Scienza di guerra
di Samuele Staderini
Siamo nel 1942, nel bel mezzo della Seconda guerra mondiale. Il nazifascismo è al suo apice, gli alleati annaspano nel tentativo di non crollare, l’Europa continentale è soggiogata da Hitler dall’Atlantico fino alla Moscova e il Giappone controlla tutto il Pacifico, dalla Cina fino alle isole indonesiane.
In questo scenario apocalittico, mentre a Stalingrado va in scena il più grande plot-twist della storia bellica mondiale, il mondo scientifico si divide tra i due schieramenti. Da un lato c’è il Progetto Manhattan, che porterà alla costruzione e all’utilizzo delle prime bombe atomiche, mentre dall’altro una serie di progetti più limitati per la costruzione di armi, sia convenzionali che atomiche, per il Terzo Reich.

In questo anno cardine per la storia del XX secolo un giovane sociologo americano, Robert Merton, pubblica un articolo dal titolo A note on science and democracy1 nel quale prova a riassumere l’insieme di metodi, valori, applicazioni e norme di base che definiscono la scienza moderna nata dalla rivoluzione scientifica del Cinque e Seicento. In parole povere, mentre fuori impazza la guerra, Merton tenta di dare una forma compiuta al metodo scientifico.
Egli individua cinque punti fondamenti per definire il modello di comportamento pratico, cioè l’ethos, della scienza: universalismo, libertà, comunismo, disinteresse e scetticismo.
Il primo punto è intuitivo e prevede che la scienza sia indipendente da ogni forma di classificazione razziale, sessuale, religiosa, sociale o nazionale. Un’indipendenza che dovrebbe profumare di internazionalismo, concetto che nel 1942 non era proprio di moda.
La libertà, va da sé, vuol dire non dover dipendere da autorità esterne alla stessa comunità scientifica per quanto riguarda comunicazione e condivisione di dati e risultati. Anche la nostra Costituzione, all’articolo 33, riprende questo concetto nel dire che “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”.
Il comunismo, nel senso inteso da Merton, presuppone la condivisione della proprietà intellettuale; una sorta di sharing economy della conoscenza che, di nuovo, non preveda confini o barriere. In questo caso, un po’ come per l’universalismo, stiamo parlando di ideali utopici o quasi, visto quanto vengono fatti pagare gli articoli scientifici dalle grandi case editrici del settore.
Gli ultimi due punti, infine, riguardando i controlli del sistema scientifico: lo scienziato deve essere disinteressato per non cadere nel tranello di falsificare o fabbricare dati, così come la comunità scientifica deve essere organizzata per dubitare sempre di tutto e tutti e per essere sempre pronta a mettersi in discussione.
Non dimentichiamoci, ancora una volta, come Merton immagini questo modello di comunità scientifica mentre milioni di soldati si ammazzano in battaglia e milioni di civili vengono bombardati, fucilati, gassati e trucidati.
Le enormi responsabilità della scienza in guerra sono innegabili. Non si possono, cioè, nascondere le grandi colpe della comunità scientifica nell’aver prodotto, fin dall’antichità, armi e tecnologie belliche sempre più distruttive.
Semmai, riprendendo il pensiero di Merton, si dovrebbe focalizzare meglio come un corretto comportamento nei confronti della scienza, ma anche della scienza stessa porterebbe spontaneamente ad un mondo più giusto, più equo e più pacifico. Perché esiste un legame indissolubile tra come concepiamo il nostro mondo e il modo in cui facciamo scienza e ci rapportiamo con essa. Ad esempio, in ambienti nazionalisti sarà difficile avere una scienza universalistica, in una dittatura sarà impossibile avere una comunità scientifica libera e indipendente, in un sistema capitalistico sarà difficilissimo avere una vera e pura libera circolazione di idee.
Come conseguenza, quando nascono conflitti o scoppiano guerre, è facile che le opinioni pubbliche si polarizzino su posizioni nette e contrapposte, rinunciando alla razionalità e al pensiero complesso per seguire istinti più bassi. Essendo gli uomini e le donne di scienza personalità spesso famose e pubbliche, viene quindi chiesto loro di prendere posizione. E non solo come cittadini, ma proprio come scienziati; quasi a voler esplicitare che sia la scienza a prender posizione e non i singoli scienziati.

Un esempio famoso lo troviamo nella Germania del 1914, all’indomani dello scoppio della Prima guerra mondiale. Con l’esercito del Kaiser che invade il Belgio neutrale e infrange una prassi consolidata, si scatena un forte sdegno sia all’estero che in Germania. Per tenere a freno l’opinione pubblica, il governo tedesco chiama a raccolta i migliori intellettuali dell’impero per redigere un documento a giustificazione della propria aggressione militare: il Manifesto al Mondo civile per protestare contro “le bugie e le calunnie con cui i nostri nemici cercano di infangare la pura causa della Germania nella dura lotta per la vita e la morte che le viene imposta”.
In tanti firmarono: grandissimi della fisica come Max Planck e Wilhelm Roentgen; della chimica come Fritz Haber e Walther Hermann Nernst; della pittura, dell’architettura, della letteratura e della musica. Il mondo intellettuale tedesco si schierò a favore della guerra e molti si arruolarono volontari, tanto era sincero il loro entusiasmo. In pochi ebbero il coraggio di scrivere un contro-manifesto per la pace europea: erano in quattro e vennero derisi. Tra di loro c’era anche Albert Einstein.
Oggi, a posteriori, è facilissimo dire che avevano ragione i pochi pacifisti; ma la vera domanda è come mai un secolo fa la schiacciante maggioranza degli studiosi tedeschi era così convintamente militarista? Per capirlo credo sia necessario aprire una breve parentesi.
Possiamo tranquillamente dire che Max Planck nel 1914 prese una posizione sbagliata, tanto che lui stesso si pentì di quella firma. E possiamo, altrettanto serenamente, sostenere che Einstein abbia avuto molti ripensamenti sulle armi atomiche nella sua vita; prima scrivendo lettere per incoraggiarne lo sviluppo, poi non partecipando al progetto Manhattan e infine addirittura stendendo un appello insieme a Bertrand Russell per evitarne l’utilizzo sul Giappone. Studiare questo o quel personaggio per le sue idee personali, criticandolo o sostenendolo, è un nostro diritto-dovere, ma dobbiamo tenere ben separati i suoi contributi scientifici.
Invece, come si vede chiaramente con il conflitto russo-ucraino, cadiamo quotidianamente nella tentazione di censurare, ostracizzare, cancellare e dimenticare i contributi scientifici, artistici, letterari o tecnologici di una persona solo perché ha una certa nazionalità o sostiene una determinata idea. Come possiamo tagliare fuori dalla comunità scientifica internazionale gli scienziati e le scienziate russe? O come possiamo pensare di togliere dalle nostre librerie Tolstoj o Dostoevskij? E perché loro sì, mentre gli americani no? E noi europei siamo davvero in pace con noi stessi? Cosa dire invece degli israeliani? Capite che è semplicemente follia ragionare così?
Esempio pratico: torniamo alla Prima guerra mondiale.

Tra i 93 firmatari del manifesto tedesco a favore della guerra, uno dei più entusiasti era sicuramente Fritz Haber. Egli si arruolò volontario e propose al comando supremo l’utilizzo di gas tossici in battaglia, nonostante la convenzione de L’Aia già li vietasse. Fu messo a capo di una nuova unità del genio militare, la Gastruppe, e comandò tutte le operazioni e le sperimentazioni che portarono per la prima volta all’uso in guerra di queste armi. Era l’aprile del 1915 e a Ypres morirono decine di migliaia di soldati nel giro di pochi minuti. Nacque così la guerra chimica.
Haber, prima della guerra, era stato l’inventore del processo di sintesi industriale dell’ammoniaca che si usa ancora oggi e che permette la produzione di fertilizzanti in tutto il mondo. Non è un’esagerazione affermare che la sua scoperta ha salvato milioni di persone dalla fame. E non deve assolutamente scandalizzare che abbia vinto il Nobel per questo nel 1918.
Se c’è una vita che ci insegna qualcosa del rapporto tra scienza, società e guerre è sicuramente quella di Haber: prima della Grande Guerra scopre come produrre l’ammoniaca, poi si arruola e fa uccidere centinaia di migliaia di soldati senza scrupolo alcuno, quindi vince il Nobel mentre è sotto processo come criminale di guerra. Finito qui? Manco per sogno! La moglie si era suicidata dopo Ypres per la vergogna, lui fuggì dalla giustizia militare e, quando poté tornare, si dedicò allo studio di insetticidi e antiparassitari. Voleva fare del bene, voleva aiutare a migliorare l’igiene del popolo. La sua molecola più famosa, lo Zyklon B, diventerà invece tristemente famosa nei lager nazisti per esser stato il gas responsabile dell’Olocausto. Lui, di origine ebraica, era già dovuto scappare dalla Germania e non può essere direttamente additato per quell’utilizzo, ma tant’è. Non deve esser stato un peso leggero da portare.
E allora come va giudicato Fritz Haber? Come il nazionalista invasato che non si fa scrupoli a riversare gas asfissiante nelle trincee nemiche o come il chimico visionario che rivoluziona l’agricoltura mondiale e salva milioni di vite? O ancora come il ricercatore che nel tentativo di fare del bene finisce per fornire un’arma di sterminio ai nazisti?
Probabilmente la nostra voglia di dare giudizi netti, bianco o nero, ci porta sempre a sbagliare. L’Haber chimico era sicuramente un genio, poco da dire, mentre l’Haber uomo certamente ha avuto posizioni molto discutibili, a voler esser gentili. Vogliamo fare una media ponderata delle cose? Per me è impossibile.
Un’altra storia interessante è quella di Werner Heisenberg. Fondatore della fisica quantistica insieme a Bohr, Schrödinger, Planck e Einstein, fu uno dei pochi scienziati a restare in Germania durante l’ascesa del nazismo e il secondo conflitto mondiale.
Vincitore del Nobel per la fisica nel 1933 per il principio di indeterminazione, era già professore quando Hitler salì al potere. Non risparmiò critiche al nuovo regime e finì per essere etichettato come “ebreo bianco”. L’ambiente si fece subito ostile e nonostante la sua fama fu ripetutamente minacciato. Fu Max Planck, sempre lui, a convincerlo di restare fuori dalla politica e dedicarsi esclusivamente alla ricerca.
Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale, l’unica cosa certa che sappiamo è l’impiego di Heisenberg alla guida del progetto nucleare militare tedesco. Dal fallimento di questo possiamo immaginarci almeno tre scenari, tutti ugualmente plausibili.

Nel primo si deve pensare a uno scienziato che esegue il suo compito in maniera diligente, convinto di arrivare a un’applicazione civile e che non riesce a completare il lavoro per carenze strutturali. Nel secondo scenario, Heisenberg, al contrario, lavora allo sviluppo della bomba con alacrità, nella speranza di porre fine alla guerra velocemente e fallisce sempre per la scarsità di risorse e per le difficoltà logistiche.
Infine c’è il terzo scenario, quello del mito: Heisenberg accetta la guida del programma atomico nazista per potersi assicurare personalmente di non consegnare mai la bomba a Hitler. Uno dei più famosi scienziati mondiali che, lucidamente, intravede la capacità distruttiva del suo lavoro e decide di fare come Penelope con i Proci.
Scegliete voi la versione che vi piace di più; ma il fatto che Hitler non abbia mai avuto la bomba atomica, mi spinge a pensare che Heisenberg qualcosa abbia fatto per evitarlo.
Ribaltiamo la frittata. Pensate a cosa sarebbe successo se qualcuno degli scienziati del progetto Manhattan si fosse tirato indietro sullo sviluppo dell’atomica. O se l’intera comunità scientifica avesse concordato nel non utilizzare l’atomo per scopi bellici e non avesse lavorato con nessun governo. Disinteresse, comunismo di idee, universalismo. Questo immaginava Merton nel 1942. Un’utopia che porterebbe la pace in cinque minuti, ma che resta, diciamocelo, probabilmente irrealizzabile. La scienza, così come l’arte e la letteratura, sono neutri e neutrali, è sempre l’utilizzo che ne facciamo che li rende pericolosi e distruttivi.
Il fine ultimo della scienza è il miglioramento della vita. Ma oltre alla scoperta scientifica sta l’uomo con il suo folle vortice di autodistruzione. Se come umanità continueremo a volerci ammazzare, a distruggere il pianeta e a farci la guerra in nome di un dio, di una bandiera o di un ideale, la scienza, la letteratura e l’arte, saranno sempre lì e saranno le prime vittime di questa follia.
1 J. Legal & Pol. Soc. 115 (1942)