The sound of Silence – Viaggio in Tasmania, atto VII – G.Bindi


The sound of silence. G.Bindi Sono in un bosco a circa 30 chilometri da Hobart; è il giorno del corso di meditazione.Ho raggiunto il luogo con due passaggi in autostop, e visto che non sono bastati, con un’altra ora e mezzo di cammino su di un sentiero infrascato nella foresta. Finalmente arrivo. Il centro è completamente immerso nel verde, ed è costituito da una sala di meditazione, una sala da pranzo, una cucina, dei bagni, una piccola casetta con le camere, un vecchio pulmino adibito a camere con quattro posti letto. Ovviamente, a me era toccato il pulmino.

Ho una strana tensione addosso, e non c’entra il fatto di passare le prossime notti in un vecchio veicolo non certo invitante. Quando ho fatto richiesta per il corso ero nel più completo possesso delle mie facoltà mentali. Le regole le avevo lette e rilette, oltre a essermeli fatti spiegare più volte; ma adesso, a poche ore dall’inizio, mi incutono un leggerissimo timore.
Fra le principali, alcune sono fattibili: astenersi dall’uccidere qualsiasi creatura vivente, dal rubare, da ogni attività sessuale, dal mentire, da ogni genere di intossicante – caffeina, alcol, droghe -, dal mangiare dopo mezzogiorno. Fra queste le mie uniche perplessità riguardano l’astinenza dallo sterminare qualsiasi zanzara o insetto di cui possa arbitrariamente intuire la sua velenosità – siamo sempre in Australia… -, ma soprattutto dal digiuno prolungato. Altre le vedo molto più dure: non parlare, non fare rumore, non guardare negli occhi o toccare altre persone, non leggere, non scrivere, non ascoltare musica, non avere alcun contatto con chiunque sia rimasto nel mondo reale – cellulari e portafogli sono ritirati il primo giorno -. Il tutto scandito dal seguente programma:

Ore 4:00 – Sveglia
4:30-6:30 – Meditazione nella sala di meditazione o nella propria stanza
6:30-8:00 – Pausa per la colazione
8:00-9:00 – Meditazione di gruppo nella sala
9:00-11:00 – Meditazione nella sala o nella propria stanza secondo le istruzioni dell’insegnante
11:00-12:00 – Pausa per il pranzo
12:00-13:00 – Riposo, colloqui con l’insegnante
13:00-14:30 – Meditazione nella sala o nella propria stanza
14:30-15:30 – Meditazione di gruppo nella sala
15:30-17:00 – Meditazione nella sala o nella propria stanza secondo le istruzioni dell’insegnante
17:00-18:00 – Pausa per il tè
18:00-19:00 – Meditazione di gruppo nella sala
19:00-20:15 – Discorso del Maestro nella sala
20:15-21:00 – Meditazione di gruppo nella sala
21:00-21:30 – Periodo per domande o colloqui con l’insegnante
21:30 – Ritiro nelle stanze per la notte. Le luci vengono spente

Questo è l’autentico programma della meditazione buddista Vipassana. La sola, l’originale insegnata dal Buddha Siddharta Gautama più di 2500 anni fa. Dalla sua morte in avanti si formarono varie sette che hanno interpretato la meditazione nelle maniere più disparate, facendo perdere la purezza della tecnica. Nei secoli si è diffusa soltanto per via di donazioni effettuate da chi aveva completato lo scoglio del corso dei 10 giorni. Tutti gli inservienti, i maestri e le figure organizzative “laiche” sono reclutati da volontari che, esattamente come chi frequenta il corso, mandano l’iscrizione sul sito internet dove si crea una momentanea lista d’attesa. Chi frequenta, alla fine del corso può decidere liberamente di donare quanto vuole, anche niente – se pensa che l’esperienza non gli sia servita -. In cambio si pretende di attenersi per filo e per segno a tutte le regole del corso.
«Chi accetta di farlo deve arrivare in fondo, e se qualcuno pensa di non farcela che lasci ora». Le parole del maestro non risuonano per niente tranquillizzanti, anche se dalla sua voce si denota una calma inscalfibile.

Il Buddha ha aperto il corso a tutte le persone, di tutte le religioni e razze, senza discriminazioni. Al contrario di ciò che si pensa, il buddismo non è una religione ma una filosofia di vita, un’attitudine mentale che permette di vivere meglio e di affrontare le pressioni quotidiane con calma e lucidità – ovviamente non mi riferisco ai monaci che vi trovano finalità più spirituali che non sto ad argomentare -. Proprio per le caratteristiche universaliste e laiche, è opportuno lasciarsi dietro tutti i richiami religiosi, seppur legittimi e rispettabili – dai pensieri, ai santini, dalle preghiere, ai rosari o amuleti vari -.

«Non si vuole proibire alcun tipo di culto – spiega sempre il maestro – ma è fondamentale che liberiate la mente da qualsiasi cosa; è fondamentale che diate un’opportunità alla tecnica. Solo completando opportunamente il corso potrete giovarne. Avete domande?»
Fra tutte quelle che mi saltano in mente ne spicca una precisa:
«Ma davvero non potremo mangiare niente dopo mezzogiorno?», con un’intonazione che contro la mia volontà tradisce un principio di panico.
«Il corso prevede il digiuno. I frequentati al primo corso potranno mangiare un po’ di frutta durante la pausa tè».
Parzialmente rinfrancato da quelle parole, mi avvio, ormai all’imbrunire, insieme agli altri verso la prima sessione introduttiva di meditazione. Dopodiché i frequentanti, 30 in tutto, si ritirano nelle stanze. Maschi e femmine meticolosamente segregati fra loro nelle rispettive zone di influenza del centro. Il vero corso avrà inizio l’indomani.

Cosa vuol dire meditare? Cosa si cerca di raggiungere e a cosa si pensa quando lo si fa? A queste e a molte altre domande avrei dato risposta facendone esperienza direttamente sulla mia pelle. Essenzialmente meditare vuol dire non pensare a niente; mantenere quindi un’equanimità d’animo – una sorta di indifferenza emotiva – per poter rivolgere l’attenzione alla propria interiorità. Soltanto una volta calmato il flusso incessante dei pensieri e presa coscienza della totale impermanenza delle sensazioni i vecchi conflitti riaffiorano, così da poterli successivamente lasciare andare via mediante la semplice e distaccata osservazione. Si cerca di trovare la felicità attaccandosi a cose e ad affetti che saranno del tutto trascurabili una volta sopraggiunta la morte, destino ineluttabile per tutti. La felicità non sta né nella bramosia di avere un certo oggetto o una certa sicurezza economica, né nella gelosia provata nei confronti di altre persone né tantomeno nell’avversione che oscura la mente quando facciamo, vediamo, sentiamo qualcosa che non ci piace. La felicità sta solo in noi stessi, nel bilanciare le emozioni vivendo il mondo senza dargli troppa importanza.

Un vecchio saggio indiano diceva:
«Chi pensa che il mondo sia reale è uno stupido. Chi pensa che non sia reale è ancora più stupido».

Questa è la dicotomia apparentemente ossimorica, quasi incomprensibile per il nostro razionalismo occidentale, su cui si fonda il pensiero buddista. Tutto ciò che ci circonda è irreale fintanto che ci facciamo sballottare in balìa delle sensazioni che esso stesso suscita in noi. Dal momento in cui ce ne distacchiamo e vediamo “le cose come esse sono veramente” – da qui la parola Vipassana- e cioè inconsistenti e del tutto impermanenti, abbiamo la chiave per non farci coinvolgere più di tanto e finalmente vivere imperturbabilmente felici nel mondo “reale”, raggiungibile con la meditazione. Una dialettica sintattica molto interessante, che stravolge il punto di vista da cui si osserva la realtà: il mondo fuori è oggettivo, razionalmente comprensibile e uguale per tutti o la realtà è soltanto la proiezione soggettiva che il nostro intelletto interpreta per far sì che sia intellegibile per ognuno di noi?

Per quanto mi riguarda, la cosa più triste che ho appurato da subito, appena dopo l’inizio del corso, è la schiavitù della nostra mente nei confronti delle distrazioni. L’assoluto silenzio, il puro non far niente e l’immobilità obbligano la mente a concentrarsi e a non distogliere l’attenzione. La mente è costretta a non svagarsi, a non trovare piacere in qualsiasi cosa di effimero le passi davanti. I primi due giorni sono tragici. Sto letteralmente impazzendo. Non riesco a imbrigliare i pensieri, che scatenano sensazioni sempre più forti e ingestibili. Sfioro un paio di volte l’attacco di panico nel pensare che ho ancora più di una settimana di quella tortura davanti. Dal terzo giorno inizia ad andare meglio: la mente è più calma e riesco a meditare più a fondo. Ma mi riesce sempre difficile mantenere la posizione. Ogni 5-10 minuti devo stendere le gambe e il mal di schiena si fa sentire giorno dopo giorno. Dal settimo al nono giorno ho una nuova crisi che sfocia in uno sblocco emotivo con conseguente sfogo di pianto. Non sono mai stato così felice in vita mia. L’ultimo giorno ho la mente pulita, lucida, chiara e acuta. Mantengo l’immobilità per tutto il giorno senza battere ciglio. Qualsiasi dolore fisico che mi aveva tormentato fino ad allora sembra sparito. Sono un po’ scioccato. Qualcosa si è rotto; non so esattamente cosa, ma la verità è che non sono mai stato meglio. Il giorno dopo viene decretata la fine del silenzio. C’è grande euforia fra i superstiti (dieci persone hanno abbandonato il corso prima della sua fine). Facciamo conoscenza e festeggiamo prima di pulire e rimettere tutto a posto: fra circa tre mesi sarà organizzato un nuovo corso. Conosco una donna, una volontaria che ha lavorato in cucina negli ultimi giorni. Facciamo amicizia e tanto per cambiare mi ospita a casa sua a Hobart.

Il viaggio in Tasmania ricomincia.

Gianluca Bindi

The sound of Silence – Viaggio in Tasmania, atto VII – G.Bindi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna su