Ricky Gervais: anatomia di una battuta
di Benedetta Bendinelli
In un tweet del 2013 Ricky Gervais scriveva questo:

Traducendo alla lettera (dando per scontato che tra di noi ci siano ancora delle capre che non parlano inglese):
Se rimuovessimo la nota “non bere” dalle bottiglie di varichina e “potrebbe contenere tracce di frutta a guscio” dai pacchetti di noccioline, penso che potremmo rafforzare il patrimonio genetico.
Oltre al fatto di essere profetica, in quali altri modi potremmo descrivere quest’affermazione? Crudele? Insensibile? Borghese? Forse, forse e forse. Sulla base di questo – e considerando quanto la popolarità sia spesso sinonimo di democraticità – come si spiega il successo che Ricky Gervais riesce a ottenere grazie alle tre spregevoli caratteristiche? Possibile che tra tutti i pan-attivisti del ventunesimo secolo non ci sia nessuno che voglia censurarlo, denunciarlo, demolire il suo personaggio?
Sappiamo che di azioni legali ne sono state fatte – e anche molte – ma niente che lo abbia del tutto allontanato da certi palcoscenici bigotti o che abbia in qualche modo ripulito il suo personaggio, perché parliamoci chiaramente: Ricky Gervais non è quello che dice. Il comico britannico in una recente intervista al quotidiano Indipendent difende i suoi jokes affermando che la maggior parte delle persone credono che tutte le battute siano “una finestra sull’anima del comico”, quando la verità è che si tratta proprio del contrario, dove la finestra si apre sulle ipocrisie di chi scruta attraverso, in silenzio.
Ricky Gervais piace, fa ridere e per ora non ha nemmeno fatto troppo incazzare i movimenti femministi (a differenza del collega americano Louis C.K), quindi ok, Ricky è ok. Ma cerchiamo di capire come mai.
Prima di tutto, è intelligente.
L’intelligenza – se considerata come la capacità di osservare ed elaborare la realtà con lo scopo di interpretarla e infine comprenderla – dovrebbe essere la conditio sine qua non della professione del comico. Se non conosci la realtà, difficilmente potrai applicare ad essa una chiave di lettura che possa far ridere e al tempo stesso riflettere. Senza l’interpretazione resta solo l’osservazione, e a osservare siamo buoni tutti. Restando nella confort zone dell’intelligenza tuttavia il comico potrebbe perdere di credibilità; lo si accuserebbe di essere elitario, saccente, presuntuoso e le tre spregevoli caratteristiche sopra citate.
Ricky Gervais è un po’ tutte queste cose messe insieme ma lo possiamo perdonare, perché se una cosa non l’abbiamo capita, allora lui ce la spiega, come farebbe un maestro, un saggio compassionevole della nostra ignoranza. Durante il suo ultimo stand-up show Humanity, per esempio, ci accompagna per gradi verso la precisa comprensione del suo umorismo, attraverso quella che potremmo definire l’anatomia di una battuta. È chiaro che sia anche una grandissima paraculata per difendersi dalle accuse di transfobia, eppure il gioco funziona. La battuta incriminata, che lui stesso definisce clever joke, prende di mira Caitlyn Jenner, una volta conosciuto come l’atleta olimpionico Bruce Jenner.
Qua sotto, il video.
Dunque, il terreno è scivoloso perché sappiamo bene quanto sia facile cadere nel qualunquismo e nella superficialità quando si parla di razzismo, femminismo, diritti LGBT e qualsiasi altra cosa che possa rappresentare un dibattito sociale, politico o religioso. Nel bar che frequentiamo (ops, non più) oppure a cena con gli amici (ops, nemmeno quello), noi comuni mortali possiamo esprimere liberamente la nostra opinione – ancora – e il maggior rischio è di finire in una discussione senza capo né coda oppure prendere un calcio in culo. Niente di che. Ma quando sei un personaggio pubblico il rischio è ben diverso.
Dire una cazzata può significare liberare una catena infinita di cazzate, dette attraverso un megafono che, bene o male, rappresenta un canale per molti abbastanza credibile. Se io, Benedetta, ironizzo in maniera troglodita su di un transessuale male che vada faccio una pessima figura e passo da stronza. Se Ricky Gervais ironizza allo stesso modo si becca una querela, da una parte, ma anche un via libera alla mortificazione mediatica di una minoranza.
E questo è il pericolo che puntualmente Ricky Gervais riesce ad aggirare. Come fa? Con un team strapagato di avvocati, immagino, ma soprattutto con una costruzione intelligente della battuta.
Tornando alla storia di Caitlyn Jenner (dove il crimine era il deadnaming, ovvero il riferirsi a una persona transgender utilizzando il nome pre-transizione), Ricky Gervais giustifica la battuta spostando tutto il focus su quello che veramente è il target del suo scherzo: lo stereotipo, in quel caso il luogo comune che vuole che una donna al volante sia sicuramente un danno e che una celebrità, dopo aver commesso un crimine (Caytlin Jenner è stata accusata di omicidio colposo dopo aver innescato un tamponamento a catena che ha portato alla morte di una donna), possa tornare a casa e indossare tranquillamente un abito come se nulla fosse.
In questo caso l’ironia sulla persona transgender è servita soltanto da trigger point per l’elaborazione di quello che si definisce un layered joke (una battuta a strati). Questo perfetto ingranaggio di stratificazioni, se fatto bene, garantisce così al comico una completa immunità dal rigore semantico.
Ricky Gervais però non è soltanto un paraculo illuminato che si prende gioco dei nostri limiti cognitivi, sfidandoci a destrutturare l’infallibilità presunta dei più grandi dogmi umani. Ricky Gervais è uno di noi, meglio, ma pur sempre uno di noi.
L’altro aspetto che lo rende così popolare infatti è probabilmente la sensibilità, intesa come pura e semplice capacità di comprendere e percepire certe emozioni e condizioni emotive. Non si direbbe certo, ma è la stessa persona che ha pronunciato queste esatte parole:
“I can’t find someone funny whom I don’t like. Hitler told great jokes”.
(Non riesco a trovare qualcuno divertente che non mi piace. Hitler ha raccontato grandi battute)

Per giustificarlo però basta tornare al punto precedente, vedi alla voce stereotipo. Ricky Gervais, come dicevo, è uno come noi perché parla di vita e di morte, non ha paura di mostrare la sofferenza e non è nemmeno ancorato a quella che dovrebbe essere la sua immagine ufficiale, ovvero quella di comico senza scrupoli protetto dalla fama e dalla ricchezza. La prova di questa umanità terrena la dimostra nella serie After Life, ideata, scritta e diretta da lui stesso.
La serie parla di un uomo che profondamente sconvolto dalla perdita della moglie, cerca in tutti i modi di allontanare i pensieri suicidi aggrappandosi come può alla vita. La trama potrebbe essere riciclata per uno sceneggiato Rai con protagonista Gianni Morandi – oppure Beppe Fiorello – e farebbe pietà in tutti i sensi (mi scuso con i fan di Gianni e Beppe). After Life invece fa ridere, non sbellicare, ma fa ridere. Il quesito che Netflix si è posto, prima di distribuire la serie, era se fosse il caso di generare comicità da un episodio tragico come il cancro o la morte. A questo risponde Gervais in un’altra recente dichiarazione dove afferma che la vita, quella vera, è anche peggio e per questo gli spettatori sono pronti a tutto.
“Penso che interpretiamo troppo le persone. Ci preoccupiamo di ciò che le persone a casa possono sopportare. La vita reale è peggio. Possono accettare tutto questo”.
La serie è ambientata in una fittizia cittadina inglese chiamata Tambury e il nome ci suggerisce subito uno scenario quasi circense, popolato da personaggi a dir poco strambi. Anche in questa dimensione pittoresca della realtà Ricky Gervais vuole utilizzare lo stesso meccanismo della stratificazione per proteggere le sue battute, come al solito i suoi target non sono le persone ma lo stereotipo che rappresentano. Il postino invadente, il collega inetto, la segretaria svampita, il boss separato e infine, per non esonerarsi dalla responsabilità, il suo personaggio Tony: il vedovo triste. Lo ripeto, questa non è una serie da pisciarsi addosso dalle risate, proprio perché l’intenzione non è l’iperbole ma bensì l’onestà.
Chi ha vissuto in Inghilterra saprà che vicende semi grottesche come quelle raccontate nei vari episodi hanno molto più a che fare con la quotidianità che con la finzione, quindi non ci sarà da stupirsi dei vari picchi di stravaganza che ogni tanto, per fortuna, sbucano dal nulla.
Tra i miei momenti preferiti posso annoverare una delle ultime scene della seconda stagione. In un contesto che distrae totalmente dalla trama strutturale il personaggio di Brian Gittins, l’accumulatore seriale del paese, si lascia andare a una riflessione alquanto profonda. Oltre a farmi molto ridere questa battuta mi ha anche aiutata a capire a fondo il significato del racconto Analogia Bucolica, pubblicato proprio da Streetbook Magazine (pubblicità) e scritto dall’amico Gianluca Bindi. Voglio riportare qua sotto un piccolo estratto affinché possa generare in voi lettori il desiderio di vedere questa serie, il desiderio di leggere il racconto oppure il desiderio di Brian, fate voi.
