Una serata con Dutch Nazari
di Andrea Biagioni e Vito Giannandrea
Quattro mesi e mezzo. Sono passati quattro mesi e mezzo dall’ultimo concerto che sono riuscito a vedere, decisamente troppi: era il 14 Luglio, era il Mengo Music Fest e sul palco c’erano i Coma Cose e Willie Peyote. Il fatto che in questo giovedì fiorentino la mia stagione di concerti riparta dal Combo e sul palco ci sia Dutch Nazari non mi appare casuale. Io e Vito lo abbiamo intervistato poche ore prima. Mentre entro in sala e saluto i ragazzi di Progeas Family che organizzano la serata, sembra che le prime note della serata siano quelle di Proemio dall’album Amore Povero. Però potrei anche sbagliarmi, perché in questo momento sto pensando alla domanda con cui Vito ha chiuso l’intervista, perché mi sembra un cerchio che si chiude e che si riapre allo stesso tempo.
Negli ultimi anni c’è stata una riscoperta del rap in senso cantautorale. Che ne pensi di questa nuova generazione?
Non direi che si tratta di una generazione nuova. Direi che, partendo da alcuni nomi che ho in mente io tipo Frah Quintale, Coez, Carl Brave, i Coma Cose, Willie Peyote eccetera, alla fine è tutta gente di almeno trent’anni, alcuni addirittura trentacinque e quindi è in giro da un po’. Evidentemente però adesso i tempi sono maturi perché il pubblico in Italia si renda conto che questa roba qui è figa. Anche grazie a chi ha aperto le acque, per esempio Coez che è stato il primo nel 2011 a prendere le metriche del rap e a schiaffarle su delle produzioni alle volte anche sfacciatamente pop e facendo delle canzoni che erano una bomba, una roba freschissima che nessuno magari nella scena si osava di fare, perché non si era mai fatto prima. Lui ha avuto quel coraggio, quel talento e quella bravura lì.
Ormai siamo in mezzo alla folla, talmente fitta che diventa difficile fare breccia per conquistare un posto privilegiato da cui assistere allo show. Dutch Nazari prosegue il suo fiume di parole con cui si apre il vecchio disco, come a voler creare un ponte col nuovo, quello su cui si incentra questo nuovo tour che parte proprio da Firenze (first time ever per Nazari da Padova).
Il bello dei concerti, almeno per me, è che mentre si ascolta la mente riesce contemporaneamente a vagare nelle sensazioni che la musica ti lascia. E le nostre non possono che riferirsi alle parole che Dutch Nazari ci ha donato prima del concerto. Ricordo di avergli proposto un gioco.
Ti dico una canzone per ogni tuo album pubblicato e tu mi spieghi perché quella canzone. Per Diecimila lire: Jenin.
Siamo stati a Jenin in Palestina grazie ad un progetto per cui avevamo vinto un bando della Provincia Autonoma di Trento nel 2012. Eravamo io, Sick et Simpliciter (amico, musicista e produttore di Dutch, NdR) e Alessandro Burbank, nostro amico e poeta. Quando sono tornato, ho raccolto un po’ tutti i ricordi e le immagini che avevo registrato in questa esperienza e ho scritto questa canzone. Dentro ci sono tutte cose che ho visto e che ho vissuto.
Invece per Amore povero: Proemio. A me ha ricordato l’inizio di Stagioni di Guccini con Addio. E come se fosse l’apertura di un discorso.
Direi che è proprio così, un’overture. L’idea di quel pezzo lì è proprio di dare un accenno di quanto si ascolterà nel disco: ci sono un po’ le tematiche, un po’ le immagini, un po’ lo stile di poetiche e di scrittura. Proemio è una canzone che si inserisce in un preciso filone: l’intro di Diecimila Lire (il suo primo Ep, 2014, NdR) è una canzone che iniziava con la stessa frase di Proemio in Amore Povero e che aveva una struttura molto simile, ovvero un fiume di parole che dura due minuti e poi arriva a un culmine con un ritornello che però non si ripete. Quando ho scritto Proemio stavo richiamando quel pezzo, solo che lì è dichiaratamente una speculazione che salta di palo in frasca. Poi alla fine è la stessa che ho fatto con il disco nuovo e con Calma le onde.
È davvero una serata di quelle strane, dove niente sembra essere casuale. Intanto, però, il concerto ha preso forza. Il pubblico sembra averla sempre avuta e non abbassa i decibel. Non c’è una singola persona all’interno della sala che non sappia praticamente tutti i testi non solo degli album passati, ma anche di brani come Mirò, Calma le onde o Guarda mamma senza money, tutti tratti dal suo ultimo lavoro, Ce lo chiede l’Europa, uscito appena venti giorni fa. Vito, assolutamente on fire durante l’intervista, aveva centrato un punto essenziale sul suo nuovo lavoro.
Il 16 Novembre è uscito il tuo nuovo album, vale a dire Ce lo chiede l’Europa: di quale Europa parli?
Come tante cose che si scrivono (o che io scrivo) in versi utilizzando allegorie e metafore, ci sono vari gradi di lettura. In generale, il motivo per cui ho scelto di dare questo titolo al disco è che secondo me l’arte è tale se riesce a collocarsi nel tempo in cui viene creata. E secondo me l’Europa è uno dei massimi temi del nostro tempo, anzi è il tema del nostro tempo. Da un altro lato, c’è la forma di comunicazione: la cifra comunicativa del nostro tempo è l’ironia, il sarcasmo rassegnato, il sarcasmo in pillole e non è un caso se la forma di comicità più diffusa in questo periodo storico è il meme. Se vai a vedere dove è contenuta nel disco quella frase che dà un titolo così politico al disco stesso, in realtà scopri che è usata ironicamente in una ballata d’amore, in cui un ragazzo innamorato cerca di convincere la propria amata a restare con lui. Poi questo torna nella copertina del disco, che è un’allegoria di quello che stavamo dicendo adesso: da un parte la cosiddetta “generazione Erasmus”, che secondo me rappresenta un po’ il capitale umano e quindi la forza positiva di questa cosa qui che chiamiamo Europa; dall’altro lato invece, alle spalle di questi ragazzi che sono sulla spiaggia allegri e festosi, c’è un ecomostro, ovvero lo sviluppo ultraliberista che non tiene conto della limitazione delle risorse.
Il boato del pubblico mi richiama alla realtà. Dutch Nazari ha appena annunciato che è arrivato il momento di Amore Povero, tratto dall’omonimo album. Il suo è un continuo andirivieni di parole tra recente passato e attualità, come in Così così che sta partendo proprio adesso: una canzone che lui stesso ci ha raccontato aver avuto una genesi tutta particolare.
Avevamo letto alcuni aneddoti su come erano nati alcuni brani dei dischi passati. Tipo quello su “Gin Jack Havana Cointreau”.
Con Samurai, che tra l’altro è palestinese.
Ci sono aneddoti simili per alcuni pezzi di questo album?
Simili no, era impossibile. Ce ne sono vari, però. C’è una canzone per esempio che è nata in maniera interessante da raccontare, Così così. Me lo sono sognato. Nel senso che era maggio ed era la fase di massima scrittura del disco: è stato il periodo in cui abbiamo scritto la maggior parte delle canzoni. Tant’è che ero talmente dentro al punto di sognarmele, le canzoni. Una notte ho fatto un sogno in cui eravamo in studio e stavamo facendo una sessione di ascolti, dei provini e ce n’era uno in particolare che mi piaceva moltissimo, una produzione strafiga. Ce l’avevo in testa, la stavo sentendo e quando mi sono svegliato mi sono reso conto che questa canzone non esisteva, che me l’ero sognata, ma avevo ben presente la progressione armonica e il ritornello. Ho preso il telefono e me lo sono registrato. Non mi ricordavo bene le parole, ma mi ricordavo bene il tema, quindi appena alzato, avendo la tastiera vicino al letto, mi sono andato un attimo a ricercare gli accordi e ho scritto giù i quattro versi che sono secondo me i più significativi del testo definitivo (Non ti identifica il lavoro che fai/Perché quello cambia ogni sei mesi/Né i tuoi studi ché li odi/e sei pure in ritardo con la tesi, NdR). Poi nell’arco dei due giorni successivi ho scritto il resto del testo ed è stato molto buffo il fatto che nel sogno era presente anche Luca (Patarnello, aka Sick et Simpliciter, NdR), quindi quando sono andato a fargliela sentire con la tastiera, gli spiegavo la cosa dicendogli “guarda me la sono sognata un po’ con un tiro di questo tipo” e così via: lui fa un tentativo e già al primo era esattamente come doveva essere.
Un altro sussulto del pubblico, che in questo caso è per l’ospite della serata. Sinceramente, stavolta anche io mi lascio andare, perché sul palco è appena salito Willie Peyote. Va bene che sono entrambi della medesima squadra (etichetta Undamento,
NdR), va bene pure che di collaborazioni alle spalle ne hanno (Un fonico in Amore Povero, Fino a qui dall’omonimo Ep e Falling Crumble in Diecimila Lire), ma sinceramente questa non se l’aspettava nessuno. E quando i due iniziano a duettare, il Combo esplode. È la nuova/vecchia generazione di rapper dall’animo cantautorale. E una nuova sfida e una nuova dimensione sia per loro in quanto artisti sia per il pubblico che li ascolta. E quel prendere finalmente a calci in culo il concetto obsoleto dei “generi musicali”, da noi sempre intesi come compartimenti stagni. È il cantautorap.
A proposito del “cantautorap”, come è stato definito da Dargen (D’Amico, NdR)…
…è proprio un suo neologismo.
C’è una delle due anime che senti più tua, che predomina sull’altra o convivono liberamente?
Quando si è iniziato a parlare di questo, io ero appena uscito con Amore Povero e mi piaceva l’idea che un rapper potesse anche essere un cantautore, un cantante come dire. Ora che il pubblico e la scena musicale italiana si sono un po’ più abituati soprattutto negli ultimi anni a questo tipo di finte anomalie, anche se poi lo sono solo da noi, mi piacerebbe imporre sempre più con rilassatezza il fatto che il cantante possa anche rappare. Ovviamente non mi sono inventato nulla, in America è una cosa normalissima. Alla fine se tu prendi il rap come tecnica di canto, ti rendi conto che questo è: una tecnica di canto con poche note e accenti serrati. Che tu passi da melodie più ariose, più note e accenti meno serrati a meno note, accenti serrati e così via, comunque stai sempre cantando.
Willie Peyote abbandona il palco e lascia la parte finale dello show al ‘padrone di casa’, come è giusto che sia. E mentre Dutch fa sfumare l’ultimo pezzo e saluta il cuore grande che Firenze gli ha mostrato stasera, io penso che anche per stasera è finita. Il cerchio si è chiuso. E l’ultimo pensiero va proprio a come è cominciata questa serata, a quell’intervista e a come si era aperta. Perché in ogni cerchio che si rispetti, una volta completato il giro ti ritrovi sempre da dove sei partito, dalle tue origini.
Perché il rap?
In generale, sono sempre stato molto appassionato alla parola e alla dimensione quindi testuale nelle canzoni. Prima di scoprire l’esistenza del rap, in particolare di quel microcosmo che era il rap italiano e l’underground nel 2005-2006, ho sempre diretto i miei ascolti su canzoni in cui il testo era molto importante. Del resto in macchina con i miei genitori quando ero piccolo i cantautori c’erano sempre. Diciamo che da quando ho avuto l’autonomia di scegliere cosa ascoltare, grazie ai primi utilizzi del peer-to-peer, WinMX e Bearshare, potendo quindi scaricarmi la musica che volevo io, mi sono tirato giù intere discografie: tantissimo Guccini, Lucio Dalla e quelle cose lì. Ho anche avuto un periodo Vasco Rossi. Poi ho iniziato a scoprire all’età di 15 -16 anni il rap e in quel genere lì la dimensione della parola era super prevalente, super preponderante. Quindi mi ha appassionato e ho voluto farlo anche io. E negli ultimi anni del mio percorso mi son guardato indietro e mi son trovato a mescolare queste due influenze che ho avuto nella mia crescita fisica. Quindi adesso quello che faccio io un po’ abbatte i confini mentali che uno ha tra rap e cantautorato.
Te sei nato e cresciuto a Padova.
I miei genitori vengono dalla provincia di Padova, quindi sono nato e cresciuto nella provincia, ma ho fatto le scuole in centro, quindi un po’ e un po’.
Quanto ha influito per te quell’ambiente nella tua formazione artistica?
In particolare a Padova c’è un centro sociale che si chiama Pedro, che è uno dei più importanti del Nord Italia. Io sono cresciuto musicalmente negli anni delle superiori e in quelli successivi in una crew che si chiama Massima Tackenza, e la presenza di questa realtà sociale ha significato moltissimo per tutti noi, perché per il Pedro sono passati tutti concerti rap e underground più importanti a livello nazionale e internazionale. Questo ci dava sia la possibilità di vedere dal vivo tutte queste persone che noi consideravamo degli idoli, sia di partecipare come artisti suonando in apertura ad alcuni concerti. Quando ho iniziato a suonare io c’era poca gente ancora che rappava. Per dire, la prima volta che ho tenuto un microfono in mano avevo 17 anni e ho aperto il concerto a un gruppo che si chiama Daz EFX e che riempì il Pedro. Praticamente ho cantato davanti a 700/800 persone. È questo ha significato molto senz’altro.
Vedendo il Dutch Nazari che ha incendiato il Combo questa sera, ci verrebbe da dire che ha significato tutto.