo porto di Árskógssandur su un traghetto che sembra più un peschereccio dismesso che un’imbarcazione di linea e in breve tempo ci accorgiamo che il mare sotto di noi, pur essendo scuro, è anche inaspettatamente trasparente e lascia intravedere distese di lunghissime alghe verde-marrone e un’infinità di meduse eteree che si muovono lente come nuvole d’estate. Sull’isola vivono stabilmente pochissime persone, principalmente dedite al turismo, alla pesca e alla lavorazione del pescato, come suggerisce la stazione di essiccatura dell’hákarl – il tradizionale squalo fermentato – vicino al villaggio. Questo antico piatto nacque dalla necessità dei vichinghi di mangiare lo squalo groenlandese, fonte proteica abbondante a queste latitudini, ma purtroppo per loro non commestibile. L’animale, infatti, è privo di apparato urinario, cosa che fa sì che nelle sue carni sia accumulano tossine, tra le quali la trimetilammina-N-ossido, velenosa per l’uomo. In qualche modo però si accorsero che se lo squalo veniva fatto fermentare e marcire sottoterra e poi affumicato ed essiccato, diventava commestibile. Naturalmente non possiamo resistere al fascino di un piatto simile e decidiamo di provarlo anche noi: la carne bianca e gommosa non assomiglia a pesce, ma a qualcosa di sintetico. Ha l’odore di un secchio di piscio di cane lasciato al sole in agosto, mentre in bocca sembra di avere dell’ammoniaca. A un passo dal vomitare, decidiamo che un solo assaggio è sufficiente. D’altra parte, se anche il mitico Andrew Zimmern di Orrori da Gustare l’ha definito il cibo peggiore da lui provato, vorrà pur dire qualcosa. Tradizionalmente piccole porzioni di questo piatto devono accompagnarsi a generose dosi di brennivín, la potente acquavite islandese nota anche come Morte Nera (e pensare che per ottant’anni, fino al 1989, l’alcol è stato completamente proibito in questo paese!) Ne capiamo perfettamente il motivo. Ma l’hákarl non è l’unica attrattiva di quest’isola. Seguiamo il sentiero che dal porticciolo ci conduce sulla sommità della collina, dalla quale godiamo di un panorama unico. Una volta arrivati in vetta, dei cartelli ci avvertono che in questo luogo convergono i flussi di energia cosmica che attraversano il globo e che pertanto stare qui fa molto bene, e dona pace. Sul fatto che questo santuario naturale sia rilassante, mi sento di confermare, ma sulle sue presunte proprietà salutari temo che influisca negativamente il vento gelido che sferza la collina e che dopo un po’ ci costringe a scendere. Ritorniamo sulla terraferma e concludiamo la giornata con una sosta all’antica fattoria di torba di Laufás e godendoci il resto della serata ad Akureyri, che domani dovremo salutare. AkureyriCaratteristiche case islandesi in legno e lamieraSegnavia di pietreCentrale geotermicaDimmuborgir, la Fortezza OscuraForesta di betulle ad ÁsbyrgiGrjótagjáIl canyon ÁsbyrgiIl chiosco di hot dog ad Akureyri Il luogo della fontana di energia sull’isola di HríseyL’area geotermica di Námafjall HverirModerno arpione per balene al Museo di HúsavíkReparto gomitoli di lana in una stazione di servizioStrutture per essiccare il pesce a HríseyUno pseudocratere al lago MývatnHengifossPuffin a BorgarfjarðarhöfnLitlanesfossDoppio arcobalenoVecchie case ad Akureyri All photos by Gabriele Levantini (Islanda, 2016)... Read more...Islanda: isola di fuoco e ghiaccio (pt. 1), un articolo di G. Levantini || THREEvial Pursuit16 Novembre 2020Islanda: isola di fuoco e ghiaccio Il Cerchio d’Oro di Gabriele Levantini Quando ero piccolo sognavo di poter vedere tutto il mondo. Forse a causa dei racconti di vita di navigazione che mi faceva mio nonno, marittimo d lungo corso, o forse perché amavo leggere e guardare documentari in televisione. Tra i luoghi che più di altri mi hanno affascinato da sempre c’è l’Islanda. Ebbene, nel 2016 ho avuto la fortuna di poter visitare questo splendido paese in un viaggio di poco meno di due settimane, insieme ad Anna, la mia compagna di quei tempi. Il nostro fu un viaggio on the road di 4.213 km, lungo la mitica Þjóðvegur, la Circular Road che percorre l’intera isola artica. È una fredda e piovosa notte d’agosto quando, dopo un tremolante sorvolo del Mare del Nord e dell’Atlantico Settentrionale, atterriamo all’aeroporto di Keflavík. Il vento porta dal mare fini goccioline d’acqua gelida. Nonostante le nuvole, il cielo mostra un pallore simile a quello che assume da noi poco prima dell’alba: è buio, ma non un buio profondo come uno s’aspetterebbe a quell’ora. Questo è il nostro primo impatto con le luci e il meteo islandesi, che non smetteranno di stupirci per tutto il viaggio. Ritiriamo il fuoristrada che avevamo noleggiato e per un attimo ci sembra di aver sbagliato aereo e di essere finiti in America: stradine con villette a schiera in legno e giardini d’erba rasata senza recinzioni, con grandi pick-up parcheggiati. Riflettendoci bene però tutto torna: siamo più vicini al Canada che all’Europa e geograficamente ci troviamo sulla placca continentale americana. Non senza fatica, troviamo la strada e arriviamo finalmente al nostro albergo. In Islanda c’è un modo di dire: “se non ti piace il tempo, aspetta cinque minuti”. È vero: si passa dal piumino alla t-shirt nel giro di decine di minuti e dalla pioggia gelata al sole battente in uno schiocco di dita. Tundra (Islanda, 2016) La mattina seguente, infatti, il paesaggio ha assunto tutto un altro aspetto: il sole splende forte sul mare scuro in lontananza. I gabbiani volano in cielo lentamente e il vento è più gentile e meno freddo. Il nostro primo impatto con la vita in questa terra selvaggia e remota ha il sapore di una colazione a base di skyr, salmone e aringa. Difficile, ma se vogliamo, di una semplicità a suo modo poetica. Devo confessare che il mio istintivo rifiuto latino per questa alimentazione nordica finirà in pochissimi giorni. Anzi: al mio rientro in Italia, forse per nostalgia, proverò a lungo a cercare gli ingredienti giusti per riprodurre quei sapori. Purtroppo senza successo. Partiamo di buon’ora, verso sud-est, seguendo il più classico dei percorsi: percorreremo la Þjóðvegur in senso antiorario, cominciando dal cosiddetto Gullni hringurinn, il Cerchio d’Oro: l’area di più antico popolamento e di maggior richiamo turistico, nella parte meridionale dell’isola. L’itinerario della giornata si snoda tra la penisola di Reykjanes (regione del Suðurnes) e la regione di Suðurland. In breve tempo rimpiangiamo la cartellonistica stradale italiana che, sebbene inutilmente complessa e ridondante, è chiara e minimalista rispetto a quella islandese che ci costringe in più d’un occasione a fermarci per cercare di interpretare i cartelli. Nonostante questo, viaggiamo senza problemi godendoci i paesaggi grandiosi dove l’impatto antropico è minimo e la scarsità di altri esseri umani in giro. La nostra prima sosta è Hveragerði, paesino di poche anime noto come “Villaggio dei Fiori”, sito in mezzo a un’area geotermica. Potrebbe benissimo essere scambiato per un angolo di remota provincia agricola americana se non fosse per la terra scura che fumae e dentro la quale tradizionalmente viene preparato il hverabrauð, o lava bread, un pane nero molto aromatico. In quest’area la natura è come una chioccia benevola che riscalda col suo ventre le proprie creature: anche le serre dove nascono i pomodori islandesi, molto presenti in questa zona, sono riscaldate con il calore del suolo. Un’eccezione di abbondanza per un paese dall’inverno lungo e buio, in cui gelate e carestie erano le prime cause di morte fino a pochi decenni fa. Proseguiamo attraversando Selfoss, villaggio sulle turbolente rive del fiume Ölfusá, uno dei principali del paese. Ci fermiamo brevemente ad ammirare l’acqua scura che gorgheggia nelle anse del suo percorso, lambendo la chiesa del paese prima di ripartire per il mare. Piano cottura geotermico per preparare il hverabrauð (lava bread) ad Hveragerði (Islanda, 2016) Ripartiamo alla volta del Parco Nazionale di Þingvellir. Parcheggiamo in un ampio sterrato e, dopo un’area boscosa, troviamo una pianura attraversata da rigoli d’acqua. La attraversiamo giungendo a una salita che si insinua tra le rocce. Piano piano si delineano due pareti che formano una sorta di canyon, e che non sono altro che il punto di frattura tra la placca continentale americana e quella euroasiatica. In questo luogo magico, ricco di grotte, profonde spaccature che si aprono nel suolo all’improvviso e rocce acuminate che ti osservano dall’alto, si riuniva un tempo l’Alþingi, antico parlamento vichingo. La vista da quassù è mozzafiato, ma dobbiamo proseguire. Tornati in auto, attraversiamo un’ampia zona agricola e poi entriamo nella valle di Þjórsárdalur. Il terreno è coperto da spessi muschi e licheni e attraversato da fiumi che si dividevano in mille rigoli, col vulcano Hekla a incombere in lontananza. Proseguendo, incontriamo Skálholt, antichissima sede episcopale, tanto ricca di storia quanto povera di reperti originali, caratteristica che –scopriremo – accomuna un po’ tutti i siti storici d’Islanda. D’altra parte, non si viene in questo paese per l’arte e per la storia, ma per una natura tra le più pure e primordiali di tutto l’emisfero settentrionale. Più avanti sulla strada, ci fermiamo ad ammirare Gullfoss, il cui nome significa “Cascata d’Oro”. È uno dei più spettacolari monumenti naturali del Cerchio d’Oro per la sua dimensione e perché costituita da ben due salti. Successivamente visitiamo l’area geotermale di Haukadalur, con i mitici geysers di Geysir (da cui deriva il termine stesso di geyser) e Strokkur. Lo spettacolo di questi mostri ruggenti ci mostra la forza terribile che ribolle e fuma sotto i nostri piedi. In questa località ci fermiamo in un ristorante, intenzionati ad assaggiare un po’ di cucina locale. Nel menù non mancano piatti insoliti per noi, introvabili a casa, ma inutile dire che il più particolare di tutti è senza dubbio la carne di balena. Prima di partire ci eravamo documentati bene su questo argomento così controverso e avevamo scoperto che il problema è molto più complesso di come viene rappresentato. Diversamente dagli altri “paesi balenieri”, come si può leggere sul sito del governo, l’Islanda pesca solo due tipologie di balena, che non sono minacciate di estinzione – la balenottera comune (hvalur) e la balenottera minore (hrefna) – in quantità molto limitata e quindi, a parer loro, sostenibile. Questa attività risale al tempo dei Vichinghi e non è mai cessata: il paese, infatti, si è sempre rifiutato di firmare la moratoria internazionale, forte della sua storia millenaria, diversamente ad esempio dal Giappone. La loro idea si può riassumere più o meno così: “Che siano gli altri a fermare l’attività, quelli che sono arrivati dopo e l’hanno praticata in modo indiscriminato rendendola insostenibile, non noi che la eseguiamo con misura ed equilibrio in modo sostenibile da un millennio!” Il geyser Strokkur in eruzione (Islanda 2016) Non tutti, naturalmente, la pensano così e, nonostante la carne di balena sia facilmente reperibile nei supermercati e nei negozi, viene mangiata dagli islandesi sempre meno spesso. Esiste però una cosa capace di mettere d’accordo sia i sostenitori che detrattori di questa pratica: la profonda convinzione che si tratti di un argomento esclusivamente nazionale, nel quale gli stranieri non devono intromettersi per nessun motivo, indipendentemente da come la pensino. Ad ogni modo, decidiamo di fidarci del governo islandese e ordiniamo una bistecca di balena “sostenibile”. È al sangue e sembra manzo, ma con un leggero retrogusto di tonno: la trovo buonissima. La nostra giornata termina infine, dopo un buon tratto di strada, a Laugarvatn, paesino sulle rive di un lago nel quale sgorga una sorgente termale bollente. Dormiamo in un Edda hotel, un’altra stranezza di questo paese: una scuola che d’estate, quando gli studenti tornano ai loro villaggi, diventa albergo. La mattina seguente facciamo colazione nell’ampio refettorio insieme ad altri turisti provenienti da ogni parte del mondo. Ci colpisce l’esiguo numero di nostri connazionali, che forse preferiscono mete più confortevoli di questa. Ripartiamo di buon’ora fermandoci al primo distributore di carburante: non sono molti, perciò è bene approfittarne quando si incontrano. In Islanda non esiste più il lavoro di benzinaio perché le pompe di carburante sono esclusivamente automatiche, ma ognuna di loro ha un piccolo emporio-ristorante. Vendono immancabilmente zuppe calde squisite, hot dog di pecora, snack confezionati, articoli per il camping, libri e gomitoli di lana. Il loro inventario è un ottimo indicatore della vita sociale di questa solitaria e rilassata isola artica. In un supermercato acquistiamo anche il súr hvalur, tradizionale grasso di balena marinato nel latte acido, che conquista subito il titolo di cibo più cattivo mai provato. Per il momento almeno, perché il titolo sarà riassegnato prima che il viaggio finisca. Attraversiamo ampie aree dove non si incontrano i segni deleteri degli esseri umani, fermandoci ogni tanto per osservare da qualche punto panoramico. Passiamo il villaggio di Hella e l’insediamento di Keldur con le sue interessanti torfbæir, le case di torba e legno, col tetto coperto di erba. Questo materiale naturale, qui abbondante, era un eccellente isolante e consentiva di risparmiare prezioso legname. Infatti, l’Islanda è quasi priva di alberi fin dall’XI secolo, quando fu disboscata dai Vichinghi al fine di sfruttarne il legno. Ignoravano che a queste latitudini la ricrescita delle foreste sarebbe stata molto più lenta e difficile che in Norvegia. Negli ultimi anni il governo sta conducendo grandi sforzi per tentare di rimboschire il paese, e anche se oggi qualche rara foresta si trova, la strada per tornare alle coperture originali è ancora molto lunga. Gullfoss, la Cascata d’Oro (Islanda 2016) Scendiamo fino al porticciolo di Landeyjahöfn, dal quale abbiamo una bellissima vista sulle isole Vestmannaeyjar, dal quale iniziò la colonizzazione del paese. Davvero incredibile pensare che nel 1627 i corsari saraceni arrivarono fino qui, mettendo a ferro e fuoco queste isole. Ci rimettiamo in marcia, la prossima tappa è la cascata di Skógafoss: un immenso muro d’acqua che salta giù ruggendo da una montagna, avvolgendosi d’una fitta nebbia d’arcobaleni e di sottilissima pioggia. Questa volta il paesaggio cambia in fretta perché poco dopo troviamo l’estrema punta meridionale del ghiacciaio Sólheimajökull, dal quale spira un vento gelido e carico di nevischio. Proviamo ad avvicinarci a piedi, ma il meteo non è dei migliori perciò a un certo punto decidiamo di tornare indietro. Ci aspetta quella che sarà una delle più belle tappe di questo viaggio: Vík í Mýrdal, minuscolo villaggio con una bella chiesetta di legno che sulla sua sommità protegge le case e la spiaggia nera di Reynisfjara ai suoi piedi. Qui grandi faraglioni di roccia affilata sembrano guerrieri fantasy nel mare tempestoso. La spiaggia è circondata da un’alta scogliera di colonne basaltiche, che sfumano in un promontorio di arenaria. Una fitta vegetazione fiorita copre il suolo interrompendosi a un certo punto per far spazio a una sabbia fine e nerissima. I faraglioni sono sferzati da onde potenti, mentre un vento freddo mescola insieme i profumi dei fiori e quello del mare e sostiene il volo degli uccelli marini. Adesso ci aspetta un bel pezzo di strada desertica attraverso il Laufskalavarda, una distesa di detriti lavici che si alternano alla tundra. Lungo la strada ci fermiamo a vedere le Colonne di Kirkjugólf, nei pressi del villaggio di Kirkjubæjarklaustur, una formazione geologica che sembra il pavimento d’una chiesa. La campagna circostante è piena di formazioni rocciose, antichissimi tumuli e tradizionali segnavia: di fronte a un paesaggio del genere non stupisce affatto che metà degli islandesi creda negli Elfi. La sera ci fermiamo al Fosshotel Nupar, una costruzione in container nel bel mezzo della tundra. La pace e il silenzio dell’interminabile crepuscolo di mezzanotte, mentre siamo seduti sulla distesa di morbidi licheni davanti all’hotel completamente immersi nel nulla, è un’immagine che porterò sempre nel mio cuore. Il giorno seguente attraversiamo la vasta distesa dello Skeiðarársandur dove incontriamo gli imponenti resti di un grande ponte in acciaio distrutto dalla furia di un’inondazione nel 1996. Il deserto di sabbia e rocce (sandur) dove ci troviamo è il frutto della forza dei fiumi glaciali che nel corso dei secoli ogni primavera puntualmente sono scesi giù dai ghiacciai con cieca furia. È questa la regione più inospitale, pericolosa e disastrata del paese, dove la natura mostra la sua faccia cattiva: le alluvioni si susseguono e nell’ampio deserto umido sono talvolta presenti le sabbie mobili. La prima tappa della giornata è Svartifoss, una scenografica cascata che salta giù da un monte fatto di colonne di basalto, che sembrano canne d’organo di una immensa cattedrale. Per arrivare ad ammirarla dobbiamo attraversare un breve tratto di foresta, una piacevole anomalia nel paesaggio brullo. Ci rimettiamo in marcia, i ghiacciai ci osservano da lontano ormai da decine di chilometri, e ci dirigiamo verso la laguna glaciale di Fjallsárlón. È poco prima della più grande e nota laguna Jökulsárlon, che abbiamo deciso di scartare perché troppo frequentata. La Spiaggia dei Diamanti (Islanda 2016) Fermiamo l’auto nel parcheggio sterrato e ci rechiamo alla tenda che fa da “reception”, dove prenotiamo il giro del lago. Fuori è un freddo cane, ma dentro c’è un bel teporino e tè e caffè caldi in omaggio. Un ragazzo ci spiega i rischi di navigare in queste acque piene di piccoli iceberg e poi ci consegna una giacca termica pesantissima: servirà a farci galleggiare e a mantenerci vivi per un po’ se dovessimo cadere nelle acque gelide. Il tour in motoscafo è un’esperienza incredibile: ci sentiamo un po’ James Bond e un po’ McClure. Mostri di ghiaccio bianchi e azzurri galleggiano silenziosi sull’acqua torbida, gli passiamo vicino dirigendoci verso il fronte del ghiacciaio. Ed è qui che godiamo dello spettacolo solenne e terribile della bianca scogliera che brontola e scricchiola minacciosamente. Prima di tornare a riva, stacchiamo un pezzo di giaccio da succhiare: è l’acqua più pura mai assaggiata. Una volta sulla terraferma, ci spostiamo pochi chilometri a est per visitare la celebre Spiaggia dei Diamanti: una splendida distesa di sabbia nera dove il mare restituisce il ghiaccio che gli arriva dalle lagune glaciali. Dopo aver attraversato Höfn, cittadina portuale senza grandi attrazioni, ci dirigiamo verso l’interno, prima di cominciare l’esplorazione dei Fiordi Orientali, l’Austfirðir. Lungo la strada avvistiamo un piccolo branco di renne, comuni in questa regione, dove furono introdotte in passato. Il primo villaggio dei fiordi orientali che visitiamo è Djúpivogur,sulla frastagliata punta meridionale del fiordo Berufjörður. Vicino all’abitato si trova una laguna sula quale si sviluppa la bellissima spiaggia di Úlfseyjarsandur. Il secondo dove ci fermiamo è Seyðisfjörður, che è anche l’ultima sosta della giornata, e uno dei più bei paesini di tutta la regione. Infatti, qui si trova l’iconica chiesetta azzurra alla quale si arriva da un sentiero arcobaleno, e le casette di legno e lamiera affacciate sul mare sono spesso coperte da bei lavori di street art che non ti aspetteresti. Infine, stremati, arriviamo a Egilsstaðir, città industriale costruita negli anni ’40 sulle sponde del lago Lagarfljót, dove vive il mostro Lagarfljótsormur, variante locale di Nessie. In Islanda il folklore e le leggende sono argomenti serissimi e molto sentiti, e infatti il governo ha ritenuto di doversi pronunciare (positivamente) sull’esistenza del mostro. La cittadina non offre molto da vedere, ma è piuttosto viva per gli standard islandesi. Conta oltre duemila abitanti perciò, dopo giorni di scarsi contatti con gli altri esseri umani, ci sembra di essere giunti in una metropoli. C’è una festa popolare e, nonostante la grande stanchezza, ci uniamo volentieri ai locali che applaudono alle canzoni country in islandese. Area archeologica a SkálholtCampanelle all’ingresso del villaggio di DjúpivogurCarne di balena al supermercatoFesta a EgilsstaðirIl Fosshotel Nupar, struttura di container nella tundraIl luogo dove si riuniva l’Alþingi, il Parlamento vichingoPonte distrutto nel pericoloso Skeiðarársandur e in lontananza il fronte di un ghiacciaioLa cascata di SkógafossLa cascata di SvartifossLa laguna glaciale di FjallsárlónLa spiaggia di Úlfseyjarsandur, a DjúpivogurLa spiaggia nera di ReynisfjaraLaufskalavarda, distesa lavica coperta di licheniLe Colonne di KirkjugólfL’iconica chiesetta azzurra nel villaggio di SeyðisfjörðurPanorama del Parco Nazionale di ÞingvellirPecore islandesiRenne vicino a HöfnIl tremendo súr hvalurUna torfbæir (casa di torba) a Keldur All photos by Gabriele Levantini (Islanda, 2016)... Read more...Fishes Invasion || Intervista a Merioone, di G. Silvestrelli || THREEvial Pursuit11 Novembre 2020Fishes Invasion Branchie, sticker, pinne e poster. Intervista a Merioone di Giorgio Silvestrelli Fishes Invasion – Merioone (Roma, 2020) Nel mare magnum della street art, da diversi anni, è presente Merioone e il suo progetto artistico Fishes Invasion. Dopo una lunga ed estenuante battuta di pesca ha abboccato al nostro amo. Una volta liberato, non poteva fare altro che rispondere alle nostre domande. Cosa accadrebbe se il Mondo fosse totalmente invaso dai pesci? Una domanda curiosa, ce ne rendiamo conto, ma nelle strade di sempre più città di tutto il pianeta stanno comparendo stickers e posters, dove dei buffi pesci ci ammoniscono al grido di “Don’t Sleep!” Abbiamo quindi intercettato lo street artist responsabile di quella che lui stesso definisce Fishes Invasion e che risponde al nome di Merioone. Caduto nella nostra rete ecco quello che ci ha raccontato in questa intervista esclusiva. Giorgio Silvestrelli: Merio ciao, che piacere conoscerti! Vuoi presentarti e dirci cosa fai? Merioone: Ciao! Piacere mio! Sono Merio, Merio One o Merioone. Potete chiamarmi come preferite. Ho smesso di incollare figurine sugli album nel 2011, per poi iniziare nel 2015, per strada, con un pesce. GS: Iniziamo subito con le domande importanti: hai un acquario in casa o in studio? M: Sì, da ormai tre settimane ho un nuovo amico, un pesce rosso di nome Boris. Lui è diventato la nuova mascotte, e il nome è stato scelto dai miei follower di Instagram. Anche quando ero piccolo ho avuto dei pesciolini, ma purtroppo li ho uccisi tutti dandogli troppo da mangiare. Pensavo fossero come me… Ora, però, con Boris sto cercando di non commettere gli stessi errori. Fishes Invasion – Merioone (Berlino, 2020) GS: Mangi pesce? Qual è il tuo piatto preferito? M: Diciamo che non sono amante del pesce. Mangio solo crostacei e molluschi, soprattutto gamberi e cozze. Se devo scegliere cosa mangiare preferisco latte e cereali o supplì. GS: Ho voluto rompere il ghiaccio in questo modo perché, adesso, puoi spiegarci meglio cos’è Fishes Invasion. M: Fishes Invasion, tradotto in italiano, è un’invasione di pesci, nel mio caso, soprattutto sotto forma di adesivi o poster. Ti direi che ormai, è come una malattia, un qualcosa che fa parte di me, incurabile, che mi spinge ad andare in giro attaccando pesci. GS: Il pesce che realizzi ha un nome? Raccontaci la genesi di questo soggetto che ormai è diventato il tuo “partner in crime”. M: Il mio “partner in crime” ha il passaporto americano, nato a New York nel 2015. Beato lui, aggiungo! Non gli ho mai dato un nome, forse avrei dovuto farlo quando ho disegnato il primo. Ma in realtà, per me, non è un solo pesce, sono tanti pesci. Ogni adesivo, ogni poster, ogni applicazione dà vita a un pesce nuovo. È come se fossero tutti figli miei, alcuni li rivedrai, altri andranno a vivere in altre città del mondo, e non avrai più loro notizie. Mi piace pensarla così, e sarebbero troppi i nomi da non riuscire a ricordarli!Spesso sono le persone a dargli un nome: “il pesce incazzato”, “il pesce che balla”, ”il pesce con i labbroni”. Preferisco così, è divertente. GS: Quando ti sei avvicinato alla street art? M: Guarda, non so se io mi ci sia mai avvicinato realmente. Ho iniziato non conoscendo molto il “settore”, e il mondo degli sticker e poster. Ho sempre visto il mio modo di pensare e di portare avanti questo progetto più vicino al mondo dei graffiti che sono stati “il mio primo amore”. Ancora oggi mi fa più effetto trovarmi davanti una serranda, una vagone della metro, o qualsiasi altra cosa coperta di tag o throw up che un muro enorme dipinto su commissione, per intenderci.In ogni caso, inevitabilmente, quello che faccio fa parte di un ramo della street art, anche se non amo avere un’etichetta, quindi ti dirò che ho cominciato ad avvicinarmi, o meglio, a capire che questo faceva parte della street art, solo un anno dopo aver attaccato il mio primo sticker. Mentre con i graffiti ho iniziato più o meno a 13 anni. GS: La definizione di street art è abbastanza “liquida” e spesso viene interpretata da persona a persona in maniera molto differente. Quindi, per te, che cos’è la street art? M: Per me la street art è tutto quello che sta per strada, senza permessi, senza nulla. GS: Da dove prendi ispirazione per i tuoi lavori? M: L’ispirazione per me può venire da tutto. Qualsiasi cosa mi trovo davanti durante il giorno mi regala nuove idee. Alcune le elaboro subito, altre le immagazzino.Sicuramente viaggiare è al primo posto. Vedere nuovi luoghi, scoprire culture è la cosa migliore per cercare ispirazione. Non c’è mai stato un viaggio che non mi abbia dato indietro qualcosa. Questo è un momento un po’ complicato per farlo quindi entra in gioco quello di cui ti parlavo prima. Mi piace osservare di tutto, dallo sport alla moda. Fishes Invasion – Merioone (Hong Kong, 2018) GS: Ci sono degli artisti che hanno influenzato in maniera determinante il tuo percorso? M: Senza alcun dubbio Keith Haring! Più per il suo pensiero e per il modo di fare che per le sue opere. Lui da sempre, prima anche di iniziare a pensare che avrei fatto qualcosa per strada.Ci sono poi delle influenze che ho avuto durante questi cinque anni di “invasioni”. Mi piace rivedere altri sticker artist in ogni posto in cui vado. La loro attitudine mi stimola a fare ancora meglio. È come se fosse una competizione, ma nel senso positivo del termine. Ci tengo a nominare la città di Madrid, che reputo uno step importante per il mio percorso. Una metropoli che mi ha dato una visione diversa. Della serie: “posso volare”. Per “volare” intendo attaccare più in alto di quanto facessi prima di andare in Spagna. Ecco, questo è un luogo che consiglio a chiunque ami fare sticker e poster art. Se sei in compagnia delle persone giuste è sicuramente come andare a “scuola”. GS: Gli sticker che vediamo in molte parti del mondo li hai attaccati tu stesso oppure, come spesso succede per altri sticker artist, sono i tuoi fan e amici che lo fanno al posto tuo? M: È molto raro che io dia i miei adesivi a qualcuno per farmeli attaccare. Quando lo faccio è sicuramente dopo aver dato mille raccomandazioni. Ho una visione tutta mia su questo argomento. Non mi interessa avere due o tre adesivi in una città, sarebbe come non averne! Se devo essere presente, devo esserlo veramente. Rispetto chiunque per strada, e questa è una cosa a cui tengo particolarmente.Se facessi attaccare i miei sticker ad altri quasi sicuramente ci sarebbe il rischio che il mio adesivo copra un altro artista, un tag, uno stencil o qualsiasi altra cosa… Quindi preferisco fare da solo. Fishes Invasion – Merioone (Rio de Janiero, 2020) GS: La tua identità resta celata nel mistero. Perché? Quali sono i punti di forza e di debolezza nel non voler rivelare il proprio nome e cognome? M: In realtà non c’è un vero motivo, o meglio, è per il fatto che ciò che faccio è reputato illegale. Non ho iniziato pensando alla mia identità e a tutto il resto, l’ho fatto non pensando proprio. Ho incominciato tutto aprendo semplicemente un profilo Instagram con le mie foto. Queste domande poi me le sono fatte ma dopo.Quando sono per strada sono Merioone e, una volta finito, ritorno alla mia vera identità, tipo i supereroi. Con l’unica differenza che io non salvo nessuno. GS: Cosa pensi della street art legale (murales, festival, ecc.) e della sua parte illegale (poster, stencil, ecc.)? M: Ben venga la street art legale, e i rispettivi festival, se organizzati in un certo modo, e con la voglia di portare qualcosa di nuovo. Secondo me però le nottate, l’adrenalina e tutto quello che ti può dare l’azione “illegale” sono un’altra cosa. GS: Tu hai sempre lavorato in maniera illegale oppure no? M: Tranne pochi casi, sì. Non per una mia decisione “etica”. Sono aperto a tutto, o meglio, a tutto quello che mi piace e trovo interessante. GS: Dopo cinque anni di attività era il momento di festeggiare. Ci vuoi raccontare come lo hai fatto? Parlaci di Fishes Invasion – Fish Market Pop Up Store. M: Stiamo diventando vecchi… Cercherò di essere breve, anche se è un progetto che ha richiesto molto tempo e grandi sforzi, visto anche il difficile periodo in cui viviamo.Tutto parte dalla voglia di fare qualcosa a Roma, e da una delle tantissime telefonate che ho avuto con un mio grande amico, Davide Rossi Doria (artista e designer, ndr). L’idea originale è nata molto tempo prima. Questa, come tantissime altre, non sono mai state abbandonate ma semplicemente messe in stand by.Dopo averne vagliato le possibilità e la fattibilità abbiamo deciso quale idea ripescare. Dopo di che abbiamo iniziato a sfornare altre idee a raffica che bene si adattassero al concept. Credo che alla fine siamo riusciti a immaginare qualcosa di originale. Spesso non è facile lavorare su un progetto quando è troppo personale oppure non ci sei dentro a pieno. Devo ammettere che Davide è forse l’unica persona con cui riesco a collaborare. Credo che sia l’unico a cui direi: «Tieni, questo è il pesce. Fanne quello che vuoi». Penso che il rapporto che abbiamo sia stato fondamentale per portare a termine questo progetto nel migliore dei modi.L’obiettivo di Fish Market era quello di aprire un pop up store, ma con un’idea di fondo. La pescheria, visto il soggetto dei miei sticker, era il modo più giusto per poter “vendere il pesce”. Ho preso spunti girando in varie pescherie e sfruttando le mie ultime invasioni in città marinare come Genova e Catania. Abbiamo cercato di curare tutto nei minimi particolari, cercando di dare l’experience da vera pescheria, compreso l’odore di pesce all’interno dello store.Lo studio del concept prevedeva non sono l’allestimento del posto, ma anche i design delle t-shirt e degli altri gadget, partendo dal packaging fino al motivo che ci spingeva nel realizzare quell’oggetto.Alla fine sono molto soddisfatto della riuscita di Fish Market. Abbiamo raggiunto i 300 ingressi, e la cosa più importante è stata avere un contatto con la città e con persone che ti supportano da sempre. Colgo l’occasione per ringraziare tutti ancora una volta! GS: Sempre più spesso la street art entra nei luoghi istituzionalizzati (musei, gallerie, ecc…) tu che ne pensi al riguardo? M: Sono favorevole ma l’importante è che resti anche fuori da questi luoghi. Naturalmente qualcosa che non mi convince a riguardo c’è. Ma, basandosi sulla mia piccola esperienza personale, ti dico che con le gallerie con cui ho collaborato ho avuto solo esperienze positive. GS: Pur essendo una persona che ama viaggiare sembri molto legato alla tua città natale, Roma. Che rapporto hai con la Città Eterna? M: Roma è sempre Roma. Potrei stare un mese in giro per il Sud America, ma poi sentirei la necessità di tornare lì almeno per due settimane. Di Roma cambierei tante cose. Sicuramente è una città dove, almeno io, ogni tanto mi sento “soffocare”. È la città più bella del mondo sotto alcuni punti di vista, parlo sul serio, e sarebbe bello se lo fosse anche per molti altri motivi. Fishes Invasion – Merioone (New York, 2016) GS: Quale città tra quelle in cui ancora non sei stato ti piacerebbe visitare? E perché? M: Eh, La lista è ancora lunga. Forse ci vorrebbero tre vite per vedere tutte le città che ho nella mia testa. Sicuramente vorrei continuare a visitare l’Asia, soprattutto conoscere meglio il Giappone. Però credo che, appena sarà possibile, andrò in California e a Miami. Questi due luoghi sono un chiodo fisso da qualche anno e penso siano “tappe fondamentali”. GS: Che rapporto hai con i social network? Sempre più spesso la street art viaggia sulla rete. Tu cosa ne pensi? Che idea ti sei fatto? M: Amo i social network! Credo che chiunque, e ti parlo solo del mondo “artistico”, non usi i social ai giorni d’oggi, sbagli. Esistono varie modalità di utilizzo e, se si sceglie quella corretta, possono essere un mezzo potentissimo. Restando nel mondo della street art, non sopporto quelli che definisco “star da Instagram”. Diecimila, ventimila o cinquantamila follower, ma poi per strada il nulla. Sto parlando di street art legale e illegale. Credo che i social dovrebbero essere un plus e un supporto a quello che è la produzione di ogni artista. Io la vedo così. GS: Hai un sogno nel cassetto? M: Per ora, nel cassetto, ho solo gli adesivi. GS: C’è qualche cosa che vorresti raccontarci ma che nessuno ti ha mai chiesto? M: Un giorno mi piacerebbe parlare dei miei viaggi in giro per il mondo e delle mie esperienze personali. Senza essere considerato “fico” perché attacco pesci in giro. Vorrei che le persone capissero, attraverso i miei racconti, quanto viaggiare ti possa arricchire e regalare esperienze uniche. Credo che ne uscirebbe qualcosa d’interessante. GS: Hai un messaggio per i nostri lettori? M: Ci vediamo per strada!Grazie infinite Marioone. La redazione ricorda che nessun pesce o street artist è stato maltrattato nella realizzazione di questa intervista. Fishes Invasion – Merioone (Budapest, 2019) Fishes Invasion – Merioone (Catania, 2020)Fishes Invasion – Merioone (Dublino, 2019)Fishes Invasion – Merioone (Lima, 2019)Fishes Invasion – Merioone (Praga, 2019) All photos by Merione... Read more...L’infinito viaggiare, un articolo di R. Cipro || THREEvial Pursuit4 Novembre 2020L’infinito viaggiare di Rossella Cipro La livraria Lello di Porto, descritta ne L’infinito viaggiare di Claudio Magris Non vedevo l’ora. Finalmente posso tirar fuori la valigia e partire. Si fa per dire, intendiamoci. Esistono diversi modi per viaggiare e uno di questi è mettersi comodi, aprire un libro e iniziare a leggere. Si può contenere il mondo intero poggiandolo ordinatamente sugli scaffali di una biblioteca, museo del tempo e dello spazio. Basta scegliere un titolo per finire con Giona nel ventre della balena o a far compagnia al dottor Faustus. C’è qualcosa nel viaggiare che lega e attrae da tempo immemore i sogni e i desideri degli uomini. Dall’Iliade di Omero al Milione di Marco Polo, dalla Divina Commedia di Dante al Viaggio al Centro della Terra di Jules Verne, da I viaggi di Gulliver di Swiftai Viaggi in Portogallo di Saramago. Libri di storie, storie di viaggi, viaggi pieni di avventure, imprevisti e dure prove da affrontare; pieni di svolte, cambiamenti e ritorni. Un infinito viaggiare. È questo il titolo a cui volevo arrivare e sul quale mi voglio soffermare: L’infinito viaggiare di Claudio Magris. Soffermarsi, sostare, è parte dello spostarsi, ma non tutti gli spostamenti sono viaggiare. Etimologicamente parlando, la parola viaggiare (dal provenzale viatge, a sua volta dal latino viaticum, it. viatico, viaggio) non definiva una direzione geografica, mastava a designare l’insieme degli oggetti che ci si portava dietro quando si andava da qualche parte: cibo, vestiti e soldi. Ergo il viaggio, così come lo intendiamo oggi non può prescindere da un bagaglio, sia esso fisico o mentale e quindi composto di memorie, attimi, scoperte, sensazioni ed esperienze, ma anche di oggetti, luoghi, incontri con l’altro e, quando il viaggio avviene in un certo modo, con se stessi. La valigia è l’oggetto essenziale a chi per un motivo o per un altro sceglie di partire. Solo il viaggiatore può sapere il perché della sua decisione, del suo andare da un luogo all’altro, ma spesso egli lo conosce appena. È solo alla fine, dopo tanto errare, che la ragione di questo viaggio diventa chiara, lampante, adamantina. Per questo gli serve la valigia, perché durante il percorso egli non può evitare di raccogliere tracce, portarsi via oggetti, comporre un puzzle, il quale si delinea sempre meglio man mano che il viaggio vi aggiunge pezzi ogni volta diversi di luoghi e momenti distanti e distinti. L’attenta deduzione lo porta finalmente alla rivelazione, all’incontro con se stesso. Ma come? Non si era mai incontrato? Magari sì, ma non si era mai visto davvero. Spesso l’attenzione e la cura che riserviamo a noi stessi si limita alla superficie, alla parte che mettiamo a disposizione per gli altri, a una di quelle centomila sfumature della nostra persona che sentiamo convergere in nessuna e così si finisce per credere di non esistere se non attraverso gli occhi di chi ci osserva. Ritrovarsi è sempre una nuova scoperta, soprattutto perché il viaggiatore aveva dato per scontato che si sarebbe perso. Invece, è lì che si restituisce lo sguardo attraverso lo specchio sporco di quel vagone barcollante che lo riporta, infine, verso casa. Una fine che è sempre un nuovo inizio. Perdonerete questo preambolo poiché in fondo, come scrive Magris nella Prefazione al suo L’infinito viaggiare, “il viaggio – nel mondo e sulla carta – è di per sé un continuo preambolo, un preludio a qualcosa che deve sempre ancora venire e sta sempre ancora dietro l’angolo. La prefazione è una specie di valigia (…) e quest’ultima fa parte del viaggio”. Se uno ci pensa, viaggiare è un po’ come scrivere; è attraversare luoghi della memoria, prossima o lontana; è incontrare volti e gesti e oggetti. Scrivere di un viaggio è scrivere di un particolare momento nel tempo, in un particolare posto del mondo, di un posto che resta e di un momento che è fugace, che mentre viene vissuto è già passato. La scrittura di viaggio è allora scrittura del tempo, del ricordo, della rielaborazione di quelle memorie che si sono guadagnate un posto nell’archivio a lungo termine della nostra rete di connessioni sinaptiche. Ma allo stesso tempo viaggiare è riscrivere le proprie convinzioni, ridipingere una parete, aggiungere alla propria vita un quadro, un libro, una storia, una lingua che è una cultura. Viaggiare crea immagini e ricordi, visioni e vividi scorci di paesaggi lontani, istantanee vissute e sviluppate sotto forma di storia, romanzo, racconto. La scrittura fissa l’accaduto e lo conserva. “Questo libro”, scrive Magris sempre nella Prefazione, “è fatto di pagine legate al momento in cui è avvenuto il viaggio, in cui si è attraversata una frontiera o uno Stato che magari non esistono più”. Pagine fresche di sensazioni e rilassata immediatezza. Il viaggio e la scrittura camminano fianco a fianco, l’uno pausa dell’altra, si contengono e si sostengono, riuscendo a creare in chi legge la sensazione di essere trasportati senza peso in quel luogo e in quel momento. Questi viaggi, vissuti e scritti fra il 1981 e il 2002, sono percorsi dell’anima, sentieri intricati di vite e racconti, esperienze e resoconti. Basta saltare in groppa al fedele Ronzinante e lasciarsi guidare sui passi di Don Chisciotte attraverso la Mancha, per poi risalire fino a Londra e scendere verso l’Istria, o puntare ad Est per immergersi nella Mitteleuropa, da Berlino ai sorbi di Lusazia passando ancora per il nord con una sosta al Cimitero nella foresta di Stoccolma. E da lì di nuovo verso oriente, dalla Cina al Vietnam e poi giù fino alla meta: il Grande Sud, la selvaggia, lontana e misteriosa Australia. Un viaggio che è fatto di attimi, musica, museo di possibilità. Il Cimitero nella foresta a Stoccolma, uno dei luoghi visitati da Magris ne L’infinito viaggiare Arriva un momento lungo il percorso in cui bisogna afferrare saldamente le briglie, tenere le redini e districarsi tra i futuri abortiti della storia – come li chiama Ernestina Pellegrini – quei futuri possibili che però non si sono realizzati. “Cecoslovacco o Ceco-slovacco?” ci si chiedeva negli anni ’90. Oggi sappiamo com’è andata, che si è optato per la scissione, ma ci sono variabili che avrebbero potuto cambiare il corso di quella vicenda e la sua soluzione. È di queste variabili che Magris fa tesoro perché sono queste che aiutano a leggere e comprendere un dato momento nella Storia, magari un momento di stallo, d’indecisione, di svolta, progresso o inversione. Ma non si può comprendere un certo evento storico se non attraverso gli occhi di un personaggio che ne ha fatto parte o del luogo in cui quella storia ha avuto origine. Quindi ecco che Magris ci presenta la croce di “Ludwig, l’infelice e impossibile sovrano di Baviera”, annegato in circostanze misteriose il 13 Giugno 1886 nel lago di Stanberg, vicino Monaco, insieme al suo medico, dottor Bernhard von Gudden; ci accompagna quindi nella stanza di Schönberg, rifugio del musicista in fuga dal nazismo, luogo armonioso come l’uomo che ci visse; ci invita a passeggiare tra l’equilibrio di natura e morte del Cimitero nella foresta dove la morte è uguaglianza, è superamento di ogni smarrimento. Ronzinante vacilla ma il viaggiatore non demorde, pensa però che la povera cavalcatura abbia bisogno di una pausa e quale luogo migliore di Jyväskylä, nel cuore dei laghi finlandesi, per fermarsi? Ma qui insieme alla libertà aleggia l’inquietudine, perché siamo nel 1990 e la storia della Finlandia arde ancora come un tizzone che fatica a esaurirsi, alimentato di qua dall’interesse europeo e di là dal richiamo sovietico. Non è questo il luogo per una lezione di storia della Finlandia, in cui entrerebbero in ballo troppe altre storie: dalla prima alla seconda guerra mondiale, e ancora indietro, troppo indietro, fino alla guerra russo-svedese del 1741 (e io vi consiglio di farvela raccontare da Alessandro Barbero che di storia militare ne sa sicuramente più di me). Ripartiamo e arriviamo a Nesset, sulla costa ovest della Norvegia, dopo aver ascoltato le storie dei giocattoli di Hoffman. Cambiamo rotta e siamo in Iran, avanziamo verso est: la grande Cina, il Vietnam e, infine, la meta. Il penitenziario di Port Arthur, Tasmania, descritto ne L’infinito viaggiare di Magris Ci lasciamo qui, sulle rive di Port Arthur, in Tasmania. No, non adesso. Siamo nel 1998, è di Giugno, l’oceano è bellissimo. In realtà Magris ci saluta a Hobart Town, la capitale della Tasmania, ma io voglio congedarmi da qui, da questo luogo che conserva memorie atroci, paradiso in terra testimone di morte e sofferenza. Il penitenziario di Port Arthur è ancora qui, testimone appunto di deportazioni forzate, di condanne crudeli, di torture, suicidi e morti d’innocenti. Qualsiasi reato, per quanto lieve, aveva una sola pena. “L’isola dei morti”, qui accanto, accoglie tutti quegli sfortunati “romanzi condensati di vite incredibili, turpi, violente” ma che hanno saputo resistere a situazioni che noi non possiamo neanche lontanamente immaginare. Perché qui? Perché su quest’altura di Port Arthur l’oceano s’infrange potente e da qui corre senza barriere fino all’Antartide. Non c’è assolutamente nulla in mezzo. La fine del mondo che conosciamo, l’inizio di un nuovo viaggio per il quale Ronzinante è ormai troppo stanco, meglio lasciarlo riposare.... Read more...Il Giardino delle parole, un articolo di C. Francioni || THREEvial Pursuit28 Ottobre 2020Il Giardino delle parole Non so più camminareUn racconto ispirato da Makoto Shinkai di Chiara Francioni Yukari e Takao sotto il gazebo nel parco di Shinjuku Gyoen (Il Giardino delle Parole, 2013) Le strade di Tokyo brulicano di passanti protetti da ombrelli lucidi e grondanti. Il cielo è per lo più grigio ma, di tanto in tanto, sbucano timidi raggi di sole facendo risplendere le pozzanghere. È giugno ed è appena iniziata la stagione delle piogge o, come la chiamiamo in Giappone, tsuyu. Il nome è curioso, ma non senza ragione, infatti le piogge si abbattono sul paese fino a luglio, dando il benvenuto all’estate e accompagnando la fase di maturazione delle prugne (anche se in realtà si tratta di una variante di albicocche). L’aria è umida, ma non fa freddo e non è raro imbattersi in fugaci arcobaleni e bambole teru teru bōzu appese alla grondaia da qualche bambino speranzoso, nel vano tentativo di scacciare il maltempo. Ci sono giorni, come oggi, in cui l’acqua cade ininterrottamente, inzuppa le scarpe, leviga le strade e scivola silenziosa tra i pensieri degli abitanti di questa città. Lo ammetto, non è il periodo dell’anno più indicato per trascorrere il tempo all’aperto oziando nei parchi puliti e curati della capitale. Eppure sono seduta qui, su una panchina del giardino di Shinjuku Gyoen riparata da questo enorme gazebo all’ombra di un pino imponente, e mi guardo intorno, cercando di capire che effetto abbia tutta questa pioggia su di me. A pochi metri si estende un laghetto che cattura nel suo riflesso i colori del mondo. Le fronde dei sempreverdi, appesantite dall’acqua piovana, ne accarezzano la superficie, mentre cerchi concentrici si formano allo stesso ritmo con cui cadono le gocce dal cielo. Tsuyu, o pioggia di prugne (Il Giardino delle Parole, 2013) Una volta amavo i giorni di pioggia, al punto da dimenticarmi l’ombrello ovunque andassi: a casa, a scuola, sui mezzi. L’idea di bagnarmi non mi preoccupava, perché avevo la convinzione che per quanta acqua potesse scivolarmi addosso, non avrei mai mostrato più di quello che tutti potevano già vedere. Erano gli anni in cui camminavo a testa alta, sorretta dalla forza dei sogni. Fin da ragazza non ho desiderato altro che diventare insegnante. Mi sembrava la professione giusta per chi, come me, amava la letteratura e la poesia. Il desiderio di trasmettere ai giovani il senso di appagamento che provavo nel perdermi tra parole forgiate dal sacro fuoco dell’arte era un impulso irresistibile. Per questo sono venuta fino a Tokyo, per questo ho studiato senza distrazioni. Quando ho cominciato la carriera di docente i ciliegi erano in fiore e il cortile dell’istituto, dove insegno tuttora, sembrava ai miei occhi ancora inesperti un passaggio fatato verso il regno della realizzazione. La brezza primaverile accarezzava i petali sgargianti e scompigliava gentilmente i miei capelli: mi sentivo leggera e carica di aspettative. Quel giorno decisi di cominciare la lezione, la mia prima lezione, leggendo i versi di un tanka a me molto caro fin dai tempi in cui io stessa ero una liceale e studiavo sullo libro di testo che i miei studenti avevano, adesso, appoggiato sui loro banchi. “Rombi di tuonoecheggiano tra le nuvolechissà, forse pioverà.Tu resterai con me?” Quella volta ho volutamente omesso l’epilogo del componimento, perché volevo che ognuno dei miei studenti avesse un’impressione personale della poesia e sviluppasse un’idea propria di quella che poteva esserne la conclusione. Tuttavia, nessuno di loro prese l’iniziativa, nessuno alzò la mano, nessuno dimostrò interesse per quelle parole che mi avevano, anni prima, trasformato in una adolescente sognante. Loro, i miei studenti, rimasero immobili e in silenzio. È alquanto strano starsene seduta qui senza sentire il cinguettio degli uccelli. Nei giorni di sole, il loro canto è incessante. Anche quando Hiroshi, che aveva sempre vissuti a Tokyo, mi portò al parco per la prima volta, quella melodia era lì a fare da sottofondo alle nostre effusioni impacciate. “Shinjuku Gyoen è un luogo magico” aveva detto lui, probabilmente per fare colpo, “qui la natura si riprende i suoi spazi e si trova la pace”. Però aveva ragione e suppongo sia questo il motivo per cui oggi sono venuta qui, anche se piove e gli uccelli se ne stanno zitti. Per cercare la pace. Non saprei dire quando ho iniziato ad avere paura. Semplicemente è successo. Quando ho realizzato quello che mi stava accadendo, ormai il processo era già cominciato da tempo: ogni nuovo giorno era peggio di quello precedente e la tendenza sembrava irreversibile. Avevo smesso di dimenticare l’ombrello perché la pioggia era diventata mia nemica: poteva smascherarmi, lavare via il trucco e mettere a nudo le mie ansie. Anche il rapporto con Hiroshi ne risentì: non ci siamo lasciati male, abbiamo semplicemente preso atto che non c’era più un futuro per noi. Tanto che siamo rimasti, se così si può dire, amici. Il Giardino delle Parole di Makoto Shinkai A dire il vero, visto che in questa metropoli non conosco molte persone e siamo entrambi docenti nello stesso liceo, continuo a rivolgermi a lui quando ne ho bisogno, quando mi serve che qualcuno mi sproni, anche se finora non lo avevo ammesso neanche a me stessa. E stranamente a lui va bene. Dovrei chiedermi perché, ma non so se mi interessa davvero conoscere la risposta. Sono certa che avrà già provato a chiamarmi con l’intenzione di sgridarmi perché alla fine, anche oggi, non sono andata a lavoro e avrà dovuto fare i conti con la segreteria del mio cellulare. Non troverà nessuno nemmeno a casa visto che, a differenza dei giorni precedenti, invece di restarmene a letto in compagnia di vestiti non piegati da settimane, sono venuta qui al parco, portando con me un paio di birre e qualche barretta di cioccolata per non restare a stomaco vuoto. La verità, ma la sappiamo solo io e il filo dei miei pensieri, è che quando mi sono svegliata, ho pensato che se mi fossi vestita di tutto punto e fossi uscita di casa, forse sarei davvero riuscita ad arrivare al liceo, a fingere che non mi costasse alcuna fatica entrare e salutare i colleghi e gli studenti. La solita ingenua! Così, adesso mi ritrovo qui, da sola, su questa panchina con indosso il tailleur e ai piedi un paio di tacchi. Mi sento stupida. Chissà cosa penserebbero i miei studenti se potessero vedermi? Probabilmente mi compatirebbero. Del resto non è che abbiano una buona idea della sottoscritta: ai loro occhi sono solo una poco di buono e una fallita. Ora che ci rifletto, mentre bevo il primo sorso di alcol della mattina, sarebbe facile dire che tutto è cominciato in quel momento, quando Ichisake, del terzo anno, ha detto in classe di avere una cotta per me. Il gruppo delle ragazze si è molto risentito e le voci che hanno messo in giro sul mio conto sono terribili. Sarebbe facile, appunto, dare la colpa al cinismo degli adolescenti, ma niente in questa vita è facile e di certo non è affatto facile trovare il bandolo della matassa infeltrita della mia decadenza. Quando i corridoi si sono riempiti di pettegolezzi amari, ero già corrotta. Non ho saputo reagire e ho lasciato che gli eventi mi sopraffacessero. È stata colpa della mia debolezza che attendeva, nascosta nell’ombra, da anni, forse da sempre. E così, giorno dopo giorno, le mie gambe si sono fatte più pesanti, i piedi più incerti, i muscoli più rigidi e la testa più vuota, finché mi sono scordata come si fa a camminare e sono rimasta bloccata, immobile, paralizzata in una stasi di timori e di confusione che non ho più alcuna voglia di combattere. Non sono venuta a Shinjuku Gyoen per cercare la pace, dopo tutto. Sono venuta qui per nascondermi. La pioggia non accenna a smettere, resterò seduta su questa panchina finché non cesserà, poi, forse qualcosa accadrà. Tu resterai con me? Yukari, protagonista de Il Giardino delle Parole Il Giardino delle Parole (Kotonoha no niwa) è un mediometraggio animato del 2013, prodotto da CoMix Wave Films e diretto da Makoto Shinkai, cineasta noto non solo in Giappone, ma anche in occidente, soprattutto grazie al successo mondiale ottenuto con Kimi No Wa (Your name). Lo stile di Shinkai è caratterizzato da un forte iperrealismo grafico che regala allo spettatore scorci carichi di dettagli e paesaggi mozzafiato, sormontati da cieli infiniti e variopinti. Sebbene l’elemento fantastico sia una costante nelle sue pellicole, ne Il Giardino delle Parole, Shinkai ci propone, al contrario, una storia tanto realistica quanto intima, fatta di speranze, timori ed epifanie. Questa storia vede protagonista, da un lato, Takao, uno studente al primo anno di liceo, maturo e determinato, il quale sogna di diventare un calzolaio per disegnare e creare scarpe che possano aiutare gli altri a camminare meglio e, dall’altro, Yukari, giovane docente di letteratura classica che si trova, invece, ad aver perso l’abilità di avanzare, arrancando sempre più nel baratro vischioso delle sue angosce. I due si incontrano per caso in un giorno di pioggia, sotto a un gazebo nel parco di Shinjuku Gyoen (un gazebo che esiste realmente, io ci sono stata, n.d.r.), dove Yukari si è rifugiata per sottrarsi alla minaccia della propria realtà e dove Takao si è recato per disegnare, indisturbato, sul proprio taccuino. Le vite di Yukari e Takao, grazie a questo fortuito incontro, finiranno con l’intrecciarsi per il breve, ma intenso, periodo di tempo che sarà loro necessario a capire cosa fare delle rispettive esistenze. Un film poetico e toccante, che si consuma nel tempo di un lungo sospiro. Pioggia di prugne Si tratta di bambole di stoffa o carta bianca che ricordano, nella forma, dei piccoli fantasmi e sono tradizionalmente considerati talismani per allontanare la pioggia. Sono sicura che ricorderete di averle viste in qualche anime, se non altro da bambini. In Giappone l’anno scolastico inizia ad aprile quando i numerosi ciliegi di Tokyo sono ancora coperti di sakura, i celebri fiori rosa che sono ormai diventati uno dei simboli del paese. Breve componimento in versi... Read more...Festa mobile: une génération perdue, un articolo di R. Cannarsa || THREEvial Pursuit21 Ottobre 2020Festa mobile: une génération perdue Del vivere in prima persona di Rocco Cannarsa Festa mobile è Parigi, una Parigi degli anni venti che si intreccia con la vita e col cuore smarrito di un giovane Hemingway e sua moglie Hadley. Non è solo questo: come spiega nell’introduzione Patrick Hemingway, secondo figlio di Ernest, la festa mobile è un modo di essere, è una parte di noi, una condizione che ci si porta dentro. Il libro è stato pubblicato postumo nel 1964. È un lavoro frutto di manoscritti precedenti integrati e scelti dalla quarta moglie Mary Walsh. Racconti, note di vita, ricordi costruiscono una storia che fa precipitare il lettore nella pienezza della vita cittadina. Mostri sacri come Hemingway stesso, Scott Fitzgerald, Ford Madox Ford, Ezra Pound, Gertrude Stein, sembrano non essere soltanto frutto del proprio talento ma dell’ambiente culturale parigino: quello dei caffè, quello di apertura, di interesse, di attenzione al confronto come attitudine, prerogativa dello stesso lavoro. Vediamo un circolo vivo e coeso, che dà origine a un continuo dialogo di crescita che contribuisce alla formazione degli artisti stessi. Leggere Festa mobile sotto questo unico punto di vista non è abbastanza. Lo si ridurrebbe alle peripezie di poveri artisti da strapazzo, si finirebbe banalizzandolo col ‘mainstream bohémien’ e tutto il resto. Il mio è quindi un invito alla (ri)lettura di questo libro approcciandocisi dimenticando, non senza difficoltà, che “possa essere” una biografia. “Ti ho visto, bellezza, e adesso tu mi appartieni chiunque sia che stai aspettando e anche non dovessi vederti più, pensavo. Tu mi appartieni e tutta Parigi mi appartiene e io appartengo a questo quaderno e a questa matita. Poi ripresi a scrivere e finii nel pieno della storia che si scriveva da sola e non alzai più gli occhi e neanche tenni più conto del tempo né pensai a dov’ero né ordinai altro rum St James. Ero stanco del rum St James anche senza pensarci. Poi finii il racconto ed ero molto stanco. Rilessi l’ultimo paragrafo e poi alzai gli occhi e cercai la ragazza e lei se n’era andata. Spero se ne sia andata con un uomo perbene, pensai. Ma mi sentivo triste. Chiusi la storia nel mio quaderno e lo misi nella tasca interna della giacca e chiesi al cameriere una dozzina di portugaises e una mezza caraffa del loro bianco secco. Quando finivo un racconto mi ritrovavo sempre vuoto e sia triste che felice, come se avessi fatto l’amore, ed ero sicuro che fosse un racconto molto buono anche se avrei saputo davvero quanto buono soltanto quando l’avessi riletto il giorno dopo”.Ernest Hemingway – ‘Un bel Café in Place St-Michel’, Festa Mobile. L’opera è buona quando supera in tutto e per tutto l’autore, nel senso di renderlo secondario, persino irrilevante. Banalizzando: una poesia è pur sempre una poesia a prescindere dall’autore e a prescindere dall’essere letta. Non va negato, però, che sia l’autore il motore dell’opera d’arte, l’artefice, appunto. Kant parla di “produzione mediante libertà”, perché l’atto del pensare-realizzare un’opera è fondamentalmente libero, per quanto a volte si parli di necessità dell’opera d’arte di esistere per sé stessa o, concetto cui allude lo stesso Hemingway (“finii nel pieno della storia che si scriveva da sola e non alzai più gli occhi e neanche tenni più conto del tempo né pensai a dov’ero né ordinai altro rum St James“), dell’inghiottire l’autore nel proprio flusso e al contrario relegarlo a mezzo per la propria realizzazione. Inoltre, un’opera non è neanche riducibile all’intenzione dell’autore perché la si renderebbe semplice strumento comunicativo, tagliandone fuori la componente immaginativo-interpretativa del fruitore, figurarsi l’utilità che avrebbe affiancarla alla biografia. La necessità di ricondurre avvenimenti narrati in prima persona alla vita privata dell’autore, è il segno che la storia non è abbastanza forte da aver taciuto questa naturale curiosità nella mente del lettore, non concedendogli di godere appieno dell’opera in quanto tale. Quel desiderio di alcuni lettori (e critici) di ricondurre romanzi, temi o scelte narrative a momenti biografici dell’autore è, per quanto mi riguarda, un tentativo di comprensione del processo creativo, per nulla rilevante ai fini dello “sviscerare” l’opera e comprenderla appieno. “Quando cominci a scrivere storie in prima persona, se le storie sono rese così reali che la gente ci crede, la gente che le legge quasi sempre pensa che le storie siano davvero successe a te. Questo è naturale perché quando le stavi inventando dovevi farle succedere alla persona che le stava raccontando. Se lo fai in modo sufficientemente efficace, accade che la persona che sta leggendo finisce col credere che le cose siano successe anche a lei. Se riesci a farlo stai cominciando a ottenere quello a cui miravi, cioè fare qualcosa che diventerà parte dell’esperienza del lettore e parte dei suoi ricordi”.Ernest Hemingway – ‘Dello scrivere in prima persona, Festa Mobile. Questa mezza pagina di Ernest Hemingway tratta da Dello scrivere in prima persona, uno degli scritti di Festa mobile, è sempre stata per me in tal senso illuminante. Si prendono di petto, con una inaudita semplicità, i temi di cui sopra e i loro possibili sviluppi, ad esempio quanto la scrittura possa essere verista. Nei dialoghi, nel modo di parlare. Un caro amico cerca instancabilmente di convincermi che lo scrivere sia mediare la realtà con la finzione (e viceversa). Io non sono mai riuscito ad accettarlo, pensando che la scrittura, quella vera, funzioni quanto più si avvicini alla realtà. Una scrittura onesta, come direbbe Hemingway, magari anche banale come la realtà stessa. L’esempio con cui il mio amico giustifica la tesi è che se qualcuno volesse cimentarsi a riportare nell’estremo dettaglio gli sketch di vita della propria giornata su carta, si noterebbe quanto essi siano inadatti alla scrittura. O meglio, quanto la vita da sola non basti alla scrittura. Semplicemente non funziona. La realtà potrebbe sembrare mal scritta. Difatti lo stesso Hemingway (“se le storie sono rese così reali che la gente ci crede“) non parla di una realtà magistralmente descritta ma di plasmare, imprimere una storia di realtà. Questa tesi però aiuta più facilmente a spiegare perché l’autore di narrativa in prima persona “non può ragionevolmente aver fatto tutto quello che il narratore ha fatto e, forse, niente del tutto”. Festa Mobile diventa per me una piccola guida per scrittori, una panoramica di ciò che è il mestiere di scrivere. Un lavoro che non si può limitare alle ore di ufficio, perché la scrittura è vita. E se scrivi in modo “sufficientemente efficace,” – frutto di un metodo, impegno, non solo frutto di virtù, talento, ma di sudore leopardiano – “accade che la persona che sta leggendo finisce col credere che le cose siano successe anche a lei”. La possibilità quindi di trovare l’universalità nella particolarità, la storia, i pensieri di una molteplicità di individui specchiati in un’individuale visione del mondo. Interiore perché truccata, narrabile, resa fiction. Se riesci a farlo stai cominciando a ottenere quello a cui miravi, cioè fare qualcosa che diventerà parte dell’esperienza del lettore e parte dei suoi ricordi. La stranezza che coglie l’attenzione e la familiarità che assottiglia il limite con il diverso, l’altro da sé. Per scrivere bene dunque devi vivere, ascoltare, guardare. Non si smette mai di lavorare. Per non pensare al lavoro devi leggere (la lettura però va a influenzare il lavoro, lo stile) o fare l’amore, ma poi tutto torna uguale, e il racconto non può scriversi da solo o non avrai niente da scrivere il giorno dopo. Questo è uno dei consigli di Festa Mobile, che insegna come essere un artista sia una “falsa primavera”, perché dietro a ogni felicità c’è sempre un abisso incolmabile, frutto dei propri splendori e le proprie miserie al contempo. Questo concetto sembra portare consapevolmente e senza inquietudine alla soglia di ciò che mi piace definire ‘autolesionismo mentale’: una sofferenza ineludibile perché fa parte della propria visione della realtà. Mi viene in mente il nuovo e molto discusso (troppo negativamente, a mio avviso) album di Francesco Bianconi, che nel brano L’abisso dice “guardo il mondo senza gli occhi che vorrei”. Il riferimento è a un dramma personale che cambia il modo di vedere. Uno sguardo innaturale che è patologia di quella sensibilità “artistica” degli animi malinconici – su cui mi sento quanto il più possibile di insistere ogni volta che ne ho occasione – che trovano nella creazione artistica una via di fuga o banalmente di sfogo dai loro traumi. Perché è il proprio abisso la spinta alla produzione. Penso al neonato Eccitare l’abisso di Roberto Masi, indagine dell’umano vuoto/profondità attraverso l’arte indagine che, come scrivere, costa dolore, ma doverosa per essere padroni di sé. Un esempio di questo amore-odio verso la propria vita/visione del mondo è la povertà che incornicia l’esistenza di Hemingway negli anni del racconto. Una povertà non solo evitabile in più occasioni ma quasi ricercata, come se servisse a mantenere viva quell’ansia di cadere nel proprio baratro, alimentando il proprio dramma in modo che diventi la propria ragion d’essere. “Noi mangiavamo bene e a poco prezzo e bevevamo bene e a poco prezzo e insieme dormivamo bene e al caldo e ci amavamo”. Hemingway si dice “molto povero e molto felice”. “Tutti i quadri erano più intensi e più chiari e più belli se eri a pancia vuota, con una fame da lupo”. Uno stile di vita che rimanda alla sofferenza di un santo o di un martire, capace di portare alla follia e alla malinconia di cui parla Walter Benjamin ne L’origine del dramma barocco tedesco. Una sofferenza (in)naturale per l’inadeguatezza verso la propria sensibilità e la propria visione del mondo, di cui non si è che vittime. Uno stile di vita che ti fa morire nell’immortalità, che ti fa sentire padrone del mondo intero, potendolo fissare su carta. Ma ti rende schiavo, di un quaderno e di una matita. La bohème, la bohèmeOn était jeunesOn était fousLa bohème, la bohèmeÇa ne veut plus rien dire du tout-Charles Aznavour... Read more...Arte & Capitalismo, un articolo di S. Cegalin || THREEvial Pursuit14 Ottobre 2020Arte & Capitalismo Abissi nell’estetica mercificata di Silvia Cegalin Le basi del capitalismo artistico. Come l’arte si sia trasformata in prodotto Nel saggio La parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia del 1876 Friedrich Engels descrive l’evoluzione dell’essere umano dalla scimmia, ricalcando per più volte l’idea che siano stati il lavoro e la coscienza le condizioni fondamentali che hanno permesso lo sviluppo della vita umana. Non è un caso, dunque, se la scena più significativa del film The Square del 2017 del regista Ruben Östlund, incentrato sulle strategie “commerciali” presenti nel mondo dell’arte contemporanea, riguardi un uomo, un famoso artista, che durante una cena di gala organizzata dall’élite della classe culturale decide, attraverso un atto volutamente delirante, di staccare la propria figura da uno sfondo sbiadito dall’ipocrisia e di impersonare una scimmia, aggirandosi tra commensali che imbarazzati e impauriti non si capacitano di ciò che sta succedendo. La figura/metafora dell’artista primate ci riporta a dover riflettere su quanto l’umano abbia gradualmente perso una relazione genuina con gli “oggetti” con cui interagisce, tra cui anche l’arte, costruendo strati su strati che lo allontanano dalla radice delle cose. Attraverso questa scena inoltre il regista inietta un po’ di pazzia in un ambiente artistico che, specialmente al di fuori della finzione cinematografica, appare addormentato nelle proprie grazie e abitato da personalità che hanno perso la fame creatrice, innalzando a loro unico dio le perverse logiche del sistema. Logiche che, ormai non serve più ripeterlo, hanno come unici scopi la produzione, la vendita e la visibilità. Associare l’arte a qualcosa di puro e distaccato dai fenomeni del reale dev’essere considerato ingenuo, se non alquanto inverosimile. Con la modernità, periodo che porta a numerose trasformazioni sia in campo industriale che culturale, l’opera d’arte – facendo eco a Walter Benjamin – smarrisce la propria aurea e da oggetto esclusivo, vivo, avente un valore intrinseco e soprattutto irripetibile, gradualmente si trasforma fino a diventare un prodotto commerciale che succube dei ritmi febbricitanti e dell’invenzione di nuove macchine smarrisce la relazione con il sacro, l’astratto e la bellezza. L’opera nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è il primo passo che avvia il campo dell’arte a comportarsi come il settore industriale. Le creazioni entrano quindi nel circuito della serialità e della simulazione diventando pezzi di un sistema in cui uno può essere sostituito all’altro. Una moltitudine, un ammasso di oggetti che tramite un’esposizione indiscriminata annientano il loro status artistico per assumere le forme della merce e del feticcio, all’interno di un apparato culturale che non si accontenta più della straordinarietà del singolo, che pretende una sua costante ripetizione e riproduzione. Questo ragionamento vale non soltanto per la fotografia e il cinema che – come sottolineava d’altronde lo stesso Benjamin – erano le arti che incarnavano maggiormente gli ideali industriali, ma possono riferirsi anche ad altri settori artistici (come le arti figurative o la letteratura ad esempio) in cui gli artisti si ritrovano ad essere soggetti alle imposizioni di produzione e vendita dettati dal capitalismo culturale. Non si è più artisti ma si fa gli artisti. L’idea di creare perché sospinti da un’esigenza interiore, dall’ispirazione o, citando Antonin Artaud, per fuggire dall’inferno: con l’entrata del capitalismo nell’arte ciò non può più esistere. L’alienazione tipica della classe lavoratrice infetta anche gli artisti e il perché, lo spiega bene Karl Marx in Teorie sul plusvalore (1863): il capitalismo essendosi allargato ad ogni aspetto della vita, sia essa sociale o economica, ripropone gli stessi meccanismi; se ne deduce che l’artista, proprio come l’operaio, per guadagnare dovrà produrre molte opere, opere cui unico scopo sarà la vendita e la loro pubblicità, e non più l’ideazione di creazioni originali scaturite da un impulso spontaneo. Ora, sempre seguendo il pensiero marxista, un altro punto appare essenziale in questo discorso: ossia come l’idea utilitaristica nell’arte assuma un significato diverso da quello presente in ambito industriale, perché l’arte non è considerata un bisogno primario, inoltre è difficile tradurla in termini materialistici. Detiene tuttavia il potere nel plasmare l’immaginario, i gusti e l’estetica, oltre che generare idee. Fattori che, specialmente con l’incedere della modernità, entrano a pieno titolo negli elementi utili per far esplodere un’economia che si identifica nel profitto e nel consumismo. Ecco pertanto, che il capitalismo nella sua versione più aggressiva sfrutterà l’arte per manipolare la cultura, la sensibilità estetica e il senso del bello in base alle proprie esigenze. L’artista, di conseguenza, si troverà a vivere un conflitto interno in cui dovrà scegliere se creare seguendo le proprie idee e l’istinto, rischiando però di non essere capito da un pubblico e da una classe dirigente che è ammaestrata per apprezzare altro, oppure se abbandonarsi al canto di sirene che deviandolo dal proprio sentimento, lo indurranno a inchinarsi di fronte ai tentacoli del mostro capitalista e a essere così rapito da esso. E il potere, come ben sappiamo, ha capacità di deformare la natura delle cose. Non solo infatti ha condotto l’artista e l’arte a rivestire funzioni diverse da quelle che possedevano in origine, storpiandone quasi il loro senso intrinseco, ma ha anche mutato sé stesso e le sue forme di manifestazione, disegnando un nuovo tipo di capitalismo che si adattasse ai cambiamenti sociali in atto. Interessante fenomeno che è stato analizzato recentemente da Gilles Lipovetski e Jean Serroy in L’estetizzazione del mondo. Vivere nell’era del capitalismo artistico, in cui i due autori affrontando il concetto di “capitalismo cognitivo”, spiegano come – nella contemporaneità – la prima merce da mettere in risalto non sia tanto il manufatto quanto noi stessi, le nostre conoscenze, le nostre potenzialità e le nostre idee. È l’immateriale, per usare un termine caro ad André Gorz, a essere al centro delle strategie capitaliste, perché è in corso la sfida di rendere monetizzabile e commerciabile ciò che appartiene alla sfera dell’intelletto, in modo da stabilire un’economia che non escluda nessun aspetto della società, compresa la conoscenza e ovviamente la creatività. Se ne deduce che gli artisti in questa fase dovrebbero concepirsi come “capitale umano” e dunque imprenditori di loro stessi, in grado di trasformarsi in base alle opportunità offerte dal momento. Anche con l’analisi critica di Lipovetski e Serroy, quindi, si ritorna all’idea di un’artista che prima di essere deve mostrarsi e mostrare. Un capitalismo artistico che, stando agli studi di Luc Boltanski ed Ève Chiapello raccolti nel libro Il nuovo spirito del capitalismo (testo che anticipa di circa dieci anni L’estetizzazione del mondo), in nome dello spirito libertario e della necessità di una maggiore autonomia espressiva diffusisi negli anni 60’, è riuscito a convertire, anzi a distruggere, la propulsione creativa che in quel periodo era sbocciata, ridefinendola secondo i canoni del libero mercato, reimpostando un assetto alternativo al binomio lavoratore/merce, sfruttato/sfruttatore. Ma – e qui sta la sua “forza demoniaca” – il capitalismo è riuscito a penetrare nel mondo dell’arte camuffandosi esso stesso dà valore artistico, iniziando a dominarlo secondo le politiche d’impresa. Politiche che si sono espanse anche al funzionamento delle attività artistiche, che oggi più che mai, incorporano il suffisso “iper” che nel consumismo, nella proliferazione e nella flessibilità si esplica nella maniera più emblematica. L’estetica si è adattata a questa babele di produzioni, e il surplus di esibizioni cosiddette artistiche e l’inflazione di eventi/manifestazioni culturali ne sono un esempio. Che cosa valga veramente, che cosa meriti la nostra attenzione è difficile da stabilire perché, per riprendere il concetto di arte espansa di Mario Perniola, in tale abuso di futilità e insulsaggini l’arte autentica è stata oscurata da un imbarbarimento del pensiero estetico. È inevitabile quindi che alla massificazione dell’oggettualità artistica segua la graduale sparizione dell’arte ed è in linea con il pensiero di Jean Baudrillard, che nell’omonima La sparizione dell’arte, dichiara come il feticismo commerciale e il culto sfrenato verso le cose abbiano condotto alla svalutazione delle creazioni artistiche, diminuendo la consapevolezza su noi stessi e il mondo che l’arte spesso stimolava. È urgente di conseguenza, ribadisce il filosofo, che l’arte e gli artisti resuscitino il proprio ruolo, contrastando il nauseante circuito di mercificazione delle idee. L’arte è una questione di classe sociale. Se non si può asserire che l’arte sia sganciata dalla sfera economica, è perciò importante considerare l’artista come un lavoratore. Per quanto tale affermazione appaia banale, in merito anche alle riflessioni svolte precedentemente, è comunque risaputo che ancora ad oggi persistono numerose contraddizioni per descrivere il ruolo dell’artista all’interno di una società dominata da un capitalismo che, personalmente, definirei multiforme. Il resuscitatore del marxismo Theodor Adorno, non a caso, con la formulazione del concetto di “industria culturale” intendeva proprio sottolineare il legame condizionante che intercorreva tra le varie componenti sociali-economiche e l’arte. È però evidente che nonostante i molti dibattiti e la vasta letteratura inerente il capitalismo artistico e la trasformazione dell’opera d’arte in merce, rimane spesso secondaria una questione a parer mio di estrema importanza, ossia il ruolo che la classe sociale di appartenenza ha nella formazione e nell’affermazione degli artisti. Molti, forse, troveranno obsoleto l’uso del termine “classe”, in alternativa possiamo parlare di livello del reddito, grado di istruzione o di possibilità economiche, il discorso comunque non cambia, perché stando a una ricerca condotta nel 2015 dalla Goldsmiths University e dalla Arts Association Create, è emerso che l’80% delle persone che lavorano e fanno arte nel Regno Unito provengono dalla classe medio alta. Ora, un dato di questo tipo dovrebbe suscitare vergogna e stimolare gli imprenditori culturali a creare sistemi di finanziamento e sostentamento in grado di rimarginare questa ferita che vede i meno abbienti esclusi. Al contrario, come d’altronde è riportato nell’articolo Can Only Rich Kids Afford to Work in the Art World? del 2017 a firma di Anna Louie Sussman in Artsy, affiora la problematica che mentre negli altri campi industriali si sta investendo per formare una forza-lavoro eterogenea, in quanto la varietà dei soggetti coinvolti porterebbe a prestazioni migliori, il settore dell’arte si estrania da ciò, rimanendo ancorato a pratiche economiche basate in larga parte sulle donazioni, sul collezionismo e sulla promozione tramite i social media, nonché su prestazioni di lavoro che spesso sono retribuite malvolentieri. Un altro aspetto preoccupante che concerne la formazione degli artisti, è il fatto che si acquisisce lo status di artista dopo aver superato “varie prove”. Per arrivare a esporre o a pubblicare le proprie opere nella famosa galleria, biennale o con un editore conosciuto, è indispensabile “entrare nel giro giusto” (e pure in questo caso si presuppone la provenienza da un ambiente borghese e zone geografiche evolute e non isolate), o un curriculum che elenchi considerevoli esperienze. Esperienze che richiederanno l’investimento di tempo e denaro che, ovviamente, non tutti sono in grado di sostenere. Penso ad esempio alla partecipazione di seminari, corsi di specializzazione, stage e workshop che non sempre vengono finanziati dall’ente organizzatore, ma che spesso sono a carico del partecipante, e talvolta si svolgono all’estero o lontano dalla propria città. Questa mia riflessione non si basa su un’ottica pessimistica, ma reale. Non vuole affermare che chi proviene da un ambiente agiato non possa essere un bravo artista, e che chi è più povero non ce la possa fare. Ma perpetuare l’idea romantica che il figlio/a di un operaio o di un impiegato, abbia pari opportunità di un figlio/a di un medico, di un avvocato o di un imprenditore, vuol dire negare l’esistenza stessa del capitalismo che ha fatto del denaro la sua arma vincente. La regola è molto chiara: se hai soldi puoi – se non hai soldi non puoi. Senza contare il fatto che chi domina le scene artistiche e intellettuali produce visioni e idee capaci di influenzare il modo di pensare nonché la cultura stessa, perciò ci troviamo a essere schiavi – o sovrani – non solo della nostra condizione economica, ma anche di un capitale di pensiero modellato da altri e in cui si rischia di non riconoscersi e sentirsi esclusi. Lo studio Social Class, Taste and Inequalities in the Creative Industries a cura di Dave O’Brien, Orian Brook e Mark Taylor, pubblicato nel 2018 in collaborazione con l’Università di Edimburgo e Sheffield, ha inoltre svelato che a essere determinante per diventare artisti, oltre la propria provenienza sociale, sono anche il genere, la nazionalità, la religione e la lingua della persona. Con una semplice frase quindi si potrebbe dire: tutti possono fare arte, ma non tutti possono diventare artisti.... Read more...Klub Taiga, un articolo di T. C. Efres || THREEvial Pursuit7 Ottobre 2020Klub Taiga (Dear Darkness) di Thea C. Efres Io non voglio scrivereNon voglio lasciare niente di significante al mondoNon voglio lasciare la forma della parola scrittaVoglio negarmi e rompere con la storia che non ho scelto di me… (Klub Taiga) Innanzitutto, credo di dover dare una breve spiegazione del motivo che mi porta su queste pagine telematiche a essere ospite di Three Faces. Io non scrivo molto, non ho mai pubblicato niente – almeno di rilevante – e se sento il dovere di farlo in questa situazione particolare, lo faccio solo per un profondo senso di amicizia che mi lega al direttore Andrea Biagioni, poiché ciò è avvenuto su sua esplicita richiesta. Prima di iniziare a scrivere questo articolo, imponendomi rigorosamente di aspettare che calassero le tenebre, un interrogativo mi ha creato un notevole turbamento – che poi è lo stesso turbamento che mi coglie ogni volta di fronte all’atto della scrittura: avrei potuto dire tutta la verità? Mi è stato assicurato dal diretto interessato che non me lo avrebbe negato e quindi eccomi qui, a costringervi in una lettura che mi auguro non vi risulti pesante e soprattutto, artefatta. Vi dirò quindi che ho incontrato Andrea circa dieci giorni fa poco dopo la mezzanotte all’uscita dal Teatro Fabbricone dove, evidentemente, entrambi avevamo appena assistito allo spettacolo Klub Taiga di Industria Indipendente per Contemporanea 2020. In verità, non ci vedevamo da almeno dieci anni. Ci siamo lasciati cogliere da una lontana nostalgia e abbiamo pensato fosse l’occasione giusta per qualche ricordo di fronte a un buon whiskey, Jameson, Gold Special Reserve, tripla distillazione. Ovviamente, ci siamo chiesti che avevamo fatto in questa decade, quali speranze avevamo realizzato e quali deluso e infine è venuto spontaneo domandarsi che diavolo ci facessimo lì. Domanda a cui è stato meno semplice rispondere di quanto possiate immaginare. Abbiamo risolto l’imbarazzo limitandoci a parlare di Klub Taiga. Lui era lì per lavoro, io per passione. Già questo segna la distanza tra le strade che abbiamo deciso di percorrere. Scoprimmo inoltre, e con un certo stupore, che avevamo assistito praticamente ai medesimi spettacoli del Contemporanea Festival di quest’anno. Sei spettacoli e non ci eravamo mai veduti. Ne ridemmo e poi iniziammo a discutere su ciò che avevamo visto in quei giorni: due pollici su di entrambi per La Reprise di Milo Rau; pollice su per la realizzazione ma riserva sulla coesione della rappresentazione per The Mountain di Agrupación Señor Serrano; apprezzamenti sulla scenografia e sull’interpretazione per Varietà di Greta Francolini; rimandato Un/Dress di Masako Matsushita perché, ci dicemmo tutti e due quasi all’unisono, “mi aspettavo qualcosa di più pittorico”, ma decidemmo infine che le performance mal fatte sono ben altre e quella era semplicemente una “bella fase di evoluzione artistica, come accade per i bruchi”. Chiudemmo la rassegna sulle grosse aspettative per Memento Mori di Sergio Blanco il giorno successivo: non rimanemmo delusi. E Klub Taiga? «Mai vista una roba del genere. Delle folli, delle incoscienti. Straordinario, geniale. Anche se non sono ancora sicuro di sapere cosa ho visto davvero. L’unica certezza è che in Contemporanea c’è sempre qualcosa che riesce a lasciarmi a bocca aperta. Quest’anno è Klub Taiga». Fremeva, ma il suo tono sembrava turbato. Ne discutemmo ancora a lungo e alla fine mi disse: «Dovresti scriverlo tu il pezzo su Contemporanea. E dovresti scriverlo su questa performance». Gli dissi quello che ho detto a voi e cioè che io scrivo poco, principalmente per me, e che non amo pubblicare. «E sbagli, te l’ho sempre detto. Sei una delle migliori penne che conosca, anche se capisco perché non vuoi pubblicare. Ma non è questo il caso. Questo articolo lo devi fare tu, lo devi fare per me. Tu lo racconterai di certo meglio di quanto mai potrei fare io. E poi io non posso». Gli chiesi perché. «Perché è come si sente dire in Klub Taiga. Io non voglio più scrivere». Avrei voluto insistere e capire il perché di quella frase, di quell’imposizione, ma sapevo per esperienza che non ne avrei tratto niente quella sera e che non era una buotade del momento. Glielo leggevo negli occhi che ben conoscevo, lo spleen. E non mi sentii di dirgli di no. Ora immagino vogliate sapere che cos’è il Klub Taiga, ma io questo non posso dirvelo, non ho quella verità. Posso darvi la mia di verità, quello che a me è (ap)parso. Ebbene, Klub Taiga è la fine, o meglio lo stadio finale della decadenza. Klub Taiga è un non luogo o, se preferite, il luogo dell’eterno non-ritorno, uno spazio indefinito che travolge il lato più primordiale dell’animo con immagini frammentate di ombre e luci, mentre nelle vene pulsa un rave electro-industrial mediorientaleggiante che sembra volerti esplodere in petto. La musica è stordente, le luci asfissianti, le ombre sempre pronte ad accoglierti in un vortice sul cui fondo puoi scorgere il centro esatto di quel buco nero a cui siamo ineluttabilmente destinati, e che sembra risucchiare ogni cosa intorno con un’ultima, intollerabile implosione di raggi e suoni. È il momento esatto in cui comprendi come deve essersi sentito David Bowman oltrepassato Giove, attraverso l’infinito. Solo. Le persone intorno a te non esistono più e se a volte le percepisci, quasi ti arrecano insofferenza. Quelle sul palco invece non sono persone, sono fantasmi, proiezioni di movimenti e solo a tratti voci per parole che non sembrano avere più nessun senso. Discorsi da ubriachi, discorsi “tossici” e forse per questo così puntuali, ma in fondo nient’altro che bei versi in cui il tutto e il niente si amalgamano nuovamente nella loro essenza embrionale, che è l’insignificanza intesa – per assurdo – nel suo significato più profondo: l’assenza di segno. Photo by Martina Leo “There was a word inside a stone I tried to pry it clear Mallet and chisel, pick and gad Until the stone was dropping blood But still I could not hear The word the stone had said.I threw it down beside the road Among a thousand stones And as I turned away it cried The word aloud within my ear And the marrow of my bones Heard, and repliedO let there be no signs! Let all the evil we have done be done and minds lie still as sunlit meadows lie”. Ora comprendo cosa può aver fatto scattare Klub Taiga dentro una persona che sente di aver perso la sua unica forma di espressione. Industria Indipendente ha messo a nudo l’attuale inutilità della parola, è riuscita a ridurla in tutto tranne che nella quantità. E infatti verso la fine le parole si accavallano come fossero pronunciate da centinaia di voci. In realtà si uniscono, ingrossano come un fiume in piena, perché è una sola la voce che le contiene, e poi ti travolgono. Non posso far a meno di pensare, mentre guardo, che in fondo quello non è altro che il nostro mondo; è questa società in cui sentiamo il dovere di essere sempre, comunque e ad ogni costo al centro dell’attenzione ma senza agire mai, perché agire significherebbe rischiare di fallire e il fallimento non può essere contemplato. Di conseguenza non ci resta che riversare raffiche di parole vuote sugli altri, solo per imporci, per sentirci dire che siamo bravi, che siamo intelligenti, e quindi solo per allontanare la nostra inettitudine, la nostra insignificanza. E allora è comprensibile che arrivi il punto in cui qualcuno dice basta. Basta parole, basta segni, basta voci. Mi ha stancato il vostro blaterare inconsistente. Ho bisogno di altro, io ho bisogno di contemplare. Io voglio danzare sull’orlo di questo buco nero, voglio lasciare andare ogni inibizione e lasciarmi esplodere di luce, prima di farmi inghiottire come il suono, la voce e l’ombra nel freddo e inospitale buio del nostro non-luogo. Io voglio il silenzio, perché è forse il silenzio l’unica via per riuscire a dare nuovamente un senso ai segni, qualunque sia la loro forma. In conclusione, vi avevo promesso che avrei cercato di non risultare pesante e non credo di aver centrato l’obbiettivo. Che il provare a orientarmi nell’ineffabilità di Klub Taiga vi abbia però trasmesso qualcosa, perlomeno la curiosità, questo sì, me lo auguro. E mi auguro che dopo la Biennale e Contemporanea, vi siano altre date, che anche voi abbiate la possibilità di vedere cosa può partorire il folle, ordinato caos di Industria Indipendente, perché c’è bisogno di stimoli e di menti come loro. KLUB TAIGA(Dear Darkness) di Industria Indipendentecon Annamaria Ajmone, Erika Z. Galli, Steve Pepe, Martina Ruggeri, Federica Santoro, Yva&The Toy George e con Luca Brinchiimmagini / visioni / segni Dario Carratta, Timo Performativo, Floating Beauty costumi TEIN clothingproduzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale con il sostegno di Angelo Mai... Read more...Agosto: guida in città, un articolo di C. Durden || THREEvial Pursuit30 Settembre 2020Agosto: guida in città di Corto Durden Agosto, guida in città È un bel po’ che non scrivo, e infatti avverto la ruggine, nella mente e nelle dita. Ho automatizzato altri movimenti sulla tastiera, altre scorciatoie, parole chiave da immettere in tabelle piene di dati e numeri e statistiche. Preferisco tradurre i miei pensieri su un file word piuttosto che informazioni asettiche su fogli di calcolo, ma mi sembra di avere sempre meno tempo per farlo. Riuscire a coniugare il lavoro e i propri interessi e al tempo stesso resistere alla sempre più opprimente afa di agosto, poi… beh, siamo quasi nella dimensione dell’utopia. Per andare al lavoro adesso uso la macchina. L’automobile. In pratica ho 29 anni, ho preso la patente a febbraio ma ho iniziato a guidare dalla metà di luglio di quest’anno. Ho acquistato un’utilitaria usata insieme alla mia compagna, e sto imparando a portarla davvero solo adesso. Ho attaccato il foglio con la “P” sul lunotto, in bella vista, come uno scudo contro le ire di chi mi sta dietro: “Qui c’è la P, amico… sono protetto, lasciami guidare in santa pace e in sacrosanta insicurezza”. Non sempre funziona, a volte probabilmente sortisce l’effetto opposto, ma alla P per principianti do comunque un 6.5 su 10 per la sua efficacia. Guida in città alla sera Guidare la mattina è più piacevole rispetto al tardo pomeriggio, il traffico scorre meglio, ci sono meno veicoli e anche il sole è meno violento. Alle 8 è un pugile che sta facendo stretching, ma alle 18 è ancora in piena trance agonistica e pronto a demolire tutto quel che si trova sotto prima della fine dell’incontro. Fa caldissimo ad agosto in città. E non c’è aria condizionata che tenga, quando sei ancora un pilota alle prime armi e sei fermo alla rotonda aspettando il momento giusto per inserirti con una coda di macchine dietro la tua, e un tizio sempre pronto a sbranarti in primo piano nello specchietto retrovisore; oppure quando devi parcheggiare in una situazione complicata, magari con qualcuno che ti osserva e ti giudica silenziosamente. In quei momenti io inizio a grondare sudore, e si gronda che è una bellezza. Qualche giorno fa ero su una strada a scorrimento e sono arrivato a un bivio. Avrei dovuto girare a sinistra ma me ne sono accorto tardi e, trovandomi ancora nelle corsie di destra, non ho potuto far altro che proseguire nella direzione sbagliata. Mentre realizzavo l’errore ho rallentato – gradualmente – cercando di capire come fare per tornare sul percorso giusto. Ho rallentato ma non ero fermo, l’auto continuava ad andare a un ritmo tutto sommato accettabile – o perlomeno era accettabile secondo me, e mi duole dirvelo ma l’unica opinione che leggerete in merito è la mia. Il tizio alla guida dell’auto dietro ha invece ritenuto necessario farmi sentire il suo clacson – alla P per principianti do in questo caso l’insufficienza. Ad ogni modo il tipo mi ha fatto innervosire, perché non avevo fatto nulla di pericoloso e volendo poteva anche sorpassarmi sfruttando l’altra corsia. Ho alzato una mano come a dire “calma”, e l’ho guardato dallo specchietto centrale. Una classica faccia di culo, più o meno della mia età. Avete presente, no? Dalla t-shirt spunta il collo e attaccate al collo ci sono due chiappe. Ecco, è più o meno questo ciò che ho visto nel retrovisore. Comunque quest’anno pare che il traffico sia calato nelle due settimane centrali di agosto – neanche così tanto rispetto al passato perché in piena crisi da Covid la gente ci ha pensato un po’ su, giusto un po’, prima di prendersi le ferie – prima di tornare a inflazionare le strade nell’ultima. Verso lo scadere di agosto hanno iniziato a riformarsi le stesse code chilometriche che avevo potuto apprezzare a luglio: momenti mistici di claustrofobia motorizzata in cui vorrei potermi fermare e far librare un drone, per riprendere dall’alto le strade straripanti di scatole d’alluminio che gettano CO2 su CO2 nell’aria – tu chiamala se vuoi “aria”. È il 2020 e non si vede una macchina elettrica nemmeno a pagare (magari ce n’è qualcuna a metano, ma non avrei idea di come riconoscerla). Nemmeno io ho una macchina elettrica, o a metano. La mia utilitaria inquina. Ma io sono come la Cina, ho preso la patente molto tardi, rivendico il mio diritto di sporcare l’aria e compromettere l’ambiente come hanno fatto tutti prima di me… non è vero, non rivendico un bel niente, e spero di potermi presto permettere un mezzo meno inquinante. Anzi, mi piacerebbe ancor più trovarmi casa vicino al lavoro, o un lavoro vicino casa, ed evitare così le code-il casino-il malumore connaturati alla vita nel traffico. Guidando mi sono reso conto di una cosa, e cioè che l’ambiente della strada e degli automobilisti è come quello delle sezioni commenti su Facebook, o Twitter, o qualsiasi social vi venga in mente insomma. Ognuno si sente libero di inveire sugli altri autisti e di esprimersi a sproposito quando è al sicuro nel proprio abitacolo, proprio come avviene nella dimensione online dove ci sentiamo protetti per via della distanza, dello schermo che ci separa dai nostri interlocutori. Suoniamo, imprechiamo, ci mandiamo affanculo, siamo sempre pronti a litigare da un finestrino all’altro, senza curarci delle conseguenze né dei fattori che magari hanno influito sugli errori dell’altro o dell’altra. Lo stile comunicativo che vige sulla strada e permea le interazioni tra autisti è aggressivo e sboccato, un linguaggio che viene universalmente percepito come normale nelle situazioni di guida. Che poi, la maggior parte delle incazzature e delle imprecazioni sono dovute alla guida lenta di chi ci precede. Certo, l’utilizzo del clacson può esser legittimo o necessario, ma molte volte è la lentezza a innescare gli autisti portandoli a suonarlo con tutta la nevrosi di cui dispongono. Come se dovessimo procedere per forza a ritmo spedito, come se l’unico modo di percorrere una strada fosse sempre il più velocemente possibile. Ma chi l’ha detto che dobbiamo andare perennemente di fretta, o col peperoncino in culo, come dicevano grandi sagge e saggi d’altri tempi e d’altri luoghi? “Un tempo le strade assecondavano il paesaggio, l’importante era il viaggio e non la meta. Oggi le strade tagliano il paesaggio senza pensarci due volte, l’importante non è più il viaggio ma arrivare a destinazione”. Parecchi anni fa ho sentito questa frase o una cosa simile in un film, vorrei tanto potervi dire quale film ma purtroppo non riesco a ricordarlo né a rintracciarlo su Google. Fatto sta che quella frase mi colpì molto quando la sentii, e oggi mi torna in mente perché rispecchia appieno le mie impressioni sul nostro modo di vivere l’auto e la guida. Guidare potrebbe anche essere piacevole se fossimo tutti liberi di farlo a nostro modo e coi nostri ritmi – rispettando le regole, chiaro, non me la sto mica prendendo col codice stradale anche se questo discorso m’è sempre sembrato molto convincente –, senza qualcuno che ci corre costantemente dietro, ma il più delle volte non lo è. Nulla di cui stupirsi, in fondo. Che viviamo in una società ossessionata dalla velocità d’esecuzione lo sapevo già, lo sanno tutti, si nota in ogni cosa – da come lavoriamo a come passiamo il tempo libero a come guidiamo a come consumiamo qualsiasi cosa che possa esser consumata. Nessuno si gode il viaggio, nessuno sembra nemmeno interessato al fatto che possa esserci un viaggio da godersi. Ciò che conta è bruciare i tempi, tutti i giorni e ogni giorno di più. So che molte delle cose scritte qui sopra sono banali, che mi sono parse degne di nota solamente perché sono ancora agli albori della mia carriera automobilistica e devo imparare tante cose – fregarmene degli altri, essere più attento a interpretare i segnali, padroneggiare la vettura. Magari imparerò a guidare bene a velocità sostenute e inizierò anch’io a lamentarmi della lentezza degli altri. Magari suonerò il clacson e imprecherò contro i neopatentati che non accelerano abbastanza, e lo farò in parte perché andrò di fretta, e in parte perché sarò stato influenzato dal linguaggio dominante nell’ambiente strada. Per ora, guidare è per me un’esperienza prevalentemente ansiogena che mi fa sentire a disagio… anche se non mancano i momenti in cui riesco a godermi il viaggio, per l’appunto. Momenti in cui tutto accade alla velocità e alla temperatura giusta, le manovre e i cambi di corsia filano via lisci, non ho paura di fare cagate e, come per magia, non ne faccio. Qualche sera fa ero di ritorno dal lavoro e mi accingevo a percorrere un sottopassaggio nella corsia centrale di una strada molto trafficata, mi sentivo tranquillo al volante nonostante le tante auto intorno a me e mi piacevano i brani che la radio stava passando. Tra un pezzo e l’altro, nell’oscurità del sottopassaggio, una voce profonda ha recitato queste parole: “Tutti gli scrittori devono fare pratica ogni giorno, allenandosi a scrivere per almeno un’ora. Non importa quali siano gli ostacoli, se vuoi inseguire la tua passione devi essere pronto a fare dei sacrifici” o comunque una cosa del genere. Per un attimo mi hanno aperto la mente, perché le ho sentite come dirette a me in un periodo in cui faccio davvero fatica a trovare spazi, nelle mie giornate, da dedicare alle mie passioni o alle mie ambizioni. Mentre riflettevo e uscivo dal sottopassaggio è partito un altro brano, ho beccato due verdi di fila e la macchina andava e io insieme a lei, verso la mia lei, e verso i miei pensieri.... Read more...“Popolo se m’ascolti”: l’Eccidio del Padule, un articolo di G. Bindi || THREEvial Pursuit23 Settembre 2020“Popolo se m’ascolti”: l’Eccidio del Padule Il tramandare emotivo di una strage taciuta di Gianluca Bindi Celebrazioni per il 76.o anniversario dell’eccidio del Padule ad Anchione Popolo se m’ascolti ti spiego la tragediaDel 23 d’agosto, l’orribile commediaE a raccontarla mi proveròMa ’un so se in fondo ci arriverò(Incipit di un canto popolare sull’eccidio) Esattamente un mese fa, il 22 e 23 agosto 2020, si sono tenute le commemorazioni per il 76.mo anniversario dell’eccidio nazifascista del Padule di Fucecchio, in cui persero la vita 175 civili. Le celebrazioni hanno avuto luogo in tutti i comuni lambiti da quella scia di sangue: Fucecchio, Monsummano Terme, Cerreto Guidi, Larciano e Ponte Buggianese. Fino ad allora avevo letto e riletto i resoconti di quell’evento in decine di libri: le parole scorrevano ogni volta come un elenco macabro-meccanico di fatti, azioni, luoghi e vite spezzate; che fossero testimonianze dirette, o dossier alleati, o ricostruzioni storiche, rimanevano sempre e solo carta con del mero inchiostro. Ecco, invece, cosa hanno significato per me quei due giorni e gli incontri che ne sono conseguiti. La domenica mi siedo su una panca libera, in chiesa. La frazione di Cintolese è stata la più colpita dalla strage con più di 80 morti. Davanti a me ci sono due signore anziane che parlano fra di loro e che vengono salutate, a turno, dai presenti e dalle istituzioni cittadine. Sono Tosca e Vittoria, sopravvissute alla strage; vite che hanno provato a ricostruire le proprie famiglie e, insieme ad esse, una parvenza di normalità. Normalità che, nonostante tutto, non sono mai più riuscite a vivere.«Ci penso più adesso che da giovane» dice Vittoria. Dice che la cosa che le è rimasta più impressa, al di là del dolore, sono i mosconi. C’erano mosconi ovunque quel giorno: sui corpi menomati, sul sangue mescolato al fango; li sentiva così forte e in maniera così insistente che anche oggi non può sopportarli. Ho il privilegio di incontrare Tosca qualche giorno dopo, a casa sua. La mattina della strage era una bambina di sei anni, a cui i tedeschi avevano sequestrato e saccheggiato la casa. Sfollò in padule come tutta la sua famiglia e tante altre persone: «Eravamo una trentina fra tutti». Quando videro arrivare i tedeschi sua madre la nascose in una buca. I nonni andarono incontro alle truppe, pensando ingenuamente che avrebbero risparmiato degli innocenti. Tosca li ha visti bruciare vivi poco dopo e racconta quanto siano stati interminabili quei momenti: «Speravo che morissero subito ma ci hanno messo veramente tanto…». Vide sua madre e suo fratello di 18 mesi mitragliati, mentre lei riuscì a salvarsi rimanendo immobile, non facendo il minimo rumore. La trovarono svariate ore dopo, nella solita posizione, salva ma con la vita irrimediabilmente compromessa. Quando racconta, la sua fronte si corruga in un’espressione inerme, quasi infantile. Per lei, nonostante gli anni, la vita si è fermata in quell’attimo: «Da quel giorno sono vuota. Non mi è più riuscito provare felicità, neanche nei momenti più belli. È come se da lì in poi avessi sempre vissuto una vita a metà». Tosca Lepori, sopravvissuta all’eccidio del Padule di Monsummano Terme Dopo la messa, la carovana piena di vessilli, fasce tricolori e cariche si trascina per qualche centinaio di metri, nel caldo d’agosto che si fa più intenso allo scoccare di metà mattinata. Entriamo nel cimitero di Cintolese per posare una corona d’alloro. Prima di arrivare al monumento funebre vedo Vittoria che calpesta con disprezzo una tomba posta orizzontalmente sul terreno. Si gira verso di me, ha urgenza di spiegare: «Lo sai perché sono passata sopra a quello lì? Lui era la spia…» Mi si gela il sangue, sono disorientato, non riesco a dire niente. Quella dei collaborazionisti è una ferita che rimarrà sempre aperta, anche se purtroppo celata ancora da una spessa coltre di omertà istituzionale. Tutti sapevano, all’epoca, i nomi di chi portò i tedeschi in padule, aiutandoli poi attivamente nel massacro. Nonostante fossero incappucciati per non farsi riconoscere, nei paesi ci si conosceva talmente bene che bastava la voce, un’espressione in dialetto, un certo tipo di camminata. Anche Tosca dice la sua sulla questione: «Io gli do sempre un calcio quando ci vado, perché era un grande fascista. Fu quello forse che ci ha fatto ammazzare. E ci ha portato via pure tutte le bestie. Il mi’ nonno aveva rimpiattato i bovi, li aveva portati laggiù in padule nella Nievole, tra un canneto. Passò questo sudicio e lo vide. Quando tornò a casa disse: “È inutile che vada a governarli, è passato Egisto e mi ha visto”. Infatti il giorno dopo non c’erano più». A Ponte Buggianese fu riconosciuto il barbiere del paese insieme ai reparti della Wehrmacht durante la strage; una testimone fece il suo nome ma poi si tirò indietro. Mi racconta di questo episodio Remo, che abitava in padule durante la guerra: «Ettore Quiriconi (una vittima della strage, nda) non fu ucciso subito, ma ferito. Quest’uomo iniziò a urlare e a chiamare aiuto, e sua moglie Evelina sentì e venne qua al Coccio (zona del padule vicino ad Anchione, nda). Quando arrivò, incontrò questo gruppo di tedeschi, ci fu uno che disse: “Lei no, lei non l’ammazzate”, in tedesco queste parole non si dicono. E sembra che questa donna abbia detto anche i nomi…» «Tipo Achille?» gli faccio io. «Esatto Achille, ne hai sentito parlare eh?» Sempre a Ponte Buggianese, il farmacista non uscì di casa per qualche anno per paura di vendette nei suoi confronti. Questo non gli impedì, una volta morto, di farsi seppellire al cimitero del paese con una lastra di marmo nero, tanto per ricordare a tutti che lui, di rimorsi per la sua militanza, non ne aveva mai avuti. Celebrazioni ad Anchione, uno dei paesi coinvolti nell’eccidio del Padule Il giro in macchina con Remo continua, facendomi ripercorrere esattamente la rotta di sangue tenuta dalla Wehrmacht e raccontandomi aneddoti su ogni vittima del padule presso Ponte Buggianese. Lui è stato fortunato, dice, la sua casa è stata risparmiata dall’eccidio: «A destra del Canale Maestro non ammazzarono nessuno, a sinistra invece fecero fuori tutti. Ho provato a chiedermi il perché tante volte ma non sono riuscito a trovare una risposta». In generale, le risposte di oggi sulla strage scarseggiano. E ciò deriva quasi interamente dal silenzio di ieri. Certo, la totale impunità garantita dallo stato agli ex fascisti, non ha certamente aiutato. Ma tra queste risposte nebulose, una delle principali, secondo me, fa riferimento a un interrogativo che riguarda il dopo: Perché nessuno ha parlato? Furono gli adulti, proprio i superstiti, che si opposero a rivelare ufficialmente i nomi, sia alle commissioni d’inchiesta alleate sia, soprattutto, ai figli. Una motivazione è sicuramente il fatto che non volevano altro spargimento di sangue, come effettivamente ci fu in altre parti della penisola nel Dopoguerra. Il secondo, secondo Remo, è da ricercare nello shock del massacro subito da un’intera comunità: «La gente è stata talmente sfregiata qui dall’invasione tedesca che dopo stavano tutti zitti. Chi aveva subito i torti stava zitto» dice sfogandosi. «La nonna della mi’ moglie, che le ammazzarono due figlioli e due nipoti, quando uno si avvicinava e diceva: “Povera Gigia. Ti hanno ammazzato…”, lei rispondeva subito: “Zitta, queste cose qui non si rammentano!”. La gente era così traumatizzata, che non reagiva come si reagirebbe normalmente. In paese nessuno ni fece mica nulla! Achille continuò a vivere come se niente fosse. Dapprima, i primi giorni stava un po’ guardingo… ma poi aprì un negozio e la gente andava in negozio da lui. Io a raccontare queste cose… mi fanno male! Mi fanno male perché non ho mai sentito nel Dopoguerra una persona che dicesse “Ma porca M*****a se ne incontro uno lo scoio!”». La terza, infine, è la paura di ritorsioni. Tosca dice che le famiglie dei fascisti di Monsummano continuarono a prosperare nel Dopoguerra, indisturbati. Così tanto che nessuno si azzardò a fare nomi: «Silenzio assoluto. Erano tutti terrorizzati per paura di ritorsioni alla propria famiglia. Loro (nda i fascisti) non avevano mica pietà». Il paragone del dopo è impietoso e sempre presente: da una parte le vittime che fra il dolore e una vita di fatiche e di stenti riuscivano a malapena a campare facendo studiare i propri figli; dall’altra i carnefici protetti dallo Stato e da una giustizia che ha arrancato per mezzo secolo: «Lo Stato non ha mai fatto niente» ribadisce Tosca. «Non credo neanche quando dicono ‘armadio della vergogna’: ma come in 50 anni un armadietto così, in quell’ambiente, che non lo avesse mai notato nessuno, anche per spolverarlo… ci hanno preso proprio per il culo, da diritto e da rovescio. Non so se tu hai visto Le Iene (nda il servizio sul criminale di guerra nazista del padule, che consiglio vivamente di vedere). Quel disgraziato assassino lì (nda Johann Riss), si è fatto una famiglia, ha campato bene, senza problemi, aveva una villa tu vedessi… mille e una notte. A nessuno hanno fatto niente. Hanno cominciato a parlarne un po’ quando non erano più punibili. Il governo è stato proprio un assassino nei nostri confronti, tutti quelli che ci sono stati, dal primo all’ultimo, perché nessuno ha fatto nulla per condannare questi. Lo sapevano chi erano eh». Sempre Anchione, celebrazioni istituzionali dell’eccidio del Padule Ritornando per un attimo agli interrogativi sospesi: alla fine, sono stati scoperti i motivi della strage? L’unica banda partigiana del Padule di Fucecchio era la “Silvano Fedi” e contava trenta componenti scarsi, perlopiù impegnati in attacchi di risposta a soprusi dei tedeschi (furti di bestiame, estorsioni, stupri tentati e/o riusciti), che si limitavano ad attività di sabotaggio o di furti di armi e documenti. Pochissimi furono i conflitti armati. Ma il mandante dell’ordine, il capitano Crasemann, a cui il feldmaresciallo Kesselring aveva dato carta bianca, era di diverso parere: secondo lui, infatti, nel Padule di Fucecchio c’era un nucleo di 2-300 partigiani “con armi automatiche, carabine, pistole, con russi e disertori tedeschi” come si evince dal rapporto giornaliero della 14.a armata tedesca del 25 agosto 1944. Il problema, a detta dello storico Lutz Klinkhammer (intervistato da Marco Folin nel documentario Eccehomini – Ricordo di una strage) è nella data: considerando che la strage è stata fatta il 23, l’appunto sa tanto di giustificazione a posteriori utile a pararsi le spalle a fronte di future inchieste giudiziarie. In realtà il rastrellamento di sfollati, donne, vecchi e bambini quella mattina non era altro che un’operazione di pulizia delle retrovie che avrebbe permesso un miglior sganciamento dell’esercito a nord, sulla Linea Gotica. Un freddo calcolo militare che non si preoccupò nemmeno di contadini innocenti che erano lì soltanto perché aspettavano che la guerra finisse. Anche se, ovviamente, sono stati utilizzati come capro espiatorio i partigiani, essi non erano sicuramente l’obiettivo dell’operazione, visto che nessuno andò a scovarli per ingaggiare una battaglia a viso aperto con loro (eppure c’erano eccome i finti disertori tedeschi che si unirono ai gruppi partigiani per poi sparire nel nulla prima della strage). In generale, e quindi anche nel Padule di Fucecchio, la logica delle stragi di civili delle truppe tedesche in Italia non aveva altro obiettivo che fiaccare la coscienza con la paura. Sangue versato così inspiegabilmente da bloccare anche la volontà di reagire e urlare al mondo i colpevoli. Cosa che a quanto pare ha funzionato perfettamente. Celebrazioni a Stabbia, altro paese coinvolto nell’eccidio del Padule La cerimonia si è spostata intanto a Stabbia, dove ha preso la parola Antonio, un superstite che ha perso il padre nella strage: «Mi riaffaccio all’accorato appello, da laico, di quello che ha detto monsignor Migliavacca: “Dov’era l’uomo? DOV’È L’UOMO?”». Si riferisce alla lettura di un brano del Vangelo da parte del vescovo di San Miniato. E in più, a supporto di ciò che ho scritto, spiega: «Per anni e anni partecipando a queste ricordanze non ho mai cercato di conoscere qualcuno colpito dalla strage. Allora negli anni Cinquanta, in giorni come questo sulla piazza del paese (…), tutto finiva molto presto: una corona, pochi abbracci, qualche lacrima e niente di più. Poi un vuoto di settant’anni…» Solo negli ultimi anni Antonio ha voluto conoscere gli altri superstiti. Dice che con loro si è innamorato della parola ‘giustizia’ e, anche se vita umana e denaro non sono per niente sullo stesso piano, racconta degli ultimi sviluppi della richiesta di risarcimento alla Germania. Risarcimenti che tutt’oggi non sono ancora pervenuti alle vittime. «Tutto quello che mi hanno dato sono quelle medaglie lì» mi dice Tosca indicando una cornice sul muro. «Ma io che sono rimasta con 700 euro di pensione, che vuoi che me ne faccia di quei così?» L’anno scorso, non potendo permettersi un avvocato per sollecitare la Germania a pagare, Tosca e una delegazione di altri superstiti andarono a Firenze, dove il governatore Rossi aveva promesso di riceverli e mettere in atto gli avvocati del tribunale regionale. Ma non è andata bene: «Alla fine lui non si fece trovare, ci ricevette una sua vice e ci disse che ci avrebbe fatto sapere. È passato un anno e non ci hanno ancora risposto. Eppure quest’anno alle celebrazioni è venuto a fare i suoi discorsi…» L a sfilata dell’ormai ex governatore Enrico Rossi alle celebrazione dell’eccidio del Padule, presso il cippo del Piaggione con il sindaco Tesi Se non altro la riapertura dei casi giudiziari sulle stragi nazifasciste dell’ultimo decennio ha avuto un pregio: non tanto l’andare a scovare carnefici novantenni che intanto avevano avuto modo di rifarsi una vita praticamente indisturbati, non tanto il combattere contro il pericoloso revisionismo storico della Resistenza degli ultimi anni e – provoco – nemmeno per avere giustizia; secondo me il pregio principale è di non aver relegato i vari Antonio, Vittoria, Tosca e Remo nel proprio silenzio. Perché la forza di poter finalmente parlare di questa strage, condividendo il peso dei ricordi con le generazioni successive, anche se dolorosamente, ha iniziato a curare le ferite emotive di una comunità che l’inspiegabile aveva costretto al silenzio. Magari di questo passo quelle lapidi di gente insulsa, traditrice e assassina verranno tolte dai cimiteri, una volta che non sarà più tabù fare certi nomi. Adesso mi sento diverso. Grazie alle celebrazioni e all’incontro coi superstiti sento di aver raggiunto un maggior grado di comprensione di ciò che è accaduto 76 anni fa. Ma l’ennesima domanda a questo punto incombe: come sarà possibile fra dieci, venti, trent’anni fare lo stesso tipo di esperienza quando i custodi dell’orribile commedia non ci saranno più? Le istituzioni presenti agli eventi hanno parlato giustamente di trasmissione della memoria ai giovani ma, a dirla francamente, sembrano parole alquanto vuote se non corrisposte dai fatti. Perché il pericolo per la memoria, rispetto agli anni che passano, non è la distanza cronologica ma la mancanza di percezione emotiva dell’accaduto, di connessione profonda fra testimoni e posteri. E ciò la storiografia può farlo ma non completamente e, comunque, fino a un certo punto. Rimarrà la base da cui partire, certo, ma per coinvolgere più persone c’è bisogno di immedesimazione. E chi può supplire a questo bisogno meglio dell’arte? Già durante le celebrazioni di quest’anno lo spettacolo teatrale L’Eccidio messo in scena all’Arena Puccini di Fucecchio dal Teatrino dei fondi ha fornito un bell’esempio. Grazie alla magnifica prova dei tre attori e del live sketching proiettato sulla parete del palco, gli spettatori si sono potuti immergere in maniera vivida in quel 23 agosto 1944. Questa è la strada da seguire. Proprio adesso che chi ha provato a raccontare è riuscito ad arrivare in fondo, noi popolo non possiamo permetterci di non ascoltare e non portare avanti il ricordo. Le istituzioni in prima fila a Stabbia alle celebrazioni dell’eccidio del Padule 23 Agosto 2020, 76 anni dopo, il pubblico ascolta le testimonianze dei sopravvissuti all’eccidio del Padule All photos by Comitato Onoranze ai Martiri del Padule Di Fucecchio e Comune di Cerreto Guidi... Read more...Boris siamo noi, un articolo di G. Landini || THREEvial Pursuit16 Settembre 2020Boris siamo noi di Guido Landini A più di dieci anni dalla sua uscita, Boris si evolve, conquista gli spettatori su Netflix, mostra le sue molteplici facce divertenti e non. Mentre si paventa la possibilità di un quarto ritorno, raccogliamo da questa serie tante, troppe cose che ci appartengono: televisione, politica, cinismo, televisione che manda in onda la televisione. Tanto di noi insomma. La qualità ci ha rotto il cazzo. Si potrebbe scrivere un pezzo su Boris impostandolo come una critica alla televisione italiana. Ma sarebbe parziale e non temerario come Boris, perché Boris è una critica alla televisione punto e basta. Migliaia di prodotti sempre uguali, massificati e tendenti alla spazzatura; perché è quello che il pubblico vuole, ed è quello che la televisione vomita, in una sorta di nodo gordiano che è impossibile sciogliere. Tuttavia, un simile atteggiamento psicoanalitico, o fenomenologico o addirittura sociologico, puzzerebbe un po’ di già sentito. Spostando un po’ l’inquadratura invece, il taglio potrebbe essere questo: Boris è un inno alla bassa risoluzione. Perché il brutto trionfa sul bello? Perché la bellezza è soggettiva, il brutto invece sembra essere ecumenico; il brutto è concreto e deittico, genera tentazione e repulsione, il bello chiama in causa teorie, estasi, critici e cherubini e cheppalle; e poi costa di più. Ma non è finita qui. La schifezza, la merda, finisce per piacere, è legata ad una tonalità affettiva: la riconosciamo, puntandogli il dito addosso come fa uno dei meme con Di Caprio, e ci riconosciamo. Siamo noi. Nel gusto per il trash facciamo squadra, manteniamo viva una punta conservatrice che sentiamo necessaria. Perché insomma, siamo tutti d’accordo che questa roba fa schifo, ma è roba con cui siamo cresciuti, e dunque qualche valore ce l’avrà! Si potrebbe immaginare un personaggio schifoso alla De Maistre (quindi anche il dr. Cane potrebbe andare benissimo) con un bicchiere di whiskey in mano, preso a sussurrare ad uno dei suoi apprendisti schifosi: “Dateceli dai cinque ai dieci anni in prima serata, e saranno nostri per tutta la vita”. Quando manca una protezione politica… Un pezzo su Boris potrebbe prendere la piega della satira politica. Gli occhi del cuore, la fiction televisiva che sta al centro della serie, è un necrologio politico: ripudio della meritocrazia, raccomandazione come pratica endemica, sfruttamento e precarietà del lavoro, razzismo e sessismo, e chi più ne ha più ne metta. “L’Italia del futuro è così, un Paese allegro mentre fuori c’è la morte”, suggerisce uno degli sceneggiatori di Boris – uno di quelli finti. Come si costruisce il consenso? Mandando in onda Gli occhi del cuore. La fiction trash più amata dagli italiani è una bilancia politica che pesa infinitamente di più di qualsiasi attività istituzionale. E le scene e le situazioni irreali rappresentate sono strategiche, perché – si stenta a crederci – propongono modelli di comportamento: bisogna esser pronti a dire le parolacce senza senso, a far sparire gli omosessuali quando la Lega prende voti, e mai – tabù assoluto- menzionare un lutto infantile. Allora qui scendiamo nel torbido. Scrivere questo pezzo su Boris significherebbe ripercorrere l’ascesa del berlusconismo; o ancora meglio, la discesa televisivamente annunciata di una mentalità che ha fatto tabula rasa di ogni tipo di aspirazione valoriale. Boris non fa altro che raccontare i primi frutti depositati da questa mentalità. Tutto su questo set è doppio. Io sono triplo. Queste le parole di esordio per il backstage di Stanis La Rochelle (Enzo Facchetti nella vita “reale”). Una serie, Boris, incentrata sulla produzione di una serie fittizia, Gli occhi del cuore: è come se la televisione si rovesciasse su se stessa per guardarsi dentro le budella. Un altro possibile pezzo su Boris potrebbe quindi essere giocato sulla forma di un esperimento meta-narrativo. Potrebbe ambire a restituire l’impianto sterile, onanistico e auto-referenziale che ha assunto la televisione con gli anni. Perché non sembra davvero possibile riprodurre o immaginare un mondo al di fuori di una cornice mediale; pochissime in Boris sono le scene riguardanti la vita privata dei personaggi: non c’è vita al di là del set. Il mondo è il set: un luogo raccolto, costruito e senza sorprese. Non resta che riprodurre un gioco di incastri, specchi e di cornici, mentre la realtà viene tenuta sotto tiro da una pistola mediatica, e a debita distanza, perché la distanza è fondamentale in un ambiente del genere. Essere diretti e autentici diventa un controsenso (vogliamo vedere vederci), come lo è amare, perché l’esperienza dell’amore rende incoerente il personaggio creato. Amarsi diventa il diktat. Bisogna raschiare il fondo della menzogna per cavare fuori qualche verità: il cortometraggio della Formica Rossa girato da Ferretti (Francesco Pannofino) in parallelo agli Occhi del Cuore apre uno squarcio improvviso di profondità, potenza e bellezza, e il frastuono sembra zittirsi. Ma di che bellezza si tratta? È la coda del pavone, il fascino e la tristezza di trovate ipocrite che si aprono a ventaglio. Boris come una telenovela barocca. Ma fattela ‘na risata! I possibili articoli Boris elencati sopra sono davvero troppo musoni e tradiscono il genere di Boris: la commedia. Nella commedia si ride. E in Boris si piange dal ridere, chi scrive non ha mai riso così tanto guardando una serie tv. Infatti, si piange anche per il ridere: per l’ironia che è dovunque e copre tutto come un rumore bianco che sale dalla gola. Si ride per il coraggio che hanno avuto certe persone a riprodurre e mandare in onda certa monnezza. Si ride perché è vero, e perché non rimane altro da fare: le emozioni umane o sono finte, o sono basite, o sono comprabili, o sono effetti collaterali. L’ironia è la benzina della televisione. L’ironia tradizionalmente sorge in contrasto tra ciò che si vede e ciò che si sente, e quella forma di ironia televisiva funziona tramite immagini e suoni in contrasto tra loro: ciò che viene mostrato smentisce ciò che viene detto. Cogliendo l’ironia di uno spot, riconoscendo l’imbroglio, lo spettatore dimostra un’astuta superiorità e crede di trascendere la categoria stessa di cui fa parte, così come apprezzando la freddezza e il cinismo di certi programmi conferma di non essere coinvolto con quanto sta vedendo, e di sapere il fatto suo. Ma questo “svelamento” è guidato quanto il percorso della cavia in un labirinto allestito per un esperimento: l’ironia geneticamente modificata che propone la televisione viene spogliata della sua componente rivelatrice e anti-ipocrita più pericolosa. Quello che rimane è una critica radicale, distruttiva e senza contenuti, un’ironia tirannica perché sempre capace di dire “non sto dicendo sul serio”. Cinismo che allena ad atrofizzare la speranza. Boris come Bojack Horseman con un pesce rosso e senza cavalli. Boris come Infinite Jest con i nomi dei tennisti e i personaggi grotteschi. Boris che intrattiene come gli epigrammi di Marziale: quelli cattivi, sporchi e taglienti. Un’altra televisione è possibile? Chi scrive confessa di appartenere a coloro che hanno visto Boris per la prima volta su Netflix, in tempi recenti e pandemici. Boris parla al futuro, perché Gli occhi del cuore riserverà sempre qualche puntata da girare in un domani, sempre che in quel domani attori e registi non vengano sostituiti da robot (che poi a quel punto, ci si domanda cosa cambierebbe davvero: magari proprio i robot sarebbero capaci di fare un lavoro migliore). Al che questo suggerisce un pezzo aggiuntivo. Forse un’altra televisione oggi è davvero possibile, ma non nei termini che immaginavano Ferretti & Co. È possibile nel carnaio delle piattaforme di streaming, nell’armageddon dei contenuti on demand, dove la novità bruciante e l’aspettativa che ci creano attorno sono come reti calate per catturare ogni nostro briciolo d’attenzione; dove si rimane paralizzati non perché danno sempre la “solita fiction”, ma perché l’offerta è troppo ampia e bisogna scegliere. Si deve scegliere. Boris come la televisione è un contenitore di immagini, spunti e schifezze; codifica un processo, e una carrellata veloce di temi e una smarmellata di idee non basteranno a definirlo. In fondo, a volerla stringere, Boris sceneggia la storia di uno spreco. Boris parla di noi: noi italiani, essere umani. Noi spettatori. In fondo, cosa lega Lost a Un medico in famiglia? Non tanto il fatto che entrambi si vedano attraverso uno schermo; ma che sono oggetto di scelte, le scelte che noi facciamo, a cui ci dedichiamo e che ci definiscono: la libertà ridotta ai tasti digitati sul telecomando e sulla tastiera. Parla di quel tempo dedicato all’intrattenimento e che tiene in piedi l’intero baraccone: un tempo ritenuto vuoto, ma che è cruciale e brulicante di possibilità. Bibliografia Adorno T. W, How to Look at Television, in “The Quarterly of Film Radio and Television”, vol. 8, no. 3, 1954, pp. 213–235. Benjamin W., Il Dramma Barocco Tedesco, Einaudi, 1999. Dal Lago A., Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee, Manifestolibri, Roma, 2010. Flusser V., La Cultura Dei Media, Mondadori, 2004. Luhmann N., La realtà dei mass media, Franco Angeli, 2000. Mantellini M., Bassa Risoluzione, Einaudi, 2018. Menduni E., I Linguaggi Della Radio e Della Televisione: Teorie, Tecniche, Formati, Laterza, 2010. Wallace D. F, E Unibus Pluram: Television and U.S. Fiction, in “A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again: Essays and Argument”, Abacus, 1998. Wallace D. F, Infinite Jest, Einaudi, 2016.... Read more...Gaming e fughe dalla realtà, un articolo di D. Petrelli || THREEvial Pursuit29 Luglio 2020Gaming e fughe dalla realtà di Dario Petrelli I videogames stanno conquistando la realtà (e non siamo in grado di parlarne nel modo giusto) Ero tutto preso a esplorare il terrazzo di quell’edificio alla ricerca di munizioni, quando un drone militare inviato da chissà dove ha iniziato ad accecarmi e confondermi con dei fasci di luce artificiale. Mi trovavo in una cittadina arsa dal sole e abbandonata, dalle costruzioni in cemento ormai fatiscenti – ero atterrato lì da circa due minuti e non avevo ancora incontrato nessuno, ma l’arrivo di quel drone significava che qualcuno in effetti c’era. E mi stava attaccando. *musichetta carica di suspense in sottofondo* Per sfuggire a quei raggi luminosi che mi impedivano di controllare l’area circostante mi sono precipitato per le scale, portandomi al chiuso dove non potevano seguirmi. Accovacciato in un angolo del desolato appartamento sottostante aspettavo che il nemico provasse a raggiungermi dai piani inferiori, fucile spianato e pronto a far fuoco non appena l’avessi visto far capolino. Ma quello non si decideva e così ho allungato lo sguardo verso le grandi finestre dell’appartamento, da cui potevo sorvegliare le strade della zona. Ormai mancava poco allo spegnimento di quel maledetto rompiballe meccanico. All’improvviso quella che pareva una sagoma umana all’interno di un edificio simile al mio, a una trentina di metri di distanza, ha catturato la mia attenzione. Sarà trascorso un secondo, non di più, mentre cercavo di capire se fosse davvero una persona o se si trattava di una colonna o che so io. Al termine di quel secondo ero morto. La sagoma aveva aperto il fuoco centrandomi attraverso finestre e appartamenti, lì nel mio caro angolino in cui mi ero sentito tanto al sicuro. Dopo meno di tre minuti venivo così eliminato dalla Battle Royale di Call of Duty Mobile, uno dei multiplayer online più giocati di questi tempi su smartphone, e mi incazzavo come una iena: per aver perso così in fretta, contro un avversario che non mi aveva dato nemmeno il tempo di capire come difendermi. Sconfitte come questa mi fanno rosicare parecchio, e se poi devo smettere di giocare possono volerci diversi minuti per tornare davvero alla realtà: devo prima levarmi il gioco dalla testa. In quei momenti la mia ragazza mi guarda e scuote il capo, un po’ divertita e un po’ in segno di rimprovero. In realtà gioca anche lei e molto spesso giochiamo assieme, ma lei sa accettare molto meglio di me le sconfitte. Il ché dice qualcosa sul mio essere un rosicone, probabilmente, ma anche sulla presa che prodotti simili possono avere sui giocatori. Una fase di gioco in Call of Duty Battle Royale Ho scaricato CoDMobile a fine marzo, in pieno lockdown, convinto dagli inviti e dalle recensioni dei vari amici che ci giocavano già da tempo o avevano preso a farlo in quei giorni – anche ragazzi e ragazze insospettabili, che non avevano mai maneggiato uno sparatutto prima e oggi affrontano battaglie virtuali con una sicurezza da veterani. Per me, che pensavo di conoscere già abbastanza bene il mondo degli FPS (First-Person Shooter) avendoli giocati sia su consolle tradizionali che nella loro declinazione smart, è stata invece un’occasione per scoprire il genere della Battle Royale. Avete presente le Battle Royale, no? Si tratta della modalità multigiocatore resa celebre da Fortnite (sebbene esistesse da prima di Fortnite) e ormai riproposta in varie salse da una moltitudine di titoli sparatutto di successo. In parole povere funziona così: vi paracadutate da un qualche velivolo su un vasto territorio dimenticato da Dio insieme ad altre decine di giocatori, raccogliete armi e kit medici, cercate di uccidere tutti gli altri partecipanti e di non farvi uccidere a vostra volta. Vince l’unico (o l’unica squadra) che rimane in vita. Fine. Ovviamente poi ogni titolo arricchisce questa modalità attraverso la caratterizzazione della mappa e dei suoi scenari (città fantasma, porti, foreste, ecc.), la possibilità di trovare armi sempre diverse ognuna con le proprie caratteristiche, veicoli da guidare per viaggiare più velocemente, e così via. Tutto molto accattivante, e anche funzionale allo scopo di differenziare l’offerta di un prodotto da quella molto simile di un competitor (preferisci lo stile cartoonish di Fortnite o quello più realistico di PUBG? Il set di abilità speciali presente in Apex Legends o quello di CoD?). Ma la sostanza, il cuore dell’esperienza di gioco, resta invariata: quando partecipi a una Battle Royale sei solo contro tutti su una landa di terra abbandonata, costretto a sparare verso qualunque cosa si muova per sopravvivere; se il tuo avatar viene ucciso sei fuori, non rientri in partita da un qualche savepoint (a meno che non giochi nella modalità a squadre, dove di solito hai qualche chance di essere riportato in vita). Una sorta di simulatore, se vogliamo, per provare il brivido di una lotta senza regole per la sopravvivenza. Quello del last-man-standing è un genere che ha iniziato a spopolare tra i videogames dopo il successo di opere come Hunger Games, e la sua evoluzione (di cui non approfondisco la storia per non plagiare spudoratamente la pagina di Wikipedia ad essa dedicata, piena di dettagli interessanti e a cui vi rimando) ha portato all’affermazione di un prodotto a modo suo unico, per i livelli di eccitazione e coinvolgimento che può generare nel giocatore. Un coinvolgimento tale da attirare l’attenzione dei media mainstream, sempre pronti a raccontarne le derive più inquietanti e le testimonianze dei tanti genitori in ambasce per la salute psicofisica dei loro figli che non riescono a smettere di giocarvi. Anche se non avete mai avuto a che fare con le Battle Royale, infatti, è altamente probabile che vi sia capitato di leggere da qualche parte sul web di ragazzini che continuano a giocare a Fortnite nonostante l’arrivo di un tornado – o, più banalmente, nonostante debbano andare in bagno. Magari saprete pure che non sono solo i più giovani a subire le conseguenze negative di questa fascinazione, dato che nel Regno Unito lo stesso gioco pare sia stato menzionato in centinaia di casi di divorzio. Ne avrete dedotto che è il solito discorso polarizzante sui videogiochi che fanno male e creano dipendenza, il solito dibattito inconcludente e superficiale che non porta da nessuna parte. E in effetti il più delle volte l’approccio è proprio quello, sebbene vi siano elementi che dovrebbero indurci a riflettere sulla direzione intrapresa da certi attori non solo nel mondo del gaming, ma in quello delle piattaforme digitali in generale. L’irresistibile variabilità della ricompensa Ogni tanto nelle Battle Royale si vince anche. Il finale di partita è forse la fase più ansiogena: sei lì con la tensione a mille perché diamine, non vorrai perdere proprio adesso che è rimasto un solo avversario – un solo sopravvissuto, come te, all’ennesimo massacro virtuale. Di solito, subito dopo un duello particolarmente tirato riesco a sentire per qualche secondo il mio cuore che batte forte. Manco fossi appena scampato a una reale situazione di pericolo. La vittoria è probabilmente il momento che più di tutti rivela la portata addictive delle Battle Royale: il rilascio della famigerata dopamina, che secondo molti sarebbe alla base dell’insorgenza di varie dipendenze patologiche, ti gratifica nell’istante in cui capisci di aver avuto la meglio su altri 99 giocatori. Ma sono diversi gli aspetti di questa modalità di gioco che hanno l’effetto di tenere il player incollato allo schermo. Ci sono gli immancabili “intermittent variable rewards”, ad esempio, ossia quel meccanismo già ampiamente sfruttato da social media, app e casinò di tutto il mondo, che consiste nel dare all’utente la possibilità (ma non la certezza) di ricevere un premio in seguito a una precisa e semplice azione (il refresh della pagina nella speranza di una nuova notifica, come la leva di una slot machine); la prospettiva di una ricompensa dall’entità variabile ci spingerebbe infatti a compiere quell’azione ripetutamente, come spiegato da Tristan Harris in un famoso articolo per Medium di qualche anno fa. Loot Box in Fortnite Tale meccanismo trova già da tempo espressione nei videogames attraverso le “loot boxes”, forzieri dal contenuto casuale che il giocatore può ottenere come premio per i suoi progressi o acquistandoli con soldi veri (il ché è un po’ un problema dato che se stai spendendo soldi non per un oggetto ma per la speranza di riceverlo, beh, c’è qualcosa che non va). Ad ogni modo, nel caso delle Battle Royale potremmo dire che il ruolo delle ricompense variabili va oltre le loot boxes e arriva al punto di condizionare le meccaniche di gioco: anche mentre inizi una partita, stai tirando la leva di una slot machine. Quando atterri in un qualsiasi punto della mappa di gioco, infatti, non hai idea di quali e quante armi troverai nei dintorni, perché l’allocazione delle risorse è casuale e viene resettata ad ogni match; né sai con certezza quanti avversari sono scesi nella tua stessa area. Non c’è un modo per esser sicuri di riuscire a formare un equipaggiamento competitivo in tempo utile per non soccombere, ti tocca scommettere: potresti raccogliere tu per primo le armi migliori assicurandoti un vantaggio sui rivali, come potresti perdere in poco tempo sotto una pioggia di colpi. Secondo alcuni, la componente di randomness – che potremmo definire come l’insieme degli elementi casuali all’interno della Battle Royale – è stata decisiva per il successo di Fortnite: il fatto che certe dinamiche della partita risultino incontrollabili sortirebbe l’effetto di incoraggiare i giocatori alle prime armi (anche il player più scarso o inesperto, con un po’ di fortuna, può arrivare fino alle fasi finali o addirittura vincere) e allo stesso tempo stimolerebbe i veterani a cercare di migliorarsi costantemente, trovando strategie sempre più efficaci per tentare di dominare il caos. Quando si gioca da mobile o tablet, inoltre, non mancano quegli espedienti classici delle app free-to-play come le ricompense per l’accesso giornaliero, gli eventi settimanali e l’invio di notifiche durante la giornata per ricordare all’utente che se non torna a giocare al più presto si perderà un sacco di cose fantastiche. Insomma, a ben guardare il design di questi videogames, è difficile non concordare con chi accusa le loro case di sviluppo di voler creare assuefazione nei giocatori. Questi giochi sono progettati per tenere l’utente connesso il maggior tempo possibile, in modo da aumentare le probabilità che spenda soldi in acquisti interni al gioco. Se la maggior parte delle Battle Royale più famose sono fruibili gratuitamente, infatti, tutte quante offrono al giocatore la possibilità di comprare oggetti per personalizzare il proprio personaggio virtuale. Nonostante si tratti quasi sempre di accessori estetici (costumi, esultanze, balletti…) che non aggiungono nulla a livello di prestazioni durante la partita, il volume di microtransazioni effettuate ogni giorno in operazioni di questo tipo genera profitti annui per miliardi di dollari. Ma ha senso puntare il dito contro questi prodotti – arrivando poi in molti casi a prendersela col mondo del gaming tout court – perché colpevoli di lucrare sulla dipendenza dei loro utenti, quando tutte le grandi piattaforme dell’ecosistema digitale sfruttano le stesse tecniche già da anni? Tecniche mutuate spesso proprio dalla sfera del gaming, in quel processo che prende il nome – per l’appunto – di “gamification”: scaliamo livelli se rilasciamo tante recensioni su Google Maps o Trip Advisor; otteniamo dei premi se siamo costanti nel connetterci a questa o quella app; veniamo gratificati dai like (la cui quantità è variabile) se postiamo contenuti che intrattengono gli altri utenti sui social network… diciamo pure che le compagnie del web devono molto al design dei videogiochi, preso a modello per lo sviluppo di incentivi sempre più efficaci a rimanere collegati. E se il problema di prodotti come le Battle Royale è legato al loro carattere violento e ipercompetitivo e all’influenza diseducativa che avrebbe sulle fasce di giocatori più giovani, cosa dire allora dell’impatto di social media e piattaforme streaming con tutto il narcisismo, l’odio, le fake news e i complottismi che si portano dietro? Scavare più a fondo Quando l’OMS, un anno fa, ha inserito la dipendenza dai videogiochi (“gaming disorder”) nella sua ICD – International Classification of Diseases, una lista che funge da standard di riferimento per la diagnosi di malattie e problemi di salute in tutto il mondo – molti psicologi ed esperti al di fuori dell’Organizzazione l’hanno criticata apertamente. Tra i motivi, il fatto che gli stessi criteri utilizzati dall’OMS per valutare la dipendenza dei gamers (ad esempio l’occupare troppo tempo coi videogiochi finendo per trascurare relazioni sociali, scuola, lavoro, ecc; oppure, giocare molto nonostante il verificarsi di conseguenze negative) potrebbero essere impiegati per indagare anche altre attività digitali, finendo probabilmente per rilevare sintomi e comportamenti compulsivi molto simili. Si tratta di un fenomeno ampio, insomma, che andrebbe inquadrato nel modo giusto. Ponendosi le domande giuste. Come scriveva Marc Lewis, neuroscienziato ed esperto in materia di dipendenze patologiche, qualche tempo fa sul Guardian nel commentare la presa di posizione dell’OMS: “Le etichette psichiatriche che identificano dei problemi psicologici, distinguendo tra di essi, possono essere utili per spingerci a prestare attenzione. Ma per identificare una dipendenza, abbiamo bisogno di scavare più a fondo – di chiederci cos’è che manca alle persone e che le spinge a dedicarsi a qualcosa in maniera compulsiva. E questo è molto più complicato.” Già, cos’è che manca, e che ci rende irrequieti? Forse gli obiettivi e le missioni che perseguiamo nelle nostre vite online sono più eccitanti di quelle che dobbiamo svolgere nella realtà di tutti i giorni. O forse il problema è che la realtà di tutti i giorni sta diventando sempre più ostile e frenetica: pandemie, guerre, crisi economiche, crisi ambientali, crisi democratiche… è una crisi continua là fuori, e star dietro a tutto quello che succede è dannatamente difficile. Ciò che le grandi aziende del digitale ci offrono, allora, è la possibilità di aggirare disagio e insicurezze, rifugiandoci in contesti fittizi che divengono sempre di più i nostri luoghi di riferimento. Sono le comfort zone della nostra epoca: il bingewatching su Netflix o YouTube, il racconto filtrato e sempre scintillante delle vite nostre e degli altri su Instagram… e i videogiochi, ovviamente. Il settore del gaming è forse quello che ha saputo rispondere meglio di tutti al desiderio di evasione del nostro tempo, e lo dimostrano i numeri riguardanti la grande crescita di gamers avvenuta negli ultimi anni; numeri che hanno subito un’impennata clamorosa, come e più di tutte le altre attività digitali, durante il periodo di lockdown (a riprova del fatto che più la realtà si fa ostile, più ci avvaliamo di questo medium). Ma aldilà delle statistiche, per capire la centralità che i videogames stanno assumendo nelle nostre vite basta osservarne la crescente capacità – di solito associata ai social media – di fagocitare categorie appartenenti alla sfera dell’intrattenimento: nel mondo di Fortnite si esibiscono le vere rap-star del momento in concerti spettacolari e interattivi, in quello di Animal Crossing vanno in onda talk show che ospitano gli avatar di veri attori di Hollywood. Eventi a cui si può assistere o partecipare attraverso i propri personaggi virtuali, in compagnia di amiche o amici o anche persone conosciute online – la socialità, del resto, è uno degli incentivi più efficaci in assoluto. Il concerto del rapper Travis Scott su Fortnite Le Battle Royale altro non sono, quindi, che una delle derive più adrenaliniche e totalizzanti del videogioco come strumento di fuga dalla realtà. Quando ci giochi, non hai tempo né spazio per pensare ai problemi del quotidiano, tutto teso come sei a tentare di pararti le chiappe per arrivare fino alla fine. Il loro design addictive rappresenta forse delle criticità che rendono questi prodotti potenzialmente dannosi per chi non riesce a staccarsene (giovane o non giovane che sia)? Può darsi, per quanto nel campo della ricerca medica e scientifica siano lontani dal trovare un vero consenso attorno alla questione. Riflettere su questi aspetti in ogni caso è importante, ma il modo in cui lo stiamo facendo rappresenta almeno due problematiche. La prima: se fissiamo lo sguardo solo sulle Battle Royale, o sul gaming, perdiamo di vista il fatto che è l’intero sistema economico digitale a essere governato da grandi compagnie i cui profitti sono indissolubilmente legati alla capacità di drenare il tempo e l’attenzione degli utenti, attraverso ogni sorta di incentivo e tipologia di contenuti. La seconda ha invece a che fare col nostro modo di rapportarci alle forme di dipendenza, inquadrandole come una patologia che colpisce chi non sa controllarsi o come la naturale conseguenza di prodotti pericolosi che danno assuefazione. Prospettive che adottiamo per semplificare (“la droga è brutta e chi la assume è debole”), ma che ci impediscono di cogliere l’ampiezza di certi fenomeni sociali e le motivazioni profonde alla loro base. Il trasferimento di porzioni sempre più grandi delle nostre vite dall’offline all’online, alla ricerca di gratificazione e semplicità, è qualcosa che riguarda la società tutta. Si tratta di un processo in essere già da anni e destinato a rafforzarsi nel tempo. È di per sé sbagliato, pericoloso o controproducente? Non necessariamente. Sta accadendo in fretta, senza che si riesca a comprenderlo appieno e a sviluppare una piena consapevolezza riguardo cause ed effetti? Pare proprio di sì. Nell’attesa che si formi un dibattito in grado di superare la solita dicotomia tra “apocalittici e integrati” del contesto tecnologico in cui ormai viviamo – e sempre di più vivremo – penso proprio che mi farò un’altra partita a CoD Mobile. Una sola, prometto. Tranne se perdo subito.... Read more...Turbocapitalismo e cinema, un articolo di S. Cegalin || THREEvial Pursuit22 Luglio 2020Turbocapitalismo e cinema Come i film hanno raccontato la minaccia neoliberista di Silvia Cegalin Le vittime del Turbocapitalismo in Sorry we missed you di Ken Loach È come una scena che si ripete: stanze anguste dalla mobilia scarna, posture stanche e visi segnati dal passaggio di un tempo che è stato carente di felicità e vaga impronta di sorrisi che ora appaiono come una manifestazione di speranze mancate. Gli occhi guardano dritti verso un futuro che nessuno dei protagonisti di questi quadri è in grado di prevedere, anche se inconsciamente ognuno sa come andrà a finire la loro storia; tentare di cambiare la propria sorte è comunque un atto dovuto: un ultimo guizzo prima dell’atto finale. Questi scenari degradati si ripetono sebbene distanti geograficamente tra di loro, perché la causa dello svilupparsi e del diffondersi di questo malcontento sociale privo di confini è generato da una malattia che corre talmente veloce da riuscire a spingere i suoi tentacoli ovunque… sto parlando del Turbocapitalismo. Come fa notare la parola stessa, adoperata per la prima volta dal controverso economista Edward Luttwark nel 1998 in Turbo-capitalism: Winners and Losers in the Global Economy, il turbocapitalismo è una forma accelerata del capitalismo in quanto influenzato dai progressi tecnologici e da scelte politiche ed economiche che hanno portato a una disumanizzazione, oltre che alla considerazione del lavoro come merce usa e getta. Se già il Capitalismo (si veda il mio precedente articolo Capitalismo: il mostro che divora il tempo libero) era quindi descritto come un mostro subdolo che condiziona i ritmi e i desideri degli individui, il turbocapitalismo non fa altro che esasperare tale saturazione negli umani, i quali si trovano a essere rispettivamente protagonisti o pedine del sistema in base alla propria disponibilità economica e quindi alla loro posizione sociale. In questo senso, una lettura interessante del turbocapitalismo è giunta dal Cinema. Se ritorniamo al quadro descritto all’inizio infatti non possiamo fare a meno di notare la sua affinità con le scene iniziali di Parasite di Bong Joon-ho e di Sorry we missed you di Ken Loach. Entrambi i film presentano un nucleo famigliare composto da padre, madre, figlio maggiore e figlia minore, che succubi di un’esistenza segnata da scarse possibilità di crescita, sia personale che professionale, cercano con ogni mezzo di migliorare la propria condizione. Sorry we missed you è il canto stanco, ma non per questo arreso, di una famiglia della working class inglese, la quale, afflitta da un’economia schiacciante che li porta a dover rinunciare al “sogno borghese” di avere una casa di proprietà, prova a dare una svolta alla propria situazione attraverso l’idea del marito Ricky di mettersi in proprio e fare il corriere freelance per conto di una grande azienda di consegne. Ricky è fattorino, Abby (la moglie) è una carer1, simboli di una gig economy in cui si è spesso umiliati e sfruttati. Chi svolge questi lavori, sembra ripetere come un mantra il turbocapitalismo, può essere trattato come uno schiavo perché il fattore fondamentale è produrre, produrre e vendere ad ogni costo anche a scapito della salute fisica e psichica: il bene dell’azienda viene prima di te. Noam Chomsky in Le dieci leggi del potere. Requiem per il sogno americano del 2008, spiega come sia proprio il Neoliberismo a provocare un divario ancora più forte tra le classi sociali, e un imbarbarimento delle condizioni e dei contratti lavorativi che hanno lo scopo di agevolare soltanto i potenti. Io, Daniel Blake di Ken Loach, altra vittima del Turbocapitalismo È il mercato, prosegue Chomsky, a prevalere e comandare qualsiasi altro aspetto della vita, e l’egemonia spostandosi dai governi statalizzati alle imprese private conduce non solo a una perdita di valori e alla distruzione della solidarietà, ma allo svilupparsi di guerre commerciali che fanno, letteralmente, dimenticare l’individuo e il suo valore in quanto essere umano; si pensi a questo proposito al film sempre firmato da Loach, Io, Daniel Blake, in cui un 59enne malato e impossibilitato a lavorare si trova a ad aver bisogno dell’aiuto dello Stato. L’uomo per ottenere i sussidi si trova coinvolto in un meccanismo a dir poco kafkiano che lo condurranno all’amara consapevolezza di quanto il sistema welfare e lo Stato siano sempre più distanti dal far vivere dignitosamente tutti i cittadini. «Mi chiamo Daniel Blake, sono un uomo e non un cane; come tale esigo i miei diritti, esigo di essere trattato con rispetto. Io, Daniel Blake, sono un cittadino. Niente di più e niente di meno». Se i film di Locke dipingono personaggi che non pretendono molto altro se non quelle piccole stabilità che permettono, banalmente, un tetto sopra la testa, del cibo e una buona istruzione per i figli; i desideri in Parasite cambiano prepotentemente, facendo ambire ai protagonisti una vita replicata sul modello borghese anche se i mezzi usati per arrivare a conquistare la cosiddetta posizione, rivelano l’ingegno e l’astuzia che solo le classi popolari sono in grado di mettere in atto nel momento del bisogno e della fame, e un’etica che non dimentica i propri “simili”. Ma perché si arriva a desiderare di più di ciò che si può avere? O meglio: perché i desideri sembrano ad oggi omologati, e gli uomini e le donne adottano comportamenti mimetici verso i modelli che propone il mercato? Riprendendo il pensiero di Heidegger, che fa da anticipatore a ciò che accadrà in modo ancora più radicale con il turbocapitalismo, ciò è spiegabile con la graduale sdivinizzazione in favore di una misticizzazione materialistica che ha invaso ogni settore. Di conseguenza, l’essere umano si trova a fare i conti con un mercato che è stato divinizzato e che vincola i suoi desideri e le sue aspettative, mentre di pari passo si verifica una svalutazione dei valori e dell’importanza della spiritualità, perché a essere considerati onnipotenti ora sono i prodotti commerciali. Se tale “teologia economica” diventa un’utopia frustrante per le classi lavoratrici, per la classe borghese essa si trasforma in mantra concreto e tangibile, e gli effetti di ciò sono ben riscontrabili nel film La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino. La vuota “teologia economica” borghese ne La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino. Sullo sfondo di un’antica Roma che però ha perso tutto il fascino felliniano, il protagonista Jep, esponente della Roma bene, incarna il classico intellettuale ricco annoiato che invece di utilizzare le proprie risorse per migliorare una situazione culturale2 alla prossimità della decadenza, preferisce abbandonarsi ai rituali delle feste inutili che hanno nell’apparire e nel consumismo il fulcro della loro esistenza. E questo scenario romano da un’autentica bellezza sfumata in qualche modo fa da eco non solo alla sdivinizzazione precedentemente citata, ma anche a una perdita di memoria storica/sociale e all’affermarsi di una prepotenza persuasiva commerciale che sono tra i principi individuabili nel turbocapitalismo. “Disarticolare e annullare la memoria è una delle condizioni fondamentali dell’affermazione planetaria del liberismo mercantile globale”3. Il sociologo Göran Therborn non a caso asserisce che sono gli effetti economici del liberismo a determinare il modo di vivere (e direi anche di pensare) delle persone, ma ciò che è interessante rilevare a fronte di questo è che nel cinema le classi alto borghesi sono spesso rappresentate come fallite dal punto di vista emotivo. Si pensi ad esempio a Happy End di Michael Haneke o alla Trilogia barbarica di Denys Arcand. Entrambi i registi descrivono esistenze che seppur caratterizzate da surplus materiale rimangono intimamente insoddisfatte, infelici, tanto da assumere comportamenti apatici nei confronti della vita: in questi film la morte indotta o anticipata sembra essere l’unica via d’uscita per dimenticare scelte superficiali o sbagliate. Turbocapitalismo “borghese” in Happy End di Michael Haneke Se il modello turbocapitalista quindi da una parte sprona la classe popolare a lavorare fino all’esaurimento per guadagnare posizioni che nella realtà mai raggiungeranno se non attraverso violenti compromessi, dall’altra conduce la borghesia a trovare nel lavoro uno sfogo, un rifuggire da sé stessi, raggiungendo sì il successo ma a scapito della propria sensibilità. Il trionfo del capitalismo non solo si manifesta tramite la manipolazione delle scelte individuali e uniformando gli stili di vita, ma a causa di un’economia neoliberista giunge a soddisfare soltanto la categoria dei grandi dirigenti, dei magnati e dei signori dell’alta finanza. Letture cinematografiche come, ad esempio, The wolf of the Wall Street di Martin Scorsese, The big short di Adam Mckay o Margin call di J. C. Chandor, raccontano, sebbene con riferimenti e punti di vista diversi, gli scenari di Wall Street e i danni provocati da scelte economiche aggressive incentrate sul binomio sfruttato/sfruttatore, perché mentre il primo si impoverisce rischiando il tracollo finanziario, il secondo, a scapito del consumatore, ingrandisce il proprio impero. Seguendo tale modello gli esseri umani rischiano di essere schiacciati dal potere sempre più crescente della merce e del denaro: “Quando il mercato è abbandonato alla sua auto-normatività, esso conosce soltanto la dignità della cosa e non della persona, non doveri di fratellanza e di pietà, non relazioni umane originarie di cui le comunità personali siano potatrici”4. Il Turbocapitalismo che regna in The wolf of the Wall Street di Martin Scorsese In linea con il pensiero sopracitato di Max Weber, sono anche economisti come Joseph Stiglitz e Paul Krugman (entrambi Premi Nobel per l’Economia) che ribadiscono come il neoliberismo supporti le grandi banche spostando i rischi connessi alla scelta di un mercato irrazionale non verso l’istituzione bancaria stessa, ma verso i propri clienti, facendoli precipitare rovinosamente. Non a caso la bancarotta del 2008 è stata pagata dai contribuenti e dai beneficiari, mentre alle banche sono giunte garanzie statali; inoltre questo tipo di economia ha innalzato il livello di corruzione all’interno delle organizzazioni finanziarie. E tali dinamiche parassitarie premiano personaggi come Jonathan Butler di Scorsese, incarnazione perfetta di una frenesia consumistica assorbita da principi machiavellici in cui l’unica regola è superarsi ad ogni costo. Se da una parte questo lupo sfrenato sfrutta qualsiasi situazione creata ad hoc dal capitalismo per arricchirsi, i protagonisti di The big short invece cavalcano, prevedendola anticipatamente, l’onda di una crisi finanziaria generata dalla speculazione del settore immobiliare e in entrambi i casi si assiste all’aumento del capitale come privilegio di pochi “eletti”. Si deduce che chi muove le redini dell’economia ne esce vincente perché attraverso i suoi tentacoli direziona le scelte e gestisce i risparmi di chi, nella scala sociale si posiziona a un livello inferiore, godendo inoltre di privilegi e standard di vita devoti a un uso sfrenato delle proprie disponibilità che, di conseguenza, fanno aumentare la sensazione di non avere mai abbastanza e bisogni (illusori) che non vengono mai soddisfatti abbastanza. D’altra parte i film analizzati svelano un malessere e un’insoddisfazione che partendo dalla classe operaia si espande fino alla borghesia, raggiungendo anche chi, teoricamente, vive una condizione adagiata dal punto di vista materiale. La perdita di valore economico pare quindi essere associata a una crisi dei valori sociali e morali, perché l’essere umano viene considerato in base a quanto può spendere e produrre, riducendo le sue qualità e capacità a semplici accessori. Gli occhi guardano dritti verso un futuro che nessuno dei protagonisti di questi quadri è in grado di prevedere, anche se inconsciamente ognuno sa come andrà a finire la loro storia; tentare di cambiare la propria sorte è comunque un atto dovuto: un ultimo guizzo prima dell’atto finale. Note 1. Per carer si intendono assistenti di anziani o disabili mentali e fisici che agiscono o in strutture private (come case di cura od ospedali) o direttamente nelle abitazioni dei pazienti. È un lavoro pagato dignitosamente ma che obbliga le lavoratrici a turni esasperanti e incerti, e a viaggi autofinanziati tra un cliente e un altro. Sono molto affezionata a questa figura in quanto ho svolto questo lavoro per un anno a Londra, e Locke lo illustra in modo onesto e veritiero: perché nonostante le fatiche, spesso con i propri pazienti si instauravano legami di affetto e amicizia che mi portava (proprio come Abby) a dedicarmi a loro oltre il tempo stabilito dalle agenzie, perché come ripetevo spesso “non sto lavorando con dei vestiti ma con delle persone”. 2. Un capitalismo che non ha soltanto inglobato le aree produttive, ma anche i campi artistici e il settore della cultura. In merito si pensi al film del 2017 The Square a firma di Ruben Östlund, ma per sviluppare questo tema dovrete aspettare il mio prossimo articolo. 3. E. Mazzi, La memoria, unico antidoto al liberismo selvaggio (1997 agosto 15), L’Unità. Anno LXXIV, n. 193. 4. M. Weber, Economia e società, vol. II, Edizioni di Comunità, Milano 1980, cit. p. 314... Read more...Italian Lockdown – The Forbidden Photographs, un reportage di M. Castelli || THREEvial Pursuit15 Luglio 2020Italian Lockdown – The Forbidden Photographs di Marco Castelli 2020. Il coronavirus si diffonde a livello globale. L’Italia è il primo paese europeo a entrare in lockdown. È proibito a chiunque di uscire, se non per ragioni di necessità. Forse per la prima volta, ci si trova davanti a un momento storico in cui la documentazione visiva risulta intrinsecamente ed esplicitamente compromessa, collocandosi sulla linea d’ombra dei divieti contestualmente imposti. Cosa determina la legittimità della figura del fotografo, al di là di una partita IVA? Può l’occhio narrativo, in senso autoriale, riappropriarsi del diritto a un’analisi consapevole, senza dover ricorrere a letture e interpretazioni o, come sopra, a un riconoscimento legale quale il libero professionismo? In definitiva, cos’è che sancisce il discrimine tra il dovere di raccontare e la possibilità di farlo? Queste e altre riflessioni, oltre al bisogno incontenibile di documentare una fase storica – a detta di molti – senza precedenti, danno origine alla serie “Italian Lockdown – The Forbidden Photographs”. LE FOTOGRAFIE SONO STATE REALIZZATE NEL PIENO RISPETTO DEI DPCM VIGENTI.... Read more...La memoria breve dei social, un articolo di A. Rumé e C. Brunori || THREEvial Pursuit8 Luglio 2020La memoria breve dei social di Andrea Rumé e Claudia Brunori Cari lettori, il THREEvial Pursuit di questa settimana sarà un po’ diverso dal solito. Per questo abbiamo ritenuto di introdurlo e di introdurre coloro che lo hanno realizzato con queste parole. Parole innanzitutto di ringraziamento. Sì, perché Claudia e Andrea sono direttamente o indirettamente per noi delle vecchie e care amicizie ormai. Entrambi infatti fanno parte del Clowncare M’illumino d’immenso. Il progetto è attivo principalmente presso i reparti di Psichiatria, Emodialisi e Pediatria dell’ospedale di Santa Maria Annunziata di Ponte a Niccheri (FI). Da anni però l’associazione opera anche in territori devastati da calamità naturali, guerre o condizioni di estrema povertà quali Bielorussia, il Saharawi o la Palestina. Proprio Andrea raccontò ai nostri Simone Piccinni e Niccolò D’Innocenti del loro straordinario lavoro nella Striscia di Gaza sullo Streetbook Magazine #9. Da allora ci sono state altre occasioni per collaborare, per mettere in luce la realtà di certe terre, di chi le abita e di chiunque in un modo o nell’altro tenti di allungare una mano verso queste popolazioni per aiutarle a sopportare gli orrori, sempre a braccetto l’un l’altra, della guerra e della povertà. E in fondo, è di nuovo questo ciò che Claudia e Andrea hanno cercato di fare con le parole che leggerete di seguito. Un lettera “a cuore aperto” indirizzata a ognuno di noi per ricordarci quanto sia facile dimenticare. Dimenticare coloro che fino a pochi giorni fa chiamavamo “eroi”, dimenticare le sofferenze causate dalla prevaricazione delle guerre e dalle conseguenze dei disastri ambientali sui popoli una volta che l’eco mediatica su quegli avvenimenti si affievolisce e così il loro effetto sul nostro animo. Quindi, grazie a Claudia e Andre. Grazie per ricordarci che le parole sono importanti, i gesti smuovono le coscienze ma sono le azioni, quelle che durano nel tempo, ad essere giganti. *** Nella nostra realtà siamo bombardati continuamente di informazioni, notizie, valutazioni razionali sugli eventi mondiali che accadono e che suscitano in noi delle reazioni e delle emozioni, un po’ perché anche i mass media hanno il potere di enfatizzarle o sminuirle all’occorrenza con una facilità e una velocità che a volte destabilizza. Ecco perché è importante fermarsi a riflettere, ad ascoltarci, a capire che quei sentimenti sono i nostri e sono la più grande verità che possediamo… aldilà di quello che vediamo e viviamo. Sentirsi come allora: le vicende del Covid-19, i terremoti nelle Marche e in Abruzzo, brucia l’Australia, il clima uccide il nostro pianeta, gli attacchi terroristici… la guerra!!! Oggi chi sono? “Je suis …” oppure #andràtuttobene? Sono momenti tragici che riguardano la nostra quotidianità e che però hanno portato sul momento tanta solidarietà, tanto amore, tanta attenzione verso certi eventi catastrofici e fuori dal controllo umano… o quasi: ci siamo sentiti tutti vicini, ci siamo sentiti tutti in dovere di scrivere qualcosa sulla nostra pagina Facebook – per dimostrare che queste cose non ci erano indifferenti ma che ci colpivano. Eravamo solidali alle persone che hanno subito direttamente le conseguenze di tutti questi momenti, ci veniva spontaneo pensare agli infermieri e ai medici come a degli eroi, alla Protezione Civile, agli stessi Vigili del Fuoco e così abbiamo messo striscioni per le strade, fatto donazioni alle associazioni, cantato sui balconi… Insomma abbiamo dimostrato di essere persone che ci sono, che sentono e riconoscono certe figure professionali, certi eventi tragici che fanno rumore sul momento e che catturano anche la nostra attenzione, i nostri sentimenti e le nostre legittime reazioni e azioni. Momentaneamente diventiamo UMANI… poi piano piano, senza che nessuno se ne renda conto, tutto questo torna nel dimenticatoio. Col passare dal tempo sembrano venire meno certe cose, sembrano svanire e torniamo alla nostra vita… Ma la loro vita? Quella di infermieri, medici, la vita di chi è senza casa per colpa di un maledetto terremoto o per colpa di una bomba, la vita dei Vigili del Fuoco, quella di chi la vita la rischia in mezzo al mare, di chi lavora per pochi euro sotto il sole nei campi: la loro vita è cambiata? Purtroppo no. Erano infermieri e medici anche prima della pandemia e rischiavano la vita ugualmente. I Vigili del Fuoco continuano a svolgere il loro lavoro e ad eccezione di qualche applauso pubblico o mediatico ogni tanto non gli viene riconosciuto altro ufficialmente. Eppure continuano il loro lavoro, con amore e passione. Gli sfollati nelle zone terremotate ancora non sono ritornati nelle loro case e rivivono davanti ai loro occhi le tragedie di tre anni fa, perché in alcune zone ancora ci sono solo macerie… per non parlar di chi vive in zone del mondo che sembrano esser diventate zone di serie B. Palestina, Kurdistan, Sahara Occidentale, solo per citarne alcuni, e forse non abbiamo nemmeno idea di dove sono certi posti. Ma poi ecco che spunta la foto acchiappa like con