Three Faces

La terza faccia della medaglia

Storie di piazza, un racconto di S. Piccinni || Street Stories


 

Storie di piazza

Un racconto di Simone Piccinni

Ph: Dario Bosio

“Eccolo, il mio regno”.

Questo pensa il Malva, irrompendo in Santissima Annunziata dal corridoio di Via de’ Servi. Passo regale, leggermente barcollante. La busta di tisana per la stitichezza ben nascosta in saccoccia, dono per gl’ingenui turisti. Il cappellino da baseball calato in testa, ad immaginaria corona. La barba ferina e i capelli scarmigliati come una criniera.
Un subumano incrocio tra un Re Magio e Simba.

Il suo regno, la piazza, l’ha adottato, accolto, quasi inglobato. Un utero di pietra, la Santissima, rifugio degli orfani della società: immigrati, nomadi, italiani senza dimora e ogni altro genere di fauna del sottobosco urbano. Ironico che questa sia da secoli anche la sede del primo orfanotrofio del mondo moderno: lo Spedale degli Innocenti.
Ma non è da lì che viene. Una famiglia ce l’aveva, lui, e nemmeno con le pezze sul sedere.
“Inutili e bigotti figli di puttana” è ciò che pensa delle sue ricche radici, il Malva. Non hanno mai accettato il suo stile di vita da borderline della legalità. La loro sentenza nei confronti del figlio? Un sonoro calcio in culo, e via, a far da Re in questa grigia reggia.
I suoi cortigiani questa sera sono assenti e l’aria della piazza spoglia ha un ché di surreale. I permessi di soggiorno sono merce rara, nel suo drappello multietnico, e ciò spinge a massicce fughe preventive alla vista di una qualsivoglia sirena, lasciandolo solo sotto lo sguardo degli sbirri compiacenti. Mica vìola la legge, lui. Non troppo, almeno. E poi salda i suoi debiti in altra maniera, passando informazioni ai tutori dell’ordine a discapito degli impudenti marocchini che osano profanare il suo territorio. E, in fin dei conti, questo è il suo regno, checcazzo! Avete mai visto delle guardie mettere in dubbio l’integrità e il potere del Sovrano?

Per sconfiggere la noia, decide che è giunto il momento di testare il souvenir dai Paesi Bassi, portato in dono dal suo amico Momo: estrae la batteria dal cellulare e tira fuori dal vano sottostante un piccolo ritaglio di cartoncino, avvolto nel cellophane. Non riesce a capire di che blotter si tratti, ma si fida della parola dell’amico: “Questo è come bomba di Hiroshima, fratello. Prendi mezzo, se nò tuo cervello… Puff!”. Si guarda intorno, srotola il trip dal suo trasparente sudario, lo osserva un attimo e se lo scucchiaia in bocca. Intero.
“Fighetta d’un nigga… Mezzo? Venvia, ‘e mi piallavo di gocce quando ancora te ‘ttu te ne stavi nella Savana a scappà da’ leoni, fava!”, ghigna ironico, col retrogusto acìdulo che s’impadronisce della lingua.

Attendendo la deflagrazione si siede sulle scalinate della Loggia dei Servi di Maria a tracannare il Baffo più famoso d’Italia. Ne contempla il vestitino da 66 cl. Poi alza lo sguardo sulla faccia austera di Ferdinando I de’ Medici, che se ne sta impettito sul suo cavallo di bronzo, a sua volta impettito sul piedistallo marmoreo al centro della piazza. Gli occhi vuoti della statua fissano la finestra sempre aperta di Palazzo Budini Gattai. “Cazzo guardi, scemo? Quella baldracca che ti pigiavi è morta da quel dì…”, ridacchia da solo, ricordandosi di quella vecchia voce popolare sulla finestra dalle persiane sempre socchiuse. Secondo la leggenda, l’amante del Granduca sarebbe vissuta proprio in quelle stanze, da cui il posizionamento della statua: un sempiterno scambio di sguardi tra il condottiero e la sua bella, indissolubile nei secoli dei secoli. Questa è l’unica cosa che sa, il Malva, della ricca storia della piazza. D’altra parte, i fatti più facili da ricordare, nella maggior parte dei casi, riguardano il gossip. Poco importa che quella faccia da stitico a cavallo fosse anche un cardinale e conquistatore di mondi, avesse ristabilito lo stato di diritto e avesse lottato per l’indipendenza della Toscana dagli Asburgo, oltre a commissionare tutte le opere d’arte della piazza, il Forte Belvedere del Buontalenti eccetera, eccetera. Per il popolo e per il moderno reggente della Santissima Annunziata, quello lassù rimane impresso perlopiù come un adultero puttaniere. Il Malva guarda la finestra, attratto da quello che gli pare un movimento dietro al vetro.
“Occhio a sta’ in quella stanza, ché ci son gli spiriti!”, ammonisce mentalmente, ghignando verso l’ignota ombra.
Luma due passanti, ai quali rivolge il suo solito saluto: – Marijuana ragazzi? Serve nulla? –.
Uno dei due borbotta qualcosa, senza fermarsi. “Merde”, pensa il Malva.
Lentamente iniziano a farsi strada i preludi dell’esplosione: sensazione di calore, il battito del cuore che sembra l’eco di un tamburo di guerra all’interno del cranio, uno strano prurito dietro le orbite e i suoni della città che iniziano pian piano a farsi lontani, deformandosi in lunghi lamenti.
“Boia, inizio a sentilla…” pensa, alzandosi in preda alla smania. Girella per la piazza. Si sciacqua la faccia ad una delle fontane dei mostri marini del Tacca, cullandosi nell’illusione di lucidità che l’acqua fresca gli concede.
Gira la testa, alla ricerca di appigli visivi cui aggrapparsi, mentre i contorni di palazzo Budini Gattai iniziano a miscelarsi con la Cupola del Brunelleschi, sullo sfondo.
Non c’è più nessuno in piazza, ad eccezione di una piccola figura alle spalle della statua equestre, ritta di fronte alla targa araldica sul piedistallo. Non l’aveva assolutamente visto avvicinarsi, il Malva, preso dal trip. Il bambino pare assorto, vestito con una tunica bianca che ciondola fino alle cosce, ricoprendo una calzamaglia dello stesso colore. Avrà sì e no 10 anni, o forse qualcosa in più. “Bada com’è vestito questo…”, riflette il Malva.
– Oh, nacchero. Che t’hai perso la via di casa? – gli urla dietro, biascicando le parole. Non ottenendo risposta si avvicina.
– Ciccio, lo so che sei giovane, ma è bene inizià presto a questo mondo. Marijuana? –.
Il bambino sobbalza, dapprima spaventato, poi si volta verso di lui e con la faccia contorta in una smorfia sbotta:
– Messere, col vostro favellar senza senso non riuscirò mai a contar le dannate api! –.
“Icché dice questo? Bada te come iniziano a drogassi presto! Ora gli butto lì un trip, tanto son pieno di biglietti dell’Ataf”, pensa il Malva, sbigottito.
– Ma come parli, bimbo? Dove sono i tuoi genitori? –, chiede, ricomponendosi.
– Col doveroso rispetto messere, ma è la vostra di parlata ad esser quantomeno bizzarra, anche se ormai c’ho fatto l’abitudine… – risponde il bimbo.
– Et per quanto riguarda i genitori, è ciò che vorrei sapere anch’io. In tal proposito, se voleste scusarmi, tornerei a contar le api – dice, tornando a fissare la targa.
Storie di piazza Malva RIDOTTAIl Malva non sa bene che fare, se abbandonarsi nei meandri delle sue distorsioni visive o indagare ancora. Prevale la seconda ipotesi.
– Non capisco se mi stai pigliando in giro o cosa, ma non dovresti stà qui da solo. ‘Gnamo, dov’è la tu mamma? –
– Sant’ Iddio! – sbotta nuovamente il bambino – Vi ho già detto, messere, che non lo so! Et giammai lo saprò, se non conto queste cose forgiate da Lucifero! Quella befana de Madre Superiora non mi lascerà mai libero da quel lazzaretto! – abbassa la voce tutto insieme sull’ultima frase, voltandosi ad indicare lo Spedale.
– Ahhh, ma sei un orfano. Vabbè, ma che gliè il modo? Lasciarti qui fuori di notte. Oh’ccome stanno ‘ste mentecatte di suore? –
– Vi prego di non tediarmi oltre. Son fuito dal convitto, com’ogne calar del sole da trecensettantacinque anni per contar le maledette. Ma questa puot’esser la justa notte. Non avete da vender erbacce a qualcheduno? – rimbrotta il pargolo.
– Ma come cazzo parli? Bada nano, abbozzala di prendè per i’ cculo, ché ho già i miei problemi – risponde il Malva, cercando di mettere a fuoco i contorni del bambino.
– E che voi dì con “erbacce”? Che ne voi sapè te… –
– Suvvia messere, è da quando eravate poco più che pargolo che vi scorgo a scambiar fogliame con giovinetti e genti d’oltremare – sogghigna il bimbo.
– Questi ‘un sò affari tuoi, gnomo. E poi finiscila di dì boiate. Oh che storia gliè? Quand ero pargolo io te ancora sguazzavi nelle palle di’ttu babbo, venvia –.
Il piccoletto sbuffa. – Uff… Via, siccome oramai ho perduto il conto, et il tempo certo non mi manca, vi conterò la mia historia –.
– Il nome mio è Niccolò Nocentini – inizia, assumendo l’aria scocciata di uno scolaretto che ripete la lezione – o meglio, questo è l’appellativo che mi diede l’abate Borgi: fui lo primo ad esser battezzato di sua mano, nell’anno domini 1642 – dice, quasi con una punta d’orgoglio. Poi, indicando la Ruota degl’Innocenti ormai murata, prosegue:
– Mi depose laggiù, mia madre –.
Abbassa lo sguardo al collo ed estrae dal bavero un ciondolo argentato, spezzato a metà.
– Mi lasciò con un bacio, credo. Et questo monile –.
Il Malva viene sopraffatto da un ondata lisergica e si siede a terra, assorto. “Ok, so’ partito…”. Ma che si tratti di un effetto dell’acido o meno il bimbo lo intrattiene, impedendogli di intripparsi a guardare gli universi nei lastroni di pietra o, peggio, di perdersi in pericolosi deliri introspettivi.
– Di lei nulla so, se non che giungerà il dì in cui la rivedrò. È la mia meta da quando serbo memoria. Sin fine, le scoppole prodigatemi dalla Priora per le mie ripetute fughe, e troppi i Pater Noster recitati a forza di ciaffoni. Sino a quando, pria che mi spedissero ad apprender il mestiere di pellajo, giunsi all’accordo colla vecchia: s’io fossi riuscito a contar le api della targa sine usar altro se non li miei occhi, ella avrebbe acconsentito a lasciarmi libero di partir alla ricerca di mia madre – il bimbo si rabbuia un istante, poi prosegue: – Passai giorni e giorni e ancora giorni qui davanti, ma il fato sin justitia volle prendersi gioco di me: mentr’ero qui, a tentar l’impresa, un destriero imbizzarrito mi menò una gran pedata sul groppone e io, cascando, mi fracassai la testa proprio sotto l’ape regina –.
Uno sguardo allucinato si fa largo sulla faccia del Malva, incapace di parlare.
– Da allora, ogni sera mi ritrovo qui, invisibil per tutti men che pell’occhio di quell’arpia. Millanta volte provai a fuggir dalla piazza, ma come menavo per Via de’ Servi, Via de’ Fibbiai o Via della Colonna, una mano mi raggiungea, come una lingua di foco saettante, e mi prendea salda pell’orecchio – infervorandosi, mima lo schioccare di una frusta.
– La vecchiaccia persiste nell’oppressione financo post trapasso. Esige il rispetto del patto et, seppur la nostra presenza sulla terra dimostri l’infondatezza del suo divin potere, io quivi giaccio da quasi quattro secoli. Et la mi’ mamma ancor non so dove dimora. Fantasma, demone, angelo o qualsivoglia forma ella abbia assunto dovrò pur vederla, presto o tardi! –.
Una lacrima serpeggia sulla guancia del bambino, che tira su col naso e immediatamente l’asciuga col dorso della mano.
– Ma fin a quel momento mi ritrovo rinchiuso com’una fiera in gabbia in questo rettangolo di pietra, lo sol di cui ricordi il guardo. Crebbi e morii nello stesso posto e, come somma punizione, ivi rimango anco nell’eterno riposo, se riposo si può chiamare. L’unico pensier che mi rallegra è la speranza che ‘l Tacca, l’immondo scalpellino livornese autor di siffatto malefizio, passi lo suo riposo tra le fiamme dell’Averno a scalpellarsi le gonadi sino allo Divin Juditio, ‘n compagnia del Giambologna, suo maestro! –, mimando martellate sul cavallo della calzamaglia.
D’improvviso un fischio riecheggia vicino all’orecchio del Malva, che sussulta. Una scudisciata di fuoco azzurro sibila nell’aria, partendo da una finestra dello Spedale. Come una meteora impazzita, la mano anellata alla fine della fiamma si abbatte sulla faccia del bambino, facendogli compiere una mezza giravolta.
– Che cazzo è stato? – chiede il Malva col cuore in gola, sgranando gli occhi.
– Oioi… Povero me. Quest’invece era ‘l Borgi, ne riconosco il timbro… Bravo tutore, invero… – geme il bimbo, pronunciando l’ultima parte della frase ad alta voce, rivolto alla finestra. – Non ama la scurrilità, il vecchio Cerbero malnato – conclude in un sussurro, massaggiandosi la guancia.
S’intravedono i segni di cinque dita rosse sul suo volto, ma lui si ricompone un attimo e, scuotendo il capo per stoppare il ronzio all’orecchio, conclude:
– Ordunque. Abbiam fatto li dovuti convenevoli, ergo tornerei a contar quelle bastarde, volesse il cielo ch’io stanotte ci riesca –.
Detto questo il piccolo si volta perentoriamente verso il piedistallo, lasciando il Malva in stato confusionale, buttato a terra come uno straccio vecchio, con una Moretti ormai calda e sgassata tra le mani. Non ha nemmeno la forza di controbattere, spaesato.

Con una pesantezza infinita si tira in piedi, come sollevasse la statua equestre in spalla. “Devo camminare, questo nano non c’è mica del tutto, sempre che ci sia davvero. Per inventarti una storia del genere non devi stare troppo bene… O magari son io che sono alla buccia, vai a sapere… Pure le lingue di foco. Mai avute allucinazioni così…”.
Lascia lì il bambino, concentrato sulla targa troneggiata dal motto Maiestate Tantum, come se il loro dialogo non avesse mai avuto luogo.
Vaga per la piazza, mentre avanza la fase introspettiva del trip ad affiancarsi alle distorsioni visive. Cerca di schiacciare le domande che si fanno strada come si schiaccerebbero zanzare in estate, il Malva. Ma queste tornano immediatamente a pungere qualche altra porzione di cervello. Una cupa disperazione s’impadronisce di lui.

– Come vedo Momo gli appioppo due schiaffi. Sta roba dovrebbe essere illegale – sghignazza da solo, istericamente. Camminando sghembo sotto il loggiato della Basilica, la sensazione di aver perso una parte d’esclusiva sulla piazza lo massacra, destabilizzandolo. Tutto sembra vivo, tutto sembra che lo guardi, giudicandolo nella sua insignificanza. Ogni fregio, ogni mattone, colonna o lastrico di quella che fino a poco prima considerava una sua specie di proprietà privata, pare avere altre mille storie ben più interessanti della sua da raccontare.
Si guarda alle spalle, in direzione del palazzo Budini Gattai, e nota ancora una volta l’ombra alla finestra sempre aperta, avendo la spiacevole sensazione di aver degli occhi appiccicati addosso. Poi abbassa lo sguardo ai piedi della statua, sperando di non vedere nulla.
Il bambino ha un sussulto e si contorce, battendosi un pugno snervato sulla coscia.

Poi, imperterrito, si rimette a contare.

Ph: Dario Bosio

Illustrazione: Giulia Brachi

Storie di piazza è un racconto di Simone Piccinni tratto da StreetBook #1.

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