Nel paese dell’omertà e dell’indolenza di A. Biagioni || Varie ed eventuali || THREEvial Pursuit


 

Nel paese dell’omertà e dell’indolenza

di Andrea Biagioni

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omertà s. f. [etimologia incerta: variante napol. di umiltà, dalla «società dell’umiltà»; oppure variante siciliana da (u)omo, sul modello dello sp. Hombredad ‘virtù propria dell’uomo’]. – In origine, la consuetudine vigente nella malavita meridionale, detta anche legge del silenzio, per cui si doveva mantenere il silenzio sul nome dell’autore di un delitto affinché questi non fosse colpito dalle leggi dello stato, ma soltanto dalla vendetta dell’offeso. Più genericamente, la solidarietà diretta a celare l’identità dell’autore di un reato e quella solidarietà che, dettata da interessi pratici o di consorteria (oppure imposta da timore di rappresaglie), consiste nell’astenersi volutamente da accuse, denunce, testimonianze, o anche da qualsiasi giudizio nei confronti di una determinata persona o situazione.

indolènza s. f. [dal lat. indolentia «assenza di dolore», formato come indŏlens (v. indolente)]. – 1. Nell’uso comune, indifferenza d’animo, inerzia, apatia, pigrizia. 2. Non com. Nel linguaggio medico, mancanza di dolore, riferito a parte del corpo malata o ad affezione morbosa che non provochi dolore.

Ho deciso di partire da qui: dalla definizione netta, chiara e precisa di questi due termini, perché siate certi di comprendere a cosa mi riferisco ogni volta che li userò. E torneranno spesso, ve lo garantisco, come tornano spesso nell’ora e quaranta di Sulla mia pelle, seppur taciuti o sarebbe meglio dire sottintesi. Chi tace infatti nella pellicola di Alessio Cremonini non è lui stesso come regista, sono i personaggi a farlo. Al regista non resta che la realtà come la conoscevamo tutti ed è ciò che ha compreso chiunque abbia affrontato questo film: perché questo è un film che non si guarda, si affronta; perché affrontare vuol dire vedere e non necessariamente guardare. Vuol dire mettersi di fronte ai fatti, e i fatti in questo caso sono incontrovertibili: basta saperli leggere, anche se sono protetti da una cortina di fumo, o meglio ancora, dalla porta di una caserma che si chiude dietro le spalle di tre carabinieri e un ragazzo di 31 anni, ammanettato. Una porta che diventa un muro attraverso il quale né il regista né lo spettatore possono guardare, perché ciò che si trova aldilà del muro è un mondo a parte, impenetrabile, dove tutto dovrebbe rimanere sepolto. Solo che nel momento in cui si vede chiudere quella porta, è comprensibile a chiunque cosa avverrà. E ciò che riesce benissimo a Cremonini è richiamare alla mente concetti, opinioni e visioni semplicemente mostrando la realtà della morte di Stefano Cucchi. Cremonini in questo ha compreso la potenza del “silenzio che urla”.

Chi è abituato a leggere i nostri THREEvial è cosciente che il tono di questo pezzo è fin troppo convenzionale, classico se vogliamo, rispetto al solito. Forse per questo avevo pensato che avrei potuto usare la voce di Stefano per dire ciò che volevo esprimere e per risultare originale. Solo che la voce di Stefano è stata fatta rivivere talmente bene attraverso Alessandro Borghi da Cremonini e da Lisa Nur Sultan, che sarebbe stato superfluo riproporre lo stesso canovaccio. Ma soprattutto mi sono vergognato di essermi preoccupato di essere originale, ed è stato come accorgersi di voler usare un escamotage per togliersi di dosso una responsabilità. Mi sono apparso esattamente come tutti coloro che si sono trovati di fronte a Stefano nell’ultima settimana della sua vita, ovvero una persona che come tante in questo Paese riconosce nello stare zitto e nel nascondersi un sinonimo di quieto vivere. Ed è questo, oltre alla sofferenza non solo fisica ma soprattutto intima di Stefano, che emerge da Sulla mia pelle più di ogni altro aspetto.

Carabinieri e agenti di polizia penitenziaria, giudice e pubblico ministero, medici e infermieri, fossero alla stazione Appia o di Tor Sapienza, in tribunale o a Regina Coeli, al Fatebenefratelli o al “Pertini”: tutte queste persone hanno guardato Stefano in quegli occhi tumefatti e non hanno detto niente per un motivo o per un altro. Per fortuna, Cremonini li ha fatti parlare a suon di sguardi: sguardi che urlano, sguardi allarmati dalle conseguenze che potrebbe avere una parola in più o in meno, di tanto in tanto uno sguardo sincero e preoccupato per un ragazzo che soffre. Solo sguardi, nient’altro. E nelle rare volte in cui a quegli sguardi si accompagnano parole la situazione diviene insostenibile, perché ci fa comprendere fino a che punto questo Paese e i suoi cittadini siano intossicati dall’omertà e dall’indolenza. Perché la questione non riguarda solo chi è direttamente o indirettamente implicato nella vicenda, riguarda tutti noi. Medici e infermieri sono cittadini come noi, che con noi condividono gli stessi problemi, le stesse paure e la stessa rassegnazione del “tanto non cambierà mai niente”, un’espressione che ci racconta perfettamente come popolo, perché parla per noi. Parla del timore di perdere tutto: affetti, lavoro, rispetto, abitudini. Alle volte, il timore si estende alla vita stessa e alla morte, sociale o fisica che sia.

Perché dovrei perdere tutto questo? Per chi? Per Stefano Cucchi? Per uno come tanti? Perché devo essere IO a parlare? Che parli qualcun altro. E speriamo che qualcun altro parli, perché qualcuno dovrebbe farlo.

È questo modo di pensare e di non agire che ci circola nel sangue come un virus ed è proprio questo il problema dell’indolenza, che presa individualmente e occasionalmente è pure comprensibile. Può non essere condivisibile, ma fa parte di quell’istinto di sopravvivenza, di conservazione animale che ce la rende comprensibile, vicina. A chiunque è capitato almeno una volta di tacere o di rimanere immobili per quieto vivere o per pigrizia. A tutti è esplosa in testa quella frase, “tanto non cambierà mai niente, qualunque cosa faccia”, non nascondiamoci dietro a un dito. Ma non è l’occasionalità di un sentimento a condannarci. Quando quel sentimento diventa quotidiano, è allora che si trasforma in un virus inarrestabile, epidemico e quindi inestirpabile. È in quel momento che siamo condannati come individui e come popolo, perché in quell’istante il virus dell’indolenza si evolve in malattia conclamata, in omertà.

Io non so quanto questa infezione sia vicina al punto di non ritorno, ma di certo riconosco che ci siamo vicini. Riconosco che l’omertà dilaga in molti settori, a partire dalle istituzioni e da chi ne fa parte, anche perché questo è emerso negli ultimi giorni, proprio mentre scrivevo questo pezzo, ingolfato nella lettura degli atti, delle inchieste e delle tante, troppe contraddizioni, omissioni e falsificazioni che intossicano questa storia. Se Francesco Tedesco, uno dei carabinieri che trasse in arresto Stefano, abbia confessato per reale rimorso, per non volere essere associato ad un pestaggio al quale non prese parte e che cercò di fermare, o se lo abbia fatto per convenienza nella speranza di una mano più clemente da parte della “giustizia”, questo non possiamo saperlo e in fondo conta quel che conta. Ciò che conta è che ci sono voluti nove anni per arrivare a una verità, e sei di questi sono stati spesi per capire che non erano gli agenti della polizia penitenziaria, i medici e gli infermieri da mettere sul banco degli imputati. Sei anni per capire che il problema principale non erano l’abbandono terapeutico o le cause finali della morte. Sei anni per capire che prima si doveva indagare sul perché e su chi avesse provocato a Stefano quegli occhi tumefatti (e li hanno notati tutti in quei giorni), due vertebre rotte (e tutti hanno visto che faticava a camminare, a muoversi e a sedersi) e una serie di altre problematiche interne che evidentemente non sono state curate a dovere, perché se fossero state curate Stefano sarebbe ancora vivo. E basta leggere gli atti e sentire le testimonianze per essere consapevoli che Stefano era in quelle condizioni prima di essere affidato alla polizia penitenziaria. E a nessuno è venuta la voglia di approfondire in sei anni ciò che era avvenuto mentre Stefano era in mano ai carabinieri, di verificare le incongruenze, di sottolineare le omissioni. Nessuno tra gli inquirenti, tra i vari politici coinvolti nelle commissioni d’inchiesta: nessuno si è domandato cosa nascondesse quel muro di cui si sono circondati alcuni livelli dell’Arma dei Carabineri. O forse lo sapevano benissimo e hanno taciuto, complici di un atteggiamento omertoso che farebbe invidia agli ambienti in cui questa malattia si è originata e diffusa.

Nel corso di poco più di trent’anni, mi è capitato spesso di avere a che fare con persone appartenenti alla Polizia e all’Arma per burocrazia, lavoro o per stronzate di gioventù. Ma mi sono reso conto della loro normalità solo quando ho visto uno dei carabinieri prendere in braccio la nipote di Stefano Cucchi, poco prima che un collega annunciasse la morte alla madre, tranquillizzandola: ”Non si preoccupi signora, ha una bambina anche lui”. E lì mi sono ricordato di aver incontrato un microcosmo di persone comuni: indulgenti e prepotenti, individui col senso del dovere ed esaltati, giovani ambiziosi e padri famiglia. E mi sono ricordato che molti di loro mi hanno raccontato perché erano entrati nell’Arma o in Polizia, perché là dove dilagano le mafie funziona così: o si è con loro o si è contro di loro. E quello che vorrei chiedere a queste persone, adesso, è come si sentono: come si sentono ad essere accusati di comportarsi come coloro che dovrebbero combattere. Cosa provano ad essere rinchiusi nella cella dell’omertà? Forse è arrivato il momento anche per loro di far crollare quel muro se vogliono riacquistare un briciolo di credibilità, per loro stessi e per l’istituzione e lo Stato che dicono di servire. Perché una cosa è certa: quando questa storia arriverà in fondo, lo Stato italiano avrà perso contro Stefano Cucchi, questo Paese avrà perso, con buona pace di chi ancora offende lui e la sua famiglia. Una famiglia che, è bene ricordarlo, non si è fatta problemi a denunciare ciò che aveva trovato in casa di Stefano pochi giorni dopo la sua morte, se questo voleva dire non lasciare ombre nella ricerca della verità. Solo che quella famiglia è rimasta comunque inascoltata e addirittura vilipesa.

Stefano non era un santo, questo no. Era un ragazzo problematico come lo sono stati molti di noi. Era un ragazzo che si è scontrato contro le leggi che in questo Paese regolamentavano la produzione, la vendita, il possesso e l’uso di sostanze stupefacenti di largo consumo. Leggi riguardo le quali si pensava di aver fatto passi avanti in questi ultimi anni e sulle quali invece qualcuno oggi vorrebbe fare un passo indietro, in controtendenza con il resto del mondo “avanzato” che vede nella depenalizzazione e, in alcuni casi addirittura, nella legalizzazione una soluzione al sovraffollamento delle carceri e al controllo che la criminalità organizzata ha su questo giro di affari. Ma aldilà di questo rimane il fatto che, se per alcune leggi retrograde e insulse di allora Stefano aveva “sbagliato”, era giuridicamente giusto che pagasse, che scontasse la sua pena e che tornasse a sbrigarsi i suoi problemi a casa propria, affrontando le proprie responsabilità e la propria famiglia. Invece Stefano è stato ucciso di botte e indifferenza, è stato abbandonato da tutto e da tutti e gli si è fatto credere che anche i suoi familiari lo avessero abbandonato, mentre in realtà fuori combattevano per vederlo: combattevano che era ormai tardi, ma combattevano.

Stefano è morto perché è rimasto solo e questo è l’atto peggiore che uno Stato può perpetrare contro un suo cittadino. Questo lo rende un martire, come ci appare in quella specie di teca mentre i genitori e la sorella lo osservano completamente sfigurato. Quel volto ripreso dall’alto, mentre l’immagine si sfoca e si sgrana, è il simbolo della disgregazione di un Paese che non riconosce più cosa sia la giustizia. Quella maschera macabra che Cremonini ci piazza di fronte agli occhi ci chiede di guardare oltre, perché quella maschera l’abbiamo vista, ma ce ne sono altre uguali che sono cadute nell’oblio. Ci sono ogni anno almeno 150 maschere segnate dalla morte nelle carceri italiane, mentre fuori la vita scorre come la scena di un film. E non posso far altro che pensare che non i carabinieri, gli agenti, i medici e gli infermieri hanno sulla coscienza la morte di Stefano: tutti noi abbiamo ucciso Stefano. E la cosa peggiore è che Stefano non è il primo e non sarà l’ultimo che uccideremo. Ne cadranno altri, come ne cadono a centinaia ogni anno, nel Paese dell’Omertà e dell’Indolenza.

Fonte immagine: http://www.firenzetoday.it/

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