Statue War: The Birth of a Question, un articolo di C. Francioni || THREEvial Pursuit


Statue War: The Birth of a Question

di Chiara Francioni

black lives matter statue war

In seguito alla morte di George Floyd, avvenuta lo scorso 25 maggio a Minneapolis, negli Stati Uniti – e non solo – il movimento Black Lives Matter ha dato vita a significative proteste che hanno messo in luce il più infiammato dei nervi scoperti della cultura americana: la questione razziale. Senza dilungarmi sul contesto generale, che di certo può essere trattato meglio da chi è più competente di me, vorrei limitarmi ad approfondire un unico tema, che ha però trovato ampio spazio nel dibattito pubblico. Si tratta della questione concernete la sorte dei monumenti controversi che, oltreoceano, ha preso il nome di “Statue War”.

Recentemente, e proprio in seguito ai fatti del 25 maggio scorso, il tema è nuovamente tornato alla ribalta, anche per effetto delle iniziative dei manifestanti che sono passati all’azione, imbrattando, decapitando o addirittura deponendo talune delle effigi incriminate. L’argomento appare divisivo: da un lato c’è chi plaude la manifestazione ideologica che sorregge il neonato movimento iconoclasta; dall’altro chi denuncia gli atti di deturpazione. In questa sede cercherò quindi di spiegare perché, in realtà, dovremmo prestare molta attenzione a tale forma di denuncia.

Quali monumenti sono oggetto di controversie?

Premetto che, per esigenza di sintesi, ho scelto di concentrarmi solo sull’esperienza statunitense, sia per fare eco alle proteste degli afroamericani, sia perché mi è sembrato opportuno approfondire adeguatamente il tema trattato. Magari, in futuro, potrebbero seguire retrospettive sulla situazione europea, in generale, e italiana, nello specifico. Dato tale assunto, i monumenti al centro dell’occhio del ciclone sono quelli dedicati al mito sudista che ritraggono o commemorano politici e militari confederati, come Jefferson Finis Davis o Robert Edward Lee[1].

Perché sono stati presi di mira proprio questi monumenti?

Il movimento Black Lives Matter nasce negli Stati Uniti tra il 2013 e il 2014 come forma di reazione alla brutalità delle forze dell’ordine e alle pratiche di profilazione razziale, facendosi inevitabilmente  portatore delle generali istanze anti-razziste degli afrodiscendenti. La morte di George Floyd ha dunque operato da innesco per la miscela esplosiva che, durante un secolo e mezzo di discriminazione, ha visto crescere a dismisura il proprio potenziale distruttivo. Basti pensare che l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti, così come nel resto del mondo occidentale, è un fatto relativamente recente e verificatosi quasi cento anni dopo il varo della Costituzione del 1789. Quest’ultima fu infatti adottata grazie a un compromesso storico che consentì di unire, sotto la bandiera federale, gli stati del Nord e quelli del Sud, fortemente contrapposti in merito alle sorti della schiavitù: i primi favorevoli all’abolizione dell’istituto, i secondi contrari.

black lives matter auckland

In altre parole la Carta costituzionale riconosceva solo implicitamente il potere del Congresso di abolire il sistema basato sulla tratta degli schiavi, stabilendo che l’organo parlamentare non avrebbe potuto impedire l’importazione di quelle Persone (non vennero mai usati termini come “schiavo” o “negro”) sino al 1808[2] (anno in cui venne poi effettivamente proibita la tratta, ma non ancora il diritto di possedere uno schiavo).

Nel 1861, in seguito alla vittoria di Abraham Lincoln alle presidenziali, un gruppo di stati del Sud, preoccupati dalle prese di posizione abolizioniste del neoeletto presidente, si staccò da Washington, dando vita alla Confederazione. La secessione venne formalizzata con l’adozione di una nuova costituzione e con l’istituzione di un governo autonomo, guidato da Jefferson Davis. L’articolo 1 della Costituzione Confederata prevedeva, senza mezzi termini, che nessuna legge avrebbe potuto abolire la schiavitù e, in questo caso, furono impiegati sia il termine “schiavo” che “negro”[3]. Scoppiò così la nota Guerra civile americana che vide contrapposto l’esercito dell’Unione (Nord) a quello confederato (Sud).

Benché gli americani tendano a giustificare le ostilità con motivazioni collaterali (ad esempio il conflitto economico), la realtà è che il vero fulcro degli scontro fu proprio la sorte dello schiavismo. La guerra terminò con la vittoria dell’Unione sui confederati nel 1865, anno in cui fu finalmente proclamato il XIII emendamento della Costituzione, che abolì in modo assoluto l’istituto della schiavitù. Seguì una prima stagione di riforme federali – passata alla storia con il nome di Ricostruzione –  volte a favorire l’emancipazione e l’integrazione degli ex schiavi (freedmen) nel tessuto sociale e giuridico statunitense. Tuttavia, sempre nel 1865, a Pulaki (Tennessee), fu fondato il Ku Klux Klan, che si pose come primo ricettacolo dei malumori dei confederati sconfitti e che rimase in essere sino al suo scioglimento per provvedimento federale, intervenuto nel 1871.

Quando Washington cominciò a manifestare disinteresse per il processo di integrazione negli stati del Sud, la classe dirigente locale ebbe la possibilità di riaffermare l’egemonia bianca, neutralizzando, di fatto, i traguardi raggiunti in precedenza. Tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX vennero, così, adottati numerosi provvedimenti attuativi della celebre dottrina “separati, ma uguali”, meglio noti come Leggi Jim Crow (dal nome di una macchietta caricaturale interpretata dall’attore Thomas D. Rice con tanto di blackface). Tali provvedimenti avevano come fine quello di garantire la segregazione razziale e la conseguente ghettizzazione degli afroamericani[4].

La dottrina discriminatoria fu avallata, nel 1896, anche dalla Corte Suprema con la famosa sentenza del processo Plessy v. Ferguson, per mezzo del quale venne espressamente sancita la costituzionalità delle leggi statali che favorivano la separazione fisica tra bianchi e neri. Intanto, a New York, in opposizione alla deriva suprematista del Sud, nasceva la National Association for the Advancement of Colored People (NAACP), prima promotrice delle battaglie per l’uguaglianza civile che avrebbero infiammato gli anni ’50 e ’60. Nel 1915, di contro, fece la sua comparsa il nuovo Ku Kluz Klan, rinato come Silenzioso Impero del Sud e animato dall’intento di riscattare la razza bianca e mantenerne ferma la supremazia.

Il nuovo Klan trovò terreno fertile anche grazie alla politica segregazionista dell’allora presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson e all’incredibile successo del film Birth of a Nation, rilasciato proprio nel 1915 e passato alla storia come il primo blockbuster americano. La pellicola offriva una narrazione razzista ma largamente condivisa della Ricostruzione, rappresentando i neri come bifolchi e predatori sessuali di donne bianche e, di fatto, esaltando il pensiero suprematista[5].

Un primo importante segnale progressista fu il mutamento di orientamento della Corte Suprema che, nel 1954, condannò la segregazione nelle scuole (Brown v. Board of Eductaion of Topeka[6]).  Le leggi Jim Crow vennero infine rese del tutto illegali nel 1964 con l’adozione del Civil Rights Act e nel 1965 con il Voting Rights Act, traguardi che furono resi possibili grazie alla stagione delle lotte per i diritti civili, che vide la mobilitazione di figure dal forte carisma come Martin Luther King Jr. e Malcom X. Non occorre precisare che, anche dopo il tramonto della dottrina “separati, ma uguali” la questione razziale ha continuato a avvelenare gli animi, fino a sfociare nell’attuale ondata di proteste che ha ormai coinvolto tutto il mondo occidentale.

L’excursus storico appena delineato è indispensabile per compiere il passaggio successivo, ossia l’esame delle origini della c.d. Statue War. È ormai noto che le centinaia di statue raffiguranti politici e soldati confederati, in alcuni casi connessi al KKK, siano state erette con un chiaro intento propagandistico, volto cioè alla riaffermazione dell’egemonia bianca a fronte dell’abolizione della schiavitù. È interessante, in questo senso, il diagramma diffuso nel 2017 dalla CNN, dal quale emerge l’evidente tendenza a erigere statue e monumenti commemorativi della cultura confederata in concomitanza della radicalizzazione del conflitto razziale: in particolare si osservano i picchi verificatisi tra il 1900 e il 1920 (in piena epoca Jim Crow) e negli anni ’60 (quando i movimenti contro la segregazione raggiunsero il massimo del loro vigore)[7].

diagramma cnn statue war
Fonte Cnn

La c.d. Statue War tuttavia non è, come in molti credono, un neonato vezzo manifestatosi in conseguenza dell’incresciosa morte di George Floyd. Ormai, infatti, da tempo si dibatte su cosa fare dei monumenti in questione, anche se la conclusione della querelle, in molti casi, è coincisa con il mantenimento delle effigi o in eccessivi temporeggiamenti. Basti pensare alle ormai note statue del generale Robert E. Lee di Charlottesville – divenuta celebre per i tragici fatti dell’agosto 2017[8] – e di Richmond, le quali, nonostante l’avvio della procedura di rimozione, si trovano ancora al loro posto a causa di lungaggini burocratiche.

È notizia di questi giorni la temporanea sospensione dello smantellamento della statua equestre di Richmond, decretato all’inizio di giugno, per effetto di un provvedimento cautelare adottato nel contesto di una causa azionata da un privato cittadino e volta al mantenimento dell’effige[9].  

E quindi, è giusto o sbagliato rimuovere effigi di personaggi controversi?

Uno dei principali argomenti contrari è la pretesa volontà di difendere la storia o il patrimonio artistico. Si sono spese parole pesanti, come censura e revisionismo, nella accezione negativa del termine, fino ad arrivare al negazionismo. In un articolo pubblicato da AGI, si legge addirittura  che Orwell, in 1984, avrebbe gettato “prima del tempo un rapido sguardo su quello che succede in questi giorni nelle strade di molte città”, argomentando l’assunto con una citazione tratta direttamente dal libro:

“Ogni immagine è stata ridipinta, ogni statua e ogni edificio è stato rinominato, ogni data è stata modificata. E il processo continua giorno per giorno e minuto per minuto. La storia si è fermata”[10].

Tale argomento, a mio avviso, incontra un limite importante, rappresentato dalla funzione propria dei monumenti. Questi ultimi, infatti, a differenza di un trattato di storia o di un esposizione museale hanno l’unico scopo di celebrare e rendere onore a un determinato personaggio, avvenimento o ideologia. È invece del tutto vero che l’erezione di un simulacro può essere considerata, essa stessa, un fatto storico. Allo stesso tempo, pertanto, possiamo ritenere che anche la rimozione di quello stesso simulacro abbia una valenza storica.

L’accusa di revisionismo, peraltro, è parimenti poco calzante. In primo luogo perché il termine viene utilizzato, in modo improprio, per descrivere una presunta volontà di reinventare la storia alla luce della tanto criticata political correctness della sinistra intellettuale. Eppure la revisione storiografica altri non è che un’operazione che coincide con il ripensamento di fatti passati in seguito all’acquisizione di nuove consapevolezze nel perseguimento della massima oggettività possibile. In secondo luogo, spesso e volentieri, è proprio la tendenza a tollerare la permanenza dei monumenti de quo a essere frutto di una rilettura di convenienza della storia, mossa dall’intento di edulcorare il vissuto dei nostri precedessori, così da riuscire a convivere pacificamente con le colpe di cui si sono macchiati. 

Emblematica, in questo senso, è la difesa dei confederati da parte di chi, negli USA, si oppone alla rimozione delle loro statue invocando l’immagine romantica del soldato sudista, dipinto come valoroso e ribelle combattente battutosi per la difesa della propria indipendenza.

L’ulteriore argomento che viene schierato in campo contro la rimozione delle statue controverse è rappresentato dalla fallacia logica dello Slippery Slope (letteralmente “pendio scivoloso”), tecnica argomentativa che, partendo da una tesi che si desidera confutare, trae una serie di conseguenze negative descritte come necessarie e inevitabili, mentre le stesse sono del tutto contingenti e arbitrarie.

Black Lives Matter insta statue war

Personalmente ho dovuto affrontare una discussione in cui mi si poneva la seguente considerazione: se accettiamo di rimuovere le statue degli schiavisti americani, arriveremo anche ad abbattere il Colosseo e a smantellare tutte le strade costruite in epoca romana, perché  trattasi di opere realizzate grazie all’impegno di schiavi. Ebbene, a questo genere di argomentazione si dovrebbe rispondere richiamando l’interlocutore a contestualizzare i fatti citati, applicando parametri di giudizio distinti in ragione del tipo di realtà concreta che si deve valutare. Non ci sarebbe, infatti, bisogno di spiegare che una strada costruita durante la reggenza dell’Impero Romano, pertanto con l’impiego di schiavi, non può essere paragonata a una statua eretta con l’intento di glorificare uno schiavista. Del resto, a differenza del Colosseo o delle strade lastricate, le statue dei confederati di cui si discute non sono state erette in buona fede, ma nella piena consapevolezza di riaffermare la disuguaglianza sociale.

Posto quanto sopra, è allora giusto distruggere questi stessi monumenti?

La furia reazionaria, si sa, da sempre si esprime con l’abolizione dei simulacri dell’egemonia che contesta: è successo in occasione di ogni grande rivoluzione. Tutti ricordiamo la presa, con conseguente demolizione, della Bastiglia nel 1789, atto che oggi nessuno si sentirebbe di condannare come antistorico o vandalico. La storia della questione razziale americana, che abbiamo ripercorso insieme, è composta da una serie interminabile di soprusi, tra i quali si inserisce anche l’inerzia delle istituzioni dinanzi alle istanze di rimozione di monumenti eretti con chiaro intento discriminatorio. Lo stesso Trump ha più volte dichiarato pubblicamente che il patrimonio storico nazionale, assumendo che i retaggi della cultura confederata ne facciano parte a pieno diritto, deve essere preservato[11].

Emerge quindi un quadro dominato da una chiara resistenza verso la neutralizzazione degli spazzi pubblici, avallata anche dalla generale tendenza a edulcorare il passato che non è da addebitare solo alla ai sostenitori della destra, trovando terreno fertile anche tra i democratici. Tale tendenza, infatti, da un lato risponde alla necessità di affermare il suprematismo bianco e, dall’altro, a giustificare la perdurante connivenza e inerzia in presenza degli eccessi razzisti di cui si è macchiata la società statunitense.

Pertanto, essendo questo il quadro, la furia iconoclasta di cui si fa un gran parlare, non solo era prevedibile, ma diventa anche difficilmente biasimabile, ponendosi, la stessa, come reazione alla stasi che da troppo tempo vede complici istituzioni e cittadini indifferenti.

A coloro che invocano la contestualizzazione delle effigi, ad esempio mediante l’apposizione di targhe esplicative, andrebbe poi spiegato che tali opere insistono sul suolo pubblico, affacciandosi sulle strade e sormontando le piazze in cui i cittadini, sia banchi che neri, vivono la propria quotidianità. Sono infatti i musei i luoghi deputati alla contestualizzazione storica delle opere dell’uomo. Pertanto, se proprio vogliamo evitare che le pretese di giustizia sociale passino anche attraverso l’eliminazione di indiscussi simulacri razzisti, potrebbe essere una buona idea rimuoverli, così come viene chiesto, e collocarli in una bella sala museale.


[1] Per un approfondimento: “Confederate statues are coming down following George Floyd’s death. Here’s what we know”. (www.edition.cnn.com)

[2] Estratto dell’art. 1, sezione 9, della Costituzione degli Stati Uniti d’America: “The Migration or Importation of such Persons as any of the States now existing shall think proper to admit, shall not be prohibited by the Congress prior to the Year one thousand eight hundred and eight, but a Tax or duty may be imposed on such Importation, not exceeding ten dollars for each Person”. (www.senate.gov)

[3] Estratto dell’art. 1, sezione 9, della Costituzione degli Stati Confederati: “No bill of attainder, ex post facto law, or law denying or impairing the right of property in negro slaves shall be passed”. (https://avalon.law.yale.edu)

[4] Per approfondimenti: “Separate is not Equal” in www.americanhistory.si.edu e “Jim Crow Law” in www.britannica.com

[5] Per approfondimenti: “How ‘The Birth of a Nation’ revived the Ku Klux Klan” (www.history.com).

[6] Per approfondimenti:  “Brown v. Board of Education of Topeka” in https://www.britannica.com/

[7] Per approfondimenti: “There are certain moments in US history when Confederate monuments go up”.

[8] https://www.ilpost.it/2017/08/12/charlottesville-manifestazione-virginia/

[9] “Judge temporarily halts removal of Robert E. Lee statue in Richmond” in https://www.latimes.com/

[10] “Orwell predisse l’iconoclastia militante”

[11] “Trump: confederate statues remuval ‘ripa apart’ Amercan history”. https://www.theguardian.com/

Statue War: The Birth of a Question, un articolo di C. Francioni || THREEvial Pursuit

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna su
 

StreetBook Magazine: l'ultimo numero assoluto e una festa per celebrarlo (oltre a una nuova pubblicazione in cantiere)

L’apocalisse è vicina: rendila epica!