PSSY – Pink Sound Systers
Un’intervista di Three Faces

Lo confessiamo. Siamo un po’ emozionati, perché da maschi etero cis (almeno per quanto riguarda la delegazione che ha realizzato questa intervista. Ndr) forse non siamo le persone più preparate ad affrontare questa intervista verso un collettivo tutto in pink. O magari siamo proprio le persone più adatte, perché fra i vari generi il nostro è quello che meno percepisce il problema e per questo ha probabilmente bisogno di sensibilizzarsi di più, anche sul tema delle feste. Non sempre il linguaggio risulta appropriato, spesso si usano parole fuori luogo per “non rischiare di offendere nessuno” o per mancanza di approfondimento, facendo risultare la comunicazione falsata o fuorviante. Capita a tutti molto più spesso di quanto si possa immaginare, anche se spesso ce lo neghiamo. Questi timori ci fanno sentire, a ragione, superficiali.
Bisogna formarsi, saper ascoltare chi vive in prima persona una realtà diversa dalla “normalità” percepita.
Per nostra fortuna, non è questo il caso. Possiamo contare su Gioia Giovani, tramite la quale abbiamo ottenuto questa intervista e che ci aiuterà con i suoi commenti a comprendere ancora meglio il progetto di cui stiamo per parlare. Soprattutto possiamo raccogliere le parole di Margherita Gigli, tra un paio di birre e uno scambio di battute per sentirci a nostro agio, per venire magicamente proiettati nel libero e fantastico mondo delle Pink Sound Systers o, semplicemente, PSSY. Il loro obiettivo è quello di creare un sound system gender fluid dove tutte le persone possano sentirsi libere e sicure di esprimere ogni aspetto di sé, riappropriandosi del rosa come colore caratterizzante e non più discriminatorio. “Le Pink” – come ha scritto Gioia che conosce l’ambiente di quelle feste ed è testimone diretta di questo splendido universo, citando il loro manifesto – “sognano un sound system, o più precisamente, un sistema di persone che balla, si esprime, cresce e si supporta. Un sound che suona diverso, fresco, leggero e incazzato, un sound gender fluid. Un safer sound rosa dove poter ballare nud*”.

Three Faces: Leggendo un po’ la vostra bio, riguardo a ciò che avete fatto e state facendo, quello che più colpisce della vostra esperienza è proprio il concetto che sta alla base del vostro progetto. Come è nato, come si sta sviluppando e quali obiettivi vuole e può raggiungere?
Pink Sound Systers: Il progetto è nato da un’esigenza collettiva e da un desiderio comune. L’esigenza collettiva era quella di avere uno spazio nostro, spazio non solo o non per forza fisico, dove essere le protagoniste di un momento, ad esempio di una serata. Solitamente non siamo protagoniste dirette delle serate, non siamo chiamate ad organizzare ma a ‘partecipare’, o per portare un po’ di quote rosa all’interno di questi momenti o perché fa cool chiamare la donna o persona queer che suona, per distinguersi. Punto, fine dell’analisi. Noi invece volevamo essere le artefici di un momento di festa, e soprattutto le creatrici di uno spazio indefinito, in cui ci si potesse esprimere essendo noi stesse, senza dover stare dentro a dei parametri sociali nei quali ci si ritrova a stare, anche non volendo, come spesso accade negli spazi misti. Questo non è un voler essere contro il genere maschile, intendiamoci bene, si tratta più di una vera e propria esigenza di un posto safer, anche mentre facciamo festa. Noi vogliamo sperimentare le nostre libertà, come quella di stare sotto una cassa a ballare senza essere infastidite e importunate. Quando si va alle feste, si sa, anche le percezioni fisiche sono talvolta alterate, e spesso questo ci si disinibisce. Ed è bellissimo, intendiamoci. Ma proprio in questi momenti, in cui abbassi un velo e sei te stessa, magari mettendoti a ballare sotto cassa, se ti arriva il tipo che ti biascica addosso, ti fa apprezzamenti o ti fissa, ti senti infastidita, tradita, arrabbiata perché non è quello che cerchi in quel momento, non è il motivo per cui siamo li. È questo che noi vorremmo evitare, facendo sì che le persone si sentano il più al sicuro possibile. Poi bisogna dire che non esistono spazi totalmente safe. Noi infatti diciamo safer, perché vuol dire “più sicuro”, in quanto gli spazi sicuri in toto, appunto, non esistono. Pure noi, durante alcune feste organizzate con collettivi politici in precedenza ci siamo trovate a dover cacciare delle persone che erano moleste. Non abbiamo la presunzione di dire: “Ora che siamo arrivate noi, vi insegniamo come si fa”. Diciamo che abbiamo l’aspirazione di creare uno spazio nel quale ci possiamo muovere liberamente, nel quale ci si senta rappresentate. Essere presenti è importante. Raramente dietro le consolle ci stanno le donne o le persone queer, invece vedere sul palco una o più di loro ti fa sentire rappresentata e inclusa. Non significa che non vogliamo vedere maschi dietro la consolle, tutte le persone hanno il diritto di essere rappresentate, non è quello il punto. Il punto è che dopo essere state messe da parte dalla storia per secoli, dopo aver ricevuto, tutte e tutti, un’educazione imposta da uno stato patriarcale, dopo aver visto opportunità sfumare, almeno lì dentro, nelle nostre feste, vogliamo ricreare una consapevolezza della questione. E chiunque entri lo deve fare in un certo modo. Chi ha atteggiamenti molesti e invasivi, non sarà accettato. Lo spazio è di tutt*e per tutt*.
Gioia Giovani: Faccio una riflessione rispetto a questo. Il progetto mi è sembrato sempre muoversi nell’ottica di concepire tutti come esseri umani, più che fare categorizzazioni “di genere”. È più legato a un concetto di fluidità, che comunque si sta ancora costruendo e che va inteso appunto su un livello non solo di genere, ma sociale. Per me per esempio, che ho partecipato agli eventi, Pink Sound Systers è anche un modo per riappropriarsi del proprio corpo attraverso il corpo stesso: nel senso, nessuno può dirmi come muovermi, io mi muovo come voglio. Lo stesso vale per il modo di vestire, perché Pink è anche performance. Ad
esempio, la festa al Gada (spazio gestito dall’omonima associazione, in cui le PSSY hanno debuttato, ndr) è stata emozionante perché ha creato curiosità e sorpresa proprio sul lato performance. C’erano tanti stimoli che andavano dai visual che ricreavano una determinata atmosfera, alle ballerine e ballerini stess* che riuscivano a includere le persone come collettività. Quindi, non è un ballare per guadagnare, un ballare per motivi altri: è semplicemente il ballare per viversi dei momenti insieme nel rispetto di tutt*, punto.
PSSY: Lì al Gada, nello specifico, c’è stata una performance di vouging al centro della sala di quella che poi, tra l’altro, è una chiesa sconsacrata. Quindi già il fatto che ci fossero delle froce a ballare nude in una chiesa sconsacrata sull’altare, è una roba decisamente di rottura, e sicuramente politica. E le feste comunque in qualche modo diventano anche pratiche politiche. Pensiamo agli anni 70, per dire, dove l’idea del block party, del rave, della festa nasceva come momento di rottura politico e sociale. La festa è un modo per ricrearci il nostro mondo anche se è temporaneamente, perché poi, ad un certo punto, con quel mondo che non ti rappresenta ci dovrai tornare a fare i conti. Ma almeno in quel momento hai la possibilità di sperimentare una società che ti appartiene. Che ti rappresenta attraverso la musica, attraverso la performance, attraverso i corpi che si muovono. Insomma, è una rivendicazione.

TF: Ed è la rivendicazione di un mondo che può rappresentare tutti noi intesi come esseri umani, seguendo quello che diceva Gioia. Non è un caso che, come ci spiegavate prima dell’intervista, avete visto alle vostre feste anche il maschio bianco etero (non vorremo rimarcarlo, ma è ciò che rappresenta il machismo e la mascolinità tossica) che invece di avere quel comportamento tossico e molesto, che purtroppo si vede alle feste, in realtà s’era concentrato sulla performance, sul lato artistico e sul messaggio che volete lanciare. Magari alla fine lo condivide anche quel messaggio. Questo è già un bel cambiamento, uno step importante rispetto a quello che è il vostro obiettivo, no?
GG: Certo. Se posso intervenire, esiste una necessità, un bisogno di abituare l’occhio umano a un altro tipo di ‘strutture’ sociali. Da questo punto di vista poi, c’è proprio un discorso da fare su Firenze, perché altre città come Roma o Bologna sono già leggermente più aperte, più avanti rispetto a questo tipo di visione. C’è qui anche una rottura proprio nel senso di novità e credo che Firenze ne abbia bisogno, perché non ci sono spazi per certe realtà, e ancora non ci sono molte persone che creano questi spazi. C’è inoltre un problema di riconoscimento di “sentirsi esistere”. Per esempio, il voguing nasce originariamente da gruppi di persone trans che, non potendo vivere loro stess* ‘al di fuori’ liberamente, si chiudevano nelle ballroom e lì si riappropriavano un ‘essere’, cioè si riappropriavano di un’identità che non era loro permessa nella società “fuori”. Quello che avviene qui a Firenze è simile in certi versi, e noi vogliamo che le ballroom siano aperte e alla luce del sole.
PSSY: Sì, è interessante appunto il discorso su Firenze, perché Firenze è la città del decoro. Firenze è la città vetrina. Firenze è la città della gentrificazione di massa, una Disneyland a cielo aperto, ed è Firenze stessa, i suoi abitanti, a dirci che non è una città vivibile per tutt*. Noi siamo tagliati e tagliate fuori da tutto. Per dire, alle 2 in Sant’Ambrogio arrivano i vigili che ti mandano via e se voglio continuare la serata, dove devo andare? Boh, non lo so, però là non ti ci vogliono. Sui gradini di un sagrato a berti una birra con gli amici, ma anche a leggere, non ci puoi stare, e ricordiamoci che Firenze è una città dove in ogni piazza c’è una chiesa praticamente! Eppure, si è sempre fatto di stare sulle scale, di mettersi a sedere a fare due chiacchiere con gli amici, mentre si beve una birra. Ora non si può più fare. Almeno che tu non sia un consumatore nel senso economico del termine, in quel caso allora si, la puoi bere pure in chiesa la birra! Per cui c’è anche l’idea da parte nostra di riprendercela un po’ questa città, di farla un po’ nostra e di far vedere una Firenze che non è soltanto così, ma dove si possono fare cose. E non è vero che dobbiamo andare a chiuderci nei locali così da non essere vist* là fuori. Per questi motivi, un po’ di settimane fa abbiamo organizzato un block con delle compagne dove hanno partecipato e suonato alcune delle Pink. Era la seconda festa che organizzavamo come donne e come froce, prima questi party erano stati sempre in mano di crew tendenzialmente maschili. Non perché fossero stronzi, ma perché comunque erano più avvezzi, preparati e più pratici nell’organizzarli, perché hanno avuto i loro momenti e i loro spazi, cosa che a noi è stata preclusa, direttamente e indirettamente, sempre. Per dirla semplicemente, noi eravamo più abituate a far parte del pubblico, non avevamo mai fatto lo step di capire che era una possibilità anche per noi, nessuno ce lo aveva mai detto che realmente lo potevamo fare! Sinceramente, per usare uno spagnolismo, è empoderante vedere che anche noi possiamo farlo, e per quanto possa sembrare una cosa scema da dire, – perché qualcuno ti può dire “e certo che lo potete fare anche voi” – non è così scontato, perché in quanto donne non siamo cresciute con la consapevolezza di poterlo fare. Quindi, quando ti rendi conto realmente che è una tua possibilità, allora ti viene da dire “ok, va bene, Firenze può essere un posto anche per noi”, perché in fondo questa città comunque la viviamo anche noi e quindi: perché no? Perché non possiamo anche noi ricrearci un nostro spazio?
TF: Ancora di più, proprio per il fatto che questa è Firenze è forse ora il momento di stare e di ‘uscire’ da quell’ottica.
PSSY: Esatto.
GG: Le strade libere le fanno le donne che le attraversano. Questa è una frase che noi da transfemministe ripetiamo e che vuole dire proprio questo: creare degli spazi a partire da noi che li attraversiamo in prima persona.
PSSY: È lo starci immersi, alla fine.
GG: Starci e esistere.

TF: Voi avete una struttura d’impatto artistico, di organizzazione artistica molto particolare, articolata, perché c’è la musica, c’è la performance, c’è il teatro, c’è l’arte visiva, c’è la danza.
Come siete arrivate intanto a questa forma artistica poliedrica? Quanto è stato difficile arrivarci?
PSSY: Prima di tutto c’è da dire che il nostro collettivo è molto eterogeneo. Ci sono le dj, c’è chi fa teatro, chi politica dentro collettivi transfemministi, chi si occupa dell’organizzazione e la parte di gestione. Quello che è successo, insomma, è che ci siamo ritrovate in assemblea e ci siamo dette a un certo punto: “Ok, nel collettivo ci sono queste diverse capacità artistiche, performative e organizzative, quindi possiamo organizzare qualcosa”. Ma poi ci siamo anche chieste: “Cosa succede durante una festa? Si mette soltanto la musica e si monta il baretto da una parte? la gente si annoia”. È vero puoi ballare, puoi bere, sballarti e trovare il tuo modo personale di divertirti lo stesso, ma se te durante la festa hai degli stimoli, questa diventa tutta un’altra cosa. Quindi noi avevamo montato al Gada degli hula-hoop con delle frange colorate fino a terra dal soffitto e la gente ci ballava dentro, accarezzando le frange, usandole come ali o come separè, e si divertiva. Abbiamo fatto un coro tutt* insieme, pubblico compreso. Il pubblico infatti è parte integrante delle nostre feste, ne è protagonista insieme a noi. Prima c’era stata la performance di voguing, c’erano le ballerin* che ballavano dietro a un velo bianco. Le persone erano stimolate continuamente da alcune cose che hanno reso l’atmosfera frenetica, energica, positiva, frizzante. Le persone erano attente a quello che succedeva intorno, non stavano soltanto a ballare la musica. È nata quindi questa necessità di fare le performance, di sviluppare il lato artistico durante la festa, dal bisogno stesso di divertirsi e di divertire in maniera diversa rispetto a quello che si vede spesso a Firenze.
GG: Gli strumenti che vengono messi lì e utilizzati, come l’hula-hoop con le frange per dire, servono per dare alle persone una possibilità di divertirsi in modo non convenzionale e la gente, nel caso specifico, si stava effettivamente divertendo, le persone sorridevano, anzi ridevano proprio (pure da sobrie!). Era proprio ispirante, c’era una bellissima energia. Le persone fuori erano invogliate a entrare, e volevano entrare perché c’era una bella atmosfera. Questo è il prodotto di quanto diceva Margherita poco fa. Non è poco. Di feste se ne fanno tante, e spesso incontri musi immobili, gente che continua a ballare, a farsi la sua serata, ma senza quel brio. Invece alle feste delle PSSY il brio è forte.
TF: I sorrisi sono belli a una festa poi.
GG: Eh sì, i sorrisi sono sempre belli.
PSSY: Come dicevano al Jaiss – scusate, faccio la tamarra, ma un po’ tamarra sono (ride, ndr) – è la gente che crea l’ambiente ed è verissimo. Più che siamo dentro a questo ambiente e più lo rivediamo. Abbiamo capito cosa voleva dire la frase che uno si ripete da quando è adolescente: se il messaggio che trasmetti all’interno di una festa – visto che il linguaggio non è quello convenzionale del ‘parliamo’, ma è attraverso il movimento che trasmetti qualcosa alle persone accanto – è quella della gioia, della felicità, del divertimento ma anche dell’inclusività, le persone lo recepiscono. È proprio un circolo che si crea; e più c’è questa energia qua all’interno della feste, più la festa sarà riuscita.
GG: Gli spazi senza le persone che le attraversano sono solo mura. Pongo enfasi tantissimo su questa cosa, perché è fondamentale.
TF: Alle artiste e agli artisti che si posizionano in un’ottica ‘sociale’, impegnata diciamo – non solo nell’ambito di cui parliamo oggi, ma in ogni ambito del sociale – molto spesso succede che la parte legata al loro impegno vada un po’ a seppellire il lato artistico; nel senso che la critica, o molto più semplicemente il pubblico finiscono per dare più importanza a quel lato lì, dell’impegno sociale, che al lato artistico, performativo. In generale, quali sono stati nel vostro caso i feedback? Intendo sia da parte di chi è sensibile a determinate lotte sociali, sia di chi viene invece dall’esterno o comunque è un po’ estraneo, apparentemente indifferente a certe logiche e vi conosce magari per la prima volta.
PSSY: I feedback che abbiamo avuto sono stati positivi. Il giorno dopo cerchiamo sempre di capire come le diverse persone si sono sentit*, perché è interessante anche per capire semplicemente se c’è qualcosa da cambiare o no; e le persone sono sempre entusiaste, estasiate dal fatto che si crei questa atmosfera di libertà, disinibizione, di spontaneità. Per dire, il feedback lo si ha anche quando guardiamo chi balla e come balla. Vedere le nostre amiche, compagne e sorelle ballare e twerkare disinibite sotto cassa è un feedback! Alle feste di solito è più difficile sentirci a nostro agio, anche io da una parte mi conformo con quella che è un po’ la prassi della festa a cui siamo avvezze. Quindi, già tutto questo è un bel feedback, ovvero vedere le persone twerkare, baciarsi e abbracciarsi liberamente, in generale vedere le persone che sono felici. Per fare un altro esempio, proprio l’amico che, come vi dicevo prima, viene a dire: “Oh, ma l’hai visto che quel nostro amico maschio oggi è stato nel suo, tranquillo a ballare, non ha fatto il protagonista, non ha dato spallate alla gente per stare sotto casa, è stato lì tranquillo e s’è divertito un monte”. E cavolo, questo è il feedback che ti fa capire che vai nella direzione giusta! Quindi per tornare alla domanda, entrambi i lati, sia quello artistico che quello sociale, riescono a stare in equilibrio e sembrano essere apprezzati dal pubblico che ci conosce e che viene a conoscerci. Questo per noi è molto importante come potete immaginare, anche solo per far conoscere il progetto che, ci tengo a precisarlo, è autofinanziato. Tutto quello che noi guadagniamo con le feste infatti viene reinvestito nel progetto stesso. Adesso miriamo a comprarci un sound, dipingerlo di rosa. Almeno quando verrete alle nostre feste, lo vedrete e capirete che noi siamo lì.