Three Faces

La terza faccia della medaglia

Il rap secondo D. F. Wallace di G. Landini || Arte e Letteratura || THREEvial Pursuit


 

Il rap secondo David Foster Wallace

Trent’anni dopo, uno dei saggi della bandana più acuta d’America
ha ancora molto da raccontare

di Guido Landini

Il rap secondo Wallace TESTA

Siamo a Boston, è la primavera del 1989. Due amici, un dottorando prossimo all’abbandono della carriera accademica e un giovane avvocato, trascorrono intere serate a finire nastri in cui brutti ceffi dalla pelle rigorosamente nera vomitano insulti, parolacce e minacce di morte.
Sono David Foster Wallace e Mark Costello, e la musica che fuoriesce dallo stereo è rap purissimo, una musica che li conquista e li motiva a scrivere un saggio a quattro mani: Il rap spiegato ai bianchi.

Per un autore che si è occupato veramente di tutto, dalle crociere al concetto di infinito, dalla fiera dell’aragosta nel Maine agli articoli su Kafka, scrivere di musica rap può sembrare un passatempo.
Certo, la poetica del postmoderno marcia in questa direzione (verso quel cazzeggio bellettristico che oltrepassa i generi), ma non è soltanto una questione di aderenza a una corrente.
Che Wallace fosse un grande imitatore, oltre che un gran furbetto, lo si era capito già dalla pubblicazione della Scopa del Sistema, suo primo romanzo. C’è dunque dell’altro: proprio l’anno prima che lo scrittore scopra gli NWA accade un fatto che lo riguarda personalmente.

Gli N.W.A (Niggaz Wit Attitudes), band rap californiana
Gli N.W.A (Niggaz Wit Attitudes), band rap californiana

Il precedente (penale)

Un racconto della raccolta La Ragazza dai capelli strani, intitolato La mia apparizione, ha qualcosa di davvero strano. È l’editor di Playboy ad accorgersene: La mia apparizione è la trascrizione di una puntata del Late Night with David Letterman, puntata in cui il conduttore intervista l’attrice Susan Saint James. Beccato Dave.
Prima di pubblicare la raccolta, la Viking-Penguin aveva stabilito per contratto di far girare i singoli racconti su alcune riviste, tra cui Playboy, rivista che sceglie di segnalare alla casa editrice che tra i suoi autori si cela un plagiario, reo di aver riutilizzato le parole di una persona in carne e ossa senza avvertimento.

Si solleva un polverone. Gli avvocati della Viking-Penguin pretendono che Wallace fornisca una giustificazione per ogni fatto, persona o marchio menzionato, la fonte di ogni espressione messa in bocca ai personaggi. Analizzando la raccolta viene alla luce che non solo La mia apparizione ma anche altri racconti contengono riferimenti a personaggi realmente esistenti.

Wallace ammette il suo debito esplicito nei confronti della puntata, ma lo scrittore prova ad argomentare che la narrazione sarebbe stata costruita in modo che non si potesse distinguere cosa fosse inventato da cosa fosse vero, proprio come accade nel Late Night with David Letterman.

Chiarita la natura della fonte, ci si può chiedere: esplorando il rapporto che la realtà intrattiene con i media e con la società dello spettacolo, non è possibile mutuarla in un racconto, in un romanzo, in un atto creativo? Se la finzione del mondo dello spettacolo costituisce essa stessa parte della realtà, la realtà di ogni spettatore, ci si può chiedere in cosa l’operato di Wallace, in questo caso, eccede rispetto a ciò che ogni altro scrittore è tenuto a fare.

Sì ok, ma il rap?

Il rap è questo: imitazione, mimesi nuda e cruda, “Platone campionato mentre sta seduto sulla tazza del cesso”. Tutta la cultura hip-hop, di cui ricordiamo il rap sia soltanto una delle forme espressive, si fonda su una permeabilità assoluta tra l’individuo e la scena, intesa come l’insieme di individui che rappa, balla, mixa o graffita, insomma che fa l’hip-hop.
Da musica fatta da-e-per afroamericani, emersa dal sottobosco dei block-party nel Bronx, a una cultura e una realtà globale, presente in ogni nazione del mondo, capace di mediare tra le varie culture come di fare network attraverso uno scambio di stili, opere e materiali.

David Foster Wallace e Mark Costello
David Foster Wallace e Mark Costello

Una gara di campionamenti

Il titolo originale del saggio, Signifying Rappers – Rap and Race in the Urban Present, è importante per almeno due motivi.
Il termine “signifying” fa riferimento a un gioco di parole tipico della cultura vernacolare africana, ereditato prima nella tradizione afroamericana dei dozens (veri e propri scambi di insulti in rima al tempo di 7/8), poi nel rap. Dipende dall’abilità del “significante” (signifier) nell’esaltare il significato assente ma ambiguo delle parole, nella capacità di evidenziare l’indeterminatezza del linguaggio, di dire una cosa intendendone un’altra.
Signifying Rappers invece è il nome di un pezzo di Schooly D, uno dei tanti giovani rapper spacconi del tempo accecati da un successo repentino.
La particolarità del pezzo è quella di avere come base il riff di chitarra di Kashmir dei Led Zeppelin. Attenzione, non il giro armonico di Kashmir o la sua base ritmica accennata o citata: esattamente quelle note con quel suono distorto così come è stato registrato dal chitarrista dei Led Zeppelin, “rubato” dal disco per creare un nuovo brano musicale, Signifyng Rappers appunto. Il rapper Schooly D mette sopra la propria firma, cioè le “proprie” parole, e il lavoro viene ultimato e soprattutto è suo.
Arriviamo al gesto, all’atto creativo che sintetizza questo spirito: il sampling, o il campionamento.
I progressi tecnologici nell’ingegneria del suono, dal multi-traccia al digitale, sono il Prometeo che consegna il campionatore ai produttori hip-hop. Queste macchinette selezionano al millimetro un frammento audio e in coppia con un sintetizzatore, lo risparano ripulito e truccato o ancora più sporcato nella mischia, tra altre centinaia di suoni tagliati-copiati-incollati: le vie del sampling sono infinite. Wallace e Costello si chiedono ad esempio se produttori sacri come Bambataa o Kool Herc creino qualcosa di originale, oppure se siano fini uomini di gusto del ghetto intesi a restituire alla comunità i loro innumerevoli ascolti.

Cosa intendiamo quindi per musica? Perché è comunque il ritmo a farla da padrone nel rap, attraverso i movimenti costitutivi di break e flow, di rottura e continuità: facendo ripetere da cima a fondo un break, momento di stacco che si trova negli standard jazz, i deejay generano il flusso, quella caratteristica ripetitiva e di scorrimento che fa penetrare il tempo scandito fino nelle ossa dell’ascoltatore, schiavizzandolo al battito. “Non capire, balla. Non manipolare, partecipa”.

Musica e parole

La parola nel rap costituisce sia un’ulteriore stratificazione ritmica della base strumentale sia un palcoscenico per la voce e il testo, la parte umana protagonista.
Ma il rap è poesia? Secondo Wallace sì, anzi è proprio la poesia della nostra epoca, materia viva che non ristagna in qualche contesto accademico chiuso in sé, capace di generare un seguito e di cantare di e per qualcuno, senza lasciare indietro rime e tropi retorici.
Dalle parole al testo. Derrida ce lo ha insegnato: i testi sono entità indeterminate e aperte a infinite decostruzioni interpretative, per cui la dimensione della testualità viene scardinata.
Wallace trova nel rap un postmodernismo in musica, che come l’analogo narrativo intreccia fra loro generi e stili differenti, disprezza l’originalità esaltando la copia e la contraffazione.
Ed è capace di parlare di sé, attraverso un’acuta coscienza della propria natura artificiale.
La cultura hip-hop e il postmodernismo riflettono entrambi l’eredità di una crisi profonda della cultura, di una morte dell’arte, di una rottura fra l’oggetto e la parola, l’immagine o il suono che rappresenta l’oggetto. Rottura affatto nerovestita, ma caleidoscopica, parodistica e demenziale.

I Public Enemy, rap band simbolo dell'hip hop statunitense (Copyright David Corio/Redferns 1987)
I Public Enemy, rap band simbolo dell’hip hop statunitense (Copyright David Corio/Redferns 1987)

Parodie di proprietà

Se la critica d’arte potrà interessare al più gli addetti ai lavori, questa apre a una serie di questioni riguardanti la proprietà intellettuale; ed è Costello qui a fornirci in merito gli spunti più interessanti. Carina la faccenda del campionamento, ma che succede quando qualcuno rivendica un brano come proprio, come fa Schooly D? Scatta il plagio. I B-boy rivendicano un’appropriazione di materiali musicali che sono sempre stati neri e su cui i bianchi hanno costruito il proprio immaginario sonoro: la dicotomia cultura afroamericana/cultura WASP si salda con quella proprietà/furto.

Vengono a galla come pesci attratti da un boccone di pane domande squisitamente filosofiche sul concetto di originalità e paternità, idee che rimangono ai fondamenti di ogni strumento di tutela dell’opera d’ingegno, che sia il copyright o il nostro diritto d’autore. Non c’è da stupirsi se in questo gioco regressivo non rimangano coinvolti solo i rapper, ma anche le pop-star, la televisione, i brand e le pubblicità. Chi ha copiato chi?
L’unica strada che il campionamento ha per salvarsi da un’accusa di violazione è essere letto come una parodia, forma artistica storicamente riconosciuta dalla tradizione giuridica; ma il problema resta aperto. È un problema che riguarda tutti gli aspiranti comunicatori, tra cui gli autori stessi, che si trovano a riutilizzare un numero decrescente di “simboli non ancora consunti.”

La (s)fortuna del saggio

C’è una grande limite in questo lavoro che deve essere menzionato. Frankie Hi Nrg lo ricorda nella prefazione all’edizione italiana: “Questo libro è datato” scrive. Manca tutta la parte degli anni Novanta, l’età d’oro, le liti tra la East e West Coast, mancano rapper che fanno film accaparrandosi il botteghino e altri che muoiono in mezzo alla strada conquistandosi la gloria eterna.
La stesura del saggio coincide inoltre con un periodo di grande sofferenza per l’autore: lo screzio con la Viking-Penguin finisce male e la casa editrice sospende la pubblicazione de La Ragazza dai capelli strani. Wallace si dedicava alla saggistica perché non aveva le energie mentali sufficienti per scrivere narrativa. È sorprendente invece come proprio nei saggi emerga la sua lucida visione del mondo in modo potente e cristallino.
Il rap spiegato ai bianchi è un forziere di contenuti: non si parla soltanto di rap, è vero, non aspettatevi quindi un’indagine che spacca il capello a questo o a quest’altro stile.
Rimane una forte ricerca di senso: tra le righe Wallace parla degli americani come un popolo ridotto a un pugno di spettatori e consumatori nutriti da conflitti simbolici, e di sé, del suo ruolo di scrittore, di creativo, in quanto portavoce di una generazione e di una cultura alla deriva.

Il rap secondo Wallace FONDO

Credits immagine in evidenza: Illustration by Nate Powell

Bibliografia

Costello M., Wallace D.F., Il rap spiegato ai bianchi, (1990), Minimux Fax, Roma, 2014.

Eco U., Opera aperta. Forme e indeterminazioni nelle poetiche contemporanee, (1962), Bompiani, Milano, 2013.

Lipsky D., Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta, (2010), Minimum Fax, Roma, 2011.

Max D.T., Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi. Vita di David Foster Wallace, Einaudi, Torino, 2013.

Wallace D. F., La scopa del sistema, (1987), Einaudi, Torino, 2008.

Wallace D. F., Tennis, Tv, Trigonometria, Tornado. E altre cose divertenti che non farò mai più, (1997), Minimum Fax, Roma, 2011.

Wallace D.F., La ragazza dai capelli strani, (1989), Minimum Fax, Roma, 2011.

Wallace D.F., Di carne e di nulla, (2012), Einaudi, Torino, 2013.

Wallace D. F., Considera l’aragosta, Einaudi, Torino, 2014.

Wallace D. F., Una cosa divertente che non farò mai più, Minimum Fax, Roma, 2017.

Wallace D. F., Tutto, e di più. Storia compatta dell’infinito, Minimum Fax, Roma, 2017.

 

 
 
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