Three Faces

La terza faccia della medaglia

Sue, un racconto di S. Piccinni || Street Stories


Sue

di Simone Piccinni

Illustrazione di Federico Bria

Mi chiamo Sue, gente. E allora? Qualcosa in contrario? Ah, non potete vedermi. Forse è questo che vi conserva i denti in bocca. Già. Perché mi chiamerò pure Sue, ma sono un cristo d’uomo di due metri, con poca voglia di scherzare. E se c’è una cosa che mi fa andare in bestia, è vedere il ghigno sulla faccia di qualcuno quando mi presento. Quindi vi è andata bene che ve ne stiate di là dal foglio. E ghignate pure quanto cazzo vi pare; se vi avanza un po’ di tempo, questa è la mia storia.

Mio padre era un figlio di una cagna. Se ne andò quando avevo tre anni, senza lasciare nulla a me e mia madre. Giusto una vecchia chitarra, qualche bottiglia vuota e questo nome di merda. Già. Perché chiamarmi Sue è stata una sua idea: forse lo trovava divertente. Magari la mia disgrazia era dovuta a una sbronza del vecchio coglione o a una scommessa con qualche altro alcolista. Ogni volta che ripensavo a cosa doveva essere passato per quella testa marcia quando partorì questo nome, l’istinto era di uccidere il primo che mi capitava a tiro. Era sempre stato così: da bambino i ragazzini mi massacravano di battute, ma solo finché sono stato troppo piccolo per fargli ingoiare i denti. Puniscine uno per educarne cento: sarà. Certo è che ho dovuto darmi da fare, per farmi rispettare. Una rissa al giorno, per quasi quindici anni. Già. Ma la parte peggiore di avere un nome del genere non erano le scazzottate: in quelle impari a farti valere. La vera condanna è la risata della ragazza che ti fa battere il cuore come un tamburo apache, con quella ci puoi far poco: farà male dalla prima all’ultima volta.

Ad ogni modo, sono cresciuto in fretta: pugni induriti, cuore corazzato e la voglia di dar fuoco al mondo.

Raggiunti i vent’anni non ne potevo più di quel borgo polveroso: ormai ero visto come un poco di buono. Il nome, poi, mi si era attaccato addosso come il marchio sul culo di una vacca. Dovevo andarmene. Dovevo nascondere la vergogna. Soprattutto, dovevo trovare il responsabile della mia disgrazia.

Iniziai il mio peregrinare tra i più sperduti buchi di culo del Texas. Mi fermavo quanto bastava per accumulare il denaro per lo spostamento successivo, in qualsiasi maniera, lecita o illecita, mi si parasse davanti. Ho perso il conto dei cavalli ferrati per 10 pence l’ora, o degli ubriaconi gonfiati di botte e rapinati all’uscita dei saloon. Era solo sostentamento per il mio stomaco e alimento per la mia sete di vendetta.

Poi in un giorno di Luglio arrivai a Gatlinburg. Faceva un caldo fottuto e decisi di fermarmi in una locanda per una birra. Avevo una strana sensazione addosso: mi fulminino se ero mai stato lì prima, ma era come se avessi già visto il luogo. Entrai nel saloon e, sulla mia destra seduto a un tavolo con una pinta davanti, se ne stava una faccia familiare: cicatrice sulla guancia, sopracciglia folte e sguardo malvagio. Avevo già visto quel viso. Tirai fuori la foto scolorita dalla tasca, l’unica che mia madre avesse del figlio di puttana. La guardai, con il groppo crescente che mi bloccava lo stomaco e il sangue che iniziava a ribollirmi nelle vene: il vecchio serpente a sonagli era lì, seduto comodo in una locanda, come una persona normale. Beh, di certo non lo era per me. Già. E ora era nei guai.

Mi parai di fronte a lui con il mio sguardo più cattivo.
«Il mio nome è Sue, vecchio coglione. Stai per morire, lo sai?»

Fece giusto in tempo ad alzare gli occhi dalla pinta e lanciarmi una strana occhiata, come compiaciuta, prima che il mio pugno gli si abbattesse in mezzo alla fronte rugosa. Il colpo lo scagliò all’indietro, ribaltandolo dalla sedia. Rimase un secondo contorto a terra come uno straccio. Io mi avvicinai a lui per continuare a colpirlo, ma il vecchio bastardo, con un’agilità che mi colse di sorpresa, scattò con un braccio e mi colpì al lato della testa. Saltai indietro, sentendo un tocco rapido all’orecchio. Lo guardai mentre si rialzava di scatto, con un coltello in mano. Portai la mano alla testa e sentii un brandello di carne che mi penzolava dall’orecchio: quel fottuto ubriacone me ne aveva staccato un pezzo!

Sentii il fuoco salirmi dentro, ma lui fu più rapido e mi si scagliò contro, cercando di colpirmi di nuovo col coltello. Schivai la lama, ma il suo peso ci lanciò indietro, facendoci fracassare la parete di legno e rotolare nella strada polverosa. Riuscii a disarmarlo e ci allacciammo in un corpo a corpo micidiale. I colpi si scambiavano con un ritmo forsennato. Giuro, ho combattuto con gente di ogni tipo: grossi, pazzi, cattivi. Mi fulminino però se ricordavo un pezzo di merda più duro di quel vecchio stronzo: scalciava come un mulo e mordeva come un coccodrillo. Già. E i suoi pugni… Beh, capii da chi avevo preso.

Il sangue, la polvere e il sudore si mescolavano alla nuvola di cazzotti da cui eravamo avvolti. Riuscii a puntellarmi con un ginocchio e a darmi lo slancio per tornare in posizione eretta. Il vecchio cercò di approfittarne per impugnare la pistola. Fui più rapido di lui e gli puntai in mezzo agli occhi il mio revolver. Era il momento. Mi sarei liberato della bestia che mi portavo dietro da tutta la vita.

Qualcosa, però, fermò il dito sul grilletto.

Il vecchio stronzo mi guardava sorridendo. Era una cosa a metà tra un sorriso e un ghigno, ma non c’era la malvagità che mi sarei aspettato. Sputò a terra, si pulì le labbra dal sangue e iniziò a parlare.

«Uccidimi pure, figliolo. Ma prima, sappilo, devi ringraziami».

«Di cosa, porco schifoso?» chiesi.

Il vecchio sorrise di nuovo, sornione.
«È stata una rissa con i controcoglioni, quella da cui sei appena uscito, non ti pare?», fece una pausa per scrutare le mie reazioni, ma rimasi impassibile.
«Sai perché ne sei uscito vivo, ragazzo? Perché sei un duro. E sai perché sei un duro? Per il nome che ti ho dato» disse.
«Quando sei venuto al mondo sapevo che non sarei rimasto per molto» proseguì. «Sarò pure un pezzo di merda, ma ho pensato a te prima di andarmene: la vita è difficile e se un uomo vuole sopravvivere deve indurirsi. Sapevo che non avrei avuto il tempo per fartelo capire, quindi ho deciso di darti questo nome e salutarti. Era l’unico modo per assicurarmi che o avresti combattuto o saresti morto. E, a giudicare dalla nostra scazzottata, devi aver combattuto parecchio. Ha funzionato, no?»
Riprese fiato, poi continuò: «quindi adesso ammazzami, se ti va. Ma prima ringraziami, coglione, perché sono io lo stronzo che ti ha chiamato Sue!»

Cosa avrei dovuto fare?
Abbassai la pistola e lo aiutai a rialzarsi, lo abbracciai e lo chiamai Papà. Alla fine la vita è fatta di punti di vista. Già. Capii il suo e me ne andai per la mia strada, senza rancore.

Da quel giorno, ogni volta che mi si para davanti una sfida, penso a lui. Spesso non ci rendiamo conto del fatto che ciò che ci fa davvero del bene, non sempre ci fa anche stare bene. È stato un gran dono quello che mi ha fatto. Quindi grazie, vecchio. Ma se devo dirla tutta, odio ancora questo cazzo di nome!


(Un omaggio prosaico ad “A boy named Sue”, di Johnny Cash)

Sue, un racconto di S. Piccinni || Street Stories

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