Storia di un gioco di C. Piccinni || Varie ed eventuali || THREEvial Pursuit


 

Storia di un gioco

di Chiara Piccinni

el juego chiara testa

Diciamo che sul come sono arrivata a essere dove sono, non ne ho mai avuto un’idea chiara. Diciamo pure che se mi avessero detto quattro anni fa che avrei fatto quello che sto facendo, non c’avrei creduto neanche a spinta.

Fatto sta che ci sono. E lo faccio.

Sull’inizio del mio viaggio verso il Sud America vorrei dire ben poco, a parte che mi sono rimessa totalmente in gioco dopo anni di vita fin troppo cittadina, per quella che volevo fosse la mia impronta nel mondo. Ho iniziato passando un annetto buono tra Peru ed Ecuador; lo scopo era di provare in via pratica tutto quel mondo di vita in comunità e di lavoro manuale con la terra, che prima avevo solo ipotizzato nella mia tesi di laurea (assolutamente fuori contesto e molto sperimentale) per ufficializzarmi come graphic designer. Che c’entra la grafica con la permacultura? Quasi niente. Però lo sperimentale giustifica i mezzi.

A suon di settimane in barche per il trasporto merci ricorrendo fiumi amazzonici arrivo, leggermente provata, in Colombia. Questa terra mi ha dato molto più di quanto fossi pronta a ricevere. E non sto parlando solo delle ingenti dosi di Cumbia.

Appena arrivata, sono stata accolta da due furti (da parte loro) e un sacco di bestemmie (da parte mia).

el juego chiara 2 ridottaPer ripulire spirito e corpo dalle ingiurie della vita, sono scivolata verso un volontariato a un incontro di shamani, il cui scopo di quell’anno era “l’unione dei popoli”, la KIVA. Io e altri quaranta volontari, viajeros di tutto il mondo, ci siamo ritrovati a scavare un gigantesco buco nella terra a suon di pala, sudore e lacrime, dove tutti gli impiumatissimi e ornatissimi shamani andavano a fare rituali e a pregare per la pachamama –a.k.a. the holy madre terra– con cerimonie rituali e temazcal (capanne sudatorie) annessi.

Posso dire con sincerità che i popoli si sono uniti davvero. Saranno state le energie mosse dagli shamani, saranno state le imprecazioni di noi volontari contro l’organizzazione poco affidabile e un classismo che non c’aspettavamo, sarà che avevamo tutti tantissimi processi interni aperti, sarà che avevamo tutti una gran voglia di scaricarci emozionalmente, ma abbiamo iniziato a fare semplici “giochi” tra di noi, una volta finito l’orario del volontariato. Ogni sera ci ritrovavamo in un salone e, come creando una grande costellazione familiare collettiva improvvisata, una persona iniziava a parlare di un suo crisma del momento e per risposta, quattro scoppiavano in lacrime, poi due di questi si guardavano intensamente iniziando a riscoprire la relazione madre-figlia perduta da anni, altri due facevano lo stesso e piangevano insieme. E alla fine abbracci su abbracci. Ma di quelli veri, carichi, sentiti.

A quel tempo c’era una persona, volontario anche lui, che ci ha fatto vedere come fare questi giochi, derivanti da varie tecniche di psicologia alternativa, e che ci spronava ad aprirci e ad autoaccompagnarci. Notte dopo notte eravamo sempre più numerosi e più uniti. Sempre più vogliosi di mettere le mani in una profondità che poche volte avevamo vissuto in maniera così palpabile.

E quando parlo di profondità, parlo della profondità che si tocca quando più persone si mettono a nudo, mettendo sul tavolo tutta la merda e la bellezza che si portano dentro, per cercare un incontro reale, permettendo quell’empatia che alle volte fa troppo male, ma facendo qualcosa con questo dolore, in modo che possa trovare il suo spazio, senza rifiutarlo.

È come quando ti senti un peso addosso da tutta la vita. E pensi che nessuno possa capire il tuo dolore perché è tuo. Solo te l’hai vissuto e, diciamocelo, ti viene anche un po’ di senso di colpa al pensiero di rompere i coglioni agli altri con i tuoi problemucci del cazzo. Poi incontri delle persone con cui si crea questo accordo, questo “permesso”. Andiamo al peggio? Andiamo, e ci andiamo insieme.

E poi… ops! Scopri che tutti, questo tuo – solo e unicamente tuo – problemino del cazzo, a modo loro lo conoscono e gli risuona. E quando arrivi a questa consapevolezza, puoi davvero incontrare una rinascita collettiva. Di trovare un senso esperienziale nella frase proto-hippie per eccellenza: siamo tutti uno.

E tutto questo è un gioco. È un gioco molto serio, ma non lo chiamerei “lavoro interiore”. Durissimo e soffertissimo lavoro interiore. Per poi ricercare una lontanissima illuminazione. Sai che ansia. Mi viene la gastrite solo a pensarci.

E da lì, la parola “gioco” – o piu propriamente, el Juego – nella mia vita, ha preso tutto un altro significato.

el juego chiara ridottaFinito l’incontro ci siamo ritrovati, tra tutti i volontari, uniti e con una gran voglia di non dividerci. Questo nuovo gioco m’aveva preso e volevo vedere, parafrasando, quant’era profonda la tana del Bianconiglio.

Abbiamo cominciato a spostarci in massa, affittando fincas e costruendo accampamenti estremamente rudimentali dove sperimentare le tecniche tra di noi, imparando ad accompagnarci nei nostri processi. Un giorno accompagnavo qualcuno che, il giorno dopo, accompagnava me. Tutto questo ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Era collettivamente nata una voglia irrefrenabile di mettere mani, piedi e tutto il resto nei meandri più profondi dell’inconscio collettivo. Scoprire le radici comuni delle bassezze e altezze dell’essere umano.

Adesso il nostro stile è cambiato, i nostri bisogni pure. Continuiamo a spostarci, ma questa volta di casa in casa, pronti a trovare una terra dove costruire, in modo che il nomadismo da cui nasciamo possa evolversi e cambiare forma. Facciamo eventi, arriviamo a sempre più persone. Quello che rimane è il giocare con le emozioni, dar forma agli impulsi.

Sempre più professionali nel nostro essere pirati, ormai appoggiati dalle più illustri cariche della psicoanalisi colombiana e, dall’altra parte, dagli shamani del territorio. In continua ricerca di una tecnica che sia la fusione di tutto quello che è già stato creato e molto di più.

La sperimentazione continua mi permette di poter dire di non ripetere la stessa routine giornaliera, questo m’aggrada. A volte è scomodo, certo, però è una nuova gioia che ho incontrato. E parlo di ripetizioni anche a livello di atteggiamenti, di scelte. Detto più in generale, del vivere.

Adesso sono tornata a Firenze per un po’ di mesi, per una vacanza in famiglia, con vecchi e nuovi cari, e per mettermi alla prova con le tecniche da sola, per vedermi in un altro contesto. Sta andando bene, è una scoperta continua. Ovviamente quel gruppo di psicopatici mi manca, ma me li porto tutti dentro.

Dalla regia mi dicono che è venuto il momento di una piccola riflessione personale per concludere. E io, a concludere le cose, non sono un cazzo brava.

Quindi l’altro giorno stavo ripensando a Elianto, il libro del buon Stefano Benni, dove racconta che in uno dei pianeti descritti nel libro la morte sopraggiunge quando arrivi al numero limite di ripetizioni di qualcosa. Per esempio, nella tua vita mangi 956 gelati, al 957esimo, crepi. Oppure dici la parola “fenomenologico” 105 volte e alla 106esima stramazzi al suolo (conteggio pericolosissimo per i filosofi).

E quindi la conclusione la lascio a te. Quante volte ti vuoi ripetere? Quanto ti vuoi permettere di giocare?

Per saperne di più, potete dare un occhio sulla pagina della comunità cliccando qui!

 

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