I pracinhas e le guerre degli altri
un estratto da “Camminare l’antifascismo” di Lorenzo Guadagnucci
Quello odierno è un THREEvial particolare. Abbiamo infatti sfruttato la presentazione dell’ultimo libro di Lorenzo Guadagnucci “Camminare l’antifascismo. La memoria come ribellione all’ordine delle cose” (Edizioni Gruppo Abele, 2022) che si svolgerà questa sera (18 maggio 2022, ndr) al C4 – Centro di Contaminazione Creativa e Culturale, per offrirvi uno spunto di riflessione su un’attualità che ogni prende deformazioni grottesche.
Un libro intenso, pieno di appigli su cui soffermarsi a meditare, ma c’è un passaggio che più di ogni altro ci ha colpiti, forse perché prende le mosse da una vicenda riguardo la quale onestamente non sappiamo quanti di voi abbiano contezza: quella dei “pracinhas” brasiliani, ovvero gli appartenenti alla FEB (Força Expedicionária Brasileira) che tra il 1944 e il 1945 combatté al fianco degli Alleati in Italia, prima nella valle del Serchio e successivamente sull’Appennino tosco-emiliano.
Li chiamavano così, “soldatini”, perché erano piccoli di statura e per la gran parte erano ventenni, mandati a combattere una guerra non loro per il classico sistema di alleanze da Getúlio Vargas, il padre padrone dei brasiliani dagli anni ’30 che, nonostante la forte fascinazione dei fascismi europei – che infatti sfociò presto in emulazione – trovò più conveniente allearsi con Stati Uniti, Impero britannico e compagnia cantante che con l’asse Roma-Berlino. Scelta azzeccata, tanto mica era lui che doveva andare a combattere, manco servivano i generali che lo destituiranno a guerra finita (salvo poi essere nuovamente destituiti proprio da Getúlio nel 1950). Bastavano una manciata di ufficiali e un paio di decine di migliaia di pracinhas, dei quali appena un terzo erano soldati scelti: il resto ragazzi, ventenni comuni.
Ne lasciarono sul campo più di quattrocento tra Monte Castello e monte Belvedere, dove oggi sorge il monumento a loro dedicato. E viene da chiedersi ‘perché’, esattamente come se lo chiede Lorenzo Guadagnucci, nel capitolo “Camminare è un atto politico”: una riflessione sull’inutilità della guerra, sulla sua tronfia retorica che ne esalta la traccia eroistica al posto di quella ignominiosa che lascia sul campo dei ventenni brasiliani, costretti da qualcuno a combattere la guerra di altri. Una tematica dannatamente attuale, su cui non vi chiediamo di schierarvi, di essere d’accordo o meno con quanto scritto da, con quanto scritto da Lorenzo Guadagnucci. Vi chiediamo solo di rifletterci un po’ su.
Da “Camminare è un atto politico” in Camminare l’antifascismo di Lorenzo Guadagnucci (pp. 79-84)
Pensare alleggerisce il cammino e così il tempo vola, finché, all’uscita dal bosco, sulla sommità dei colli, quando cominciamo a fiancheggiare ampi campi coltivati, ci troviamo ai margini di una spianata e poco lontano vediamo spuntare qualcosa di monumentale. Sono due grandi losanghe bianche che si incrociano, sembrano una appoggiata sull’altra, ma orientate in direzioni opposte: una verso il basso, a formare un ampio arco molto snello, l’altra rivolta al cielo. Cominciamo ad avvicinarci, intanto Tiziano si prende la briga di spiegarci di che si tratta. «È un monumento ai soldati brasiliani che combatterono da queste parti», dice. Giovanni e Marcello forse strabuzzano gli occhi, visto che Tiziano si rivolge direttamente a loro: «Sì, brasiliani. Vi sorprende? Spesso lo dimentichiamo, ma la Seconda guerra è stata davvero mondiale. E arrivò in Italia anche un corpo di spedizione brasiliano, chiamato FEB, in italiano Forza di spedizione brasiliana. Ci furono anche neozelandesi, se è per questo, oltre che i soldati asiatici e africani delle colonie di Francia e Gran Bretagna e altri ancora. I brasiliani, qui, se li ricordano tutti molto bene. C’è ancora tanto affetto per loro, perché combatterono a lungo e furono battaglie sanguinose».
Tocca a Nicola, come al solito, spiegare perché un monumento in ricordo è stato collocato proprio qui, nella piana della Guanella, a poca distanza da Gaggio Montano: «In questa zona si combatté una battaglia molto cruenta per la conquista di Monte Castello, posizione strategica occupata dai tedeschi. La linea difensiva andava fino a Monte Belvedere e più in là verso la montagna pistoiese. Monte Castello, che vedete davanti, era una postazione ben protetta dall’artiglieria e circondata da campi minati. Gli Alleati avevano ormai liberato la Toscana e avanzavano verso la pianura padana: arrivati lì sarebbe cominciata la rotta dei tedeschi. I brasiliani portarono due attacchi a Monte Castello, uno a fine novembre, l’altro verso metà dicembre del ’44. Specialmente il secondo fu una specie d’inferno, con i tedeschi che si difendevano dall’alto coi mortai e le mitragliatrici automatiche e i brasiliani che cercavano di avanzare sotto la pioggia, in una specie di acquitrino, proprio in questo pianoro». Nicola indica il monte poco lontano: oggi è interamente coperto dalla boscaglia, allora molto meno. «La gente di qui raccontò di decine, centinaia di corpi rimasti a terra e dei gemiti e delle invocazioni d’aiuto che si sentirono per ore, se non per giorni. Perciò tutti ricordano con affetto e una punta di mestizia i pracinhas, come si chiamavano i soldatini andati all’assalto. Ne morirono più di quattrocento. Alla fine, per conquistare la postazione tedesca, fu necessario aspettare il febbraio ‘45, un nuovo grande attacco, condotto stavolta con l’appoggio della 10.a divisione di montagna degli statunitensi. Stavolta i brasiliani riuscirono a sfondare, grazie soprattutto al lavoro dell’artiglieria, e i tedeschi furono costretti ad abbandonare Monte Castello. Fu conquistato anche Monte Belvedere. A quel punto per i tedeschi la capitolazione definitiva era ormai vicina».
Alla base del monumento, concepito da una donna, l’architetta Mary Vieira, non ci sono iscrizioni retoriche, ma sembra che in Brasile vadano orgogliosi delle imprese compiute dalla FEB e divisioni impegnate a Monte Castello, la «cima imprendibile», così l’hanno definita, una battaglia che occupa un posto significativo nella storia militare brasiliana. In realtà la conquista di Monte Castello fu una carneficina, con migliaia giovani vite perdute.
La memoria ha una sua retorica e la simpatia umana per quei soldati morti quassù è comprensibile, ma è difficile sfuggire a un pensiero che detto ad alta voce potrebbe risultare sgradito o essere giudicato offensivo. È un pensiero semplice, addirittura banale, ma come si fa a non domandarsi per quale follia, quale cortocircuito della storia dei ragazzi del Mato Grosso o del Rio Ta del Sud siano venuti a combattere e morire a Gaggio Montano sull’Appennino bolognese, in una parte di mondo di cui probabilmente ignoravano perfino l’esistenza. Si dirà: era una guerra mondiale e si trattava di sconfiggere una minaccia incombente, il nazifascismo coi suoi progetti di dominio planetario, e il governo brasiliano volle fare la sua parte. I canoni della geopolitica, indubbiamente, vogliono che si ragioni così, ma se pensiamo a quei pracinhas, giovanissimi e ignari del mondo, morti nel fango in questo pianoro, più che alla geopolitica pensi alla tronfia retorica del potere, che in Europa, in America, nel mondo non ha mai smesso di considerare la guerra uno strumento essenziale della politica, una parte imprescindibile della vita.
A guardare questo monumento si può pensare, come l’architettura suggerisce, al gesto di generosità compiuto dal Brasile e all’eroismo dei suoi soldati, ma è anche possibile farsi prendere da una sensazione di straniamento. Nel ‘44 non era ancora tempo di globalizzazione e gran parte degli italiani non aveva mai visto uno straniero, e tanto meno un uomo di pelle scura. All’improvviso spuntarono intere divisioni di soldati venuti da terre lontanissime e sconosciute, e centinaia, migliaia di loro morirono qui, a vent’anni, nel fango. Morirono, si dice, per l’Italia e per l’Europa liberate dal fascismo, dal nazismo, per mettere fine alla guerra. La storia ufficiale sostiene che ne è valsa la pena e dice che il sacrificio dei soldati, anche di quelli venuti dall’altra parte del mondo, è stato giusto e meritevole. Ma se penso a quei soldatini sepolti da qualche parte qui in Italia, magari al cimitero monumentale dei militari brasiliani di Pistoia, provo un sentimento di sdegno e d’orrore. La guerra, ancora una volta, mi pare la forma più alta del fallimento umano, la condanna a morte della nostra specie. Quanta retorica ancora la circonda. Altro che celebrazioni e lodi all’eroismo in battaglia: dovremmo erigere monumenti alla vergogna, chiedere agli artisti di dare forma al malessere che prende davanti alle tombe dei soldati, alle date di nascita così ravvicinate; avremmo bisogno di opere anticelebrative in grado di esprimere il senso del fallimento e stimolare pensieri e meditazioni conseguenti.
In questo luogo, ogni 21 febbraio, si celebra il ricordo dei pracinhas, alla presenza di un console o dell’ambasciatore brasiliano. Forse andrebbe aggiunto, qui come altrove, un atto, una cerimonia, un gesto che rammenti l’insensatezza della guerra, la necessità di ripudiarla e cancellarla dalla storia. Un’irrealistica utopia, si dirà, cancellare la guerra dalla storia, ma in che altro modo, se non lottando per questa utopia, possiamo davvero rendere omaggio a quei soldati e dire loro, in un dialogo coi morti, che il nostro impegno è volto a far sì che non ci siano mai più pracinhas sul suolo d’Italia e d’Europa, mai più caduti per la conquista di «cime invincibili»?
Se ogni anno, fin dal ‘46, avessimo ricordato, cerimonia dopo cerimonia, che l’impegno principale, il pensiero assillante dev’essere rivolto al ripudio della guerra, forse l’estetica militarista, la geopolitica del potere per il potere, il cinismo nelle relazioni internazionali, il commercio delle armi e la minaccia nucleare non sarebbero tanto dominanti; forse avremmo un discorso pubblico più aperto e più democratico, relazioni fra Paesi più leali, alleanze fra Stati più larghe, più civili, più collaborative.
Sogni? Fuga dalla realtà? E molto comodo dare oggi dell’utopista, dell’acchiappanuvole, a chi prende sul serio le promesse di pace duratura fatte nel ‘45 alla fine della guerra e gli stessi obiettivi che si posero i partigiani: prendere le armi, combattere l’esercito occupante e porre fine alla guerra, a quella guerra, certamente, ma anche ai futuri conflitti. Imbracciare i fucili per non doverne fare più uso. Tali impegni furono scritti solennemente in alcuni documenti fondamentali, concepiti come base teorica del nuovo corso dell’umanità dopo le atrocità della prima metà del Novecento. Nell’articolo 11 della Costituzione, con il quale l’Italia «ripudia la guerra come strumento per la soluzione delle controversie internazionali». Nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del ‘49, nella Carta fondativa delle Nazioni Unite. Erano impegni grandiosi, un progetto nuovo, degno dell’enormità dei fatti accaduti, coi milioni di morti seminati nel mondo e la distruzione del senso stesso di umana dignità. Oggi sappiamo che tali impegni sono stati in larga parte traditi. Guerre e genocidi hanno costellato anche la seconda metà del Novecento e l’inizio del terzo millennio; la stessa Dichiarazione dei diritti dell’uomo e le promesse di pace contenute nelle Costituzioni sono state aggirate, smentite, vilipese. Dirsi pacifisti, oggi, espone alla derisione al cospetto del (presunto) realismo che domina il mondo, un realismo cinico che si è fatto senso comune. Il cinismo dei potenti che si somma al cinismo degli umili, come osservava Leopardi. La guerra è fra noi e dentro di noi, è vissuta come una fatalità inevitabile, sempre nella speranza, nella nostra parte di mondo, che riguardi gli altri, che non arrivi a toccarci da vicino.
La verità è che abbiamo un disperato bisogno di osare pensieri nuovi. Se siamo davvero affacciati sull’abisso universale dell’estinzione di specie, se l’Orologio dell’Apocalisse degli scienziati nucleari è vicino come non mai alla mezzanotte fatale, dovremmo saper ascoltare, specie in questi luoghi segnati dall’orrore ma anche da un impeto di ribellione mai visto prima nella storia, chi non demorde e non si rassegna, ad esempio chi scrive, ancora nel 2017, un Appello a resistere (katécon). Per un mondo non genocida Patria di tutti Patria dei poveri. È un appello nato nel mondo cattolico, durante un’assemblea della rete «Chiesa di tutti Chiesa dei poveri». È un bel testo: semplice, diretto, sincero. Lo hanno firmato anche quattro Premi Nobel per la pace, quattro persone che non hanno inteso questo riconoscimento come un omaggio all’ipocrisia del mondo: sono l’argentino Adolfo Pérez Esquivel, l’iraniana Shirin Ebadi, la statunitense Jody Williams, la nordirlandese Mairead Corrigan-Maguire. Katécon è la parola biblica che indica la resistenza alle forze della distruzione; il documento cita subito il cambio di passo seguito alla Seconda guerra mondiale, quando «i popoli giudicarono la civiltà che li aveva portati a quella crisi, e si resero conto di come essa fosse avanzata nel tempo rendendosi più volte colpevole di razzismi, aggressioni e genocidi. (…) Pertanto decisero di passare a una civiltà di popoli eguali senza più genocidio». Nella parte centrale del documento c’è un passaggio che parla di noi, persone di buona volontà in cerca di una memoria storica all’altezza dei tempi, decise a non seguire passivamente il corso dissennato degli eventi. «Oggi però si ragiona, si decide e si governa – si legge – se quella scelta non ci fosse stata. Giocare a minacciarsi l’atomica (…) significa infatti ammettere come ipotesi il genocidio di uno o più popoli o di tutti i popoli; pretendere di rovesciare regimi sgraditi votando alla distruzione i relativi popoli “danno collaterale”, è già genocidio; mettere in mano a pugno di persone la maggior parte delle ricchezze di tutto mondo vuol dire attivare “un’economia che uccide”, cioè genocida, poiché mettendole fuori mercato attenta alla vita di popolazioni intere; continuare a incendiare il clima e a devastare significa ecocidio, cioè scambiare il lucro di oggi con il genocidio di domani; intercettare il popolo dei migranti e dei profughi, fermarlo coi muri e coi cani, respingerlo con navi e uomini armati, discriminarlo secondo che fugga dalla guerra o dalla fame, e toglierlo dalla vista così che non esista per gli altri, significa fondare il futuro della civiltà sulla cancellazione dell’altro, che è lo scopo del genocidio». Sono parole sulle quali dovremmo meditare a testa china davanti ai monumenti ai caduti – militari e civili – della Seconda guerra mondiale, ad esempio proprio qui a Monte Castello.