Piccoli mattoni
di Daniele Adamini
Fotografia di Mattia Martini
Nessuno credeva che avremmo avuto le palle per cambiare. Per combinare qualcosa di buono.
Nessuno credeva che ci avremmo almeno provato, perché quando sei come noi il tuo miglior amico è il fallimento. Passi la vita a perdere tempo, ad aspettare che faccia notte, districandoti malamente tra un guaio e l’altro, in mezzo alla noia, all’indifferenza, al mondo che può anche caderti addosso. Al limite ti scansi.
Eh no, nessuno ha mai scommesso un centesimo su gente come noi, nessuno ci ha dato una possibilità. Siamo cresciuti presto, e un po’ le tappe le abbiamo bruciate, ma solo perché avevamo fretta di vivere, e le cose da fare, da sperimentare, erano tante. Non tutte buone, e non tutte giuste, perché ci sembrava più importante il viaggio che la destinazione. Non eravamo di quelli nati con un progetto in mente, non sapevamo dove saremmo andati a parare, né cosa avremmo fatto. A noi bastava esserci, continuare a camminare, che prima o poi da qualche parte saremmo arrivati. Senza fretta, e senza rinunciare a quella parte di cuore che prima di scegliere voleva capire.
Non solo come stavano le faccende del mondo, ma come noi le vedevamo, che forse al giorno d’oggi sembra una stronzata, ma per chi nasce in un piccolo paese che confida nel rispetto delle tradizioni quasi come in Dio è fondamentale. Non puoi essere niente se non ti misuri con te stesso, e il più delle volte devi sporcarti le mani per riuscirci. Ecco, noi eravamo quelli delle mani sporche, dei jeans rotti, senza mai un soldo in tasca. Quelli che il venerdì sera dovevi contare anche gli spiccioli, e spesso ti toccava arrangiarti. Quelli delle cene rimediate, delle assenze ingiustificate, che la bocciatura era sempre dietro l’angolo, proprio come il bar in cui ti imboscavi la mattina. Il caffè che sapeva di buono, la sigaretta subito dopo, e poi sbracati sui divani a ridere di quella strana confusione, che non ti spieghi se non con l’età.
A dire il vero la nostra era più predisposizione d’animo, una specie di destino che ti porti dietro, e che ti segna. Ti allena.
Ai giudizi di una comunità che non ti approva e non ti segue, alle colpe che ti affibbiano anche quando non c’entri, e in genere ad ogni nota negativa che vorrebbe fare di te la bestia nera per eccellenza. Non ci curavamo quasi mai delle voci che circolavano sul nostro conto, ma se le accuse venivano da casa non c’era tanto spazio per fuggire. A quel punto o incassavi bene e scrollavi le spalle, o ti preparavi allo scontro. Loro in dieci, tu da solo, a coprire le magagne, a mettere le toppe, a vacillare nelle scarpe logore senza mai darlo a vedere. Ci rendevamo conto che c’era un senso nella filosofia “più sbagli più impari”, ma spesso gli errori ci prendevano la mano, ed era difficile stabilirne la natura. Che fossero il frutto inevitabile di un certo percorso, o un modo per ribellarsi e affermare la propria identità?
Non ci ponevamo ancora il problema, forse perché i problemi erano altri.
Chi doveva combattere con padri assenti e madri isteriche, chi aveva due felpe e due pantaloni per tutto l’anno, e chi si appoggiava sul divano di un amico perché era meglio così. In certi momenti non era facile resistere alla piena senza lasciarsi toccare dallo sconforto, dalla fragilità, dalle notti insonni a rigirarsi nel letto schiacciati dal peso di quella parola, “futuro”.
Dopo il diploma molti avevano imboccato nuove strade, si erano trasferiti, e a noi restava una telefonata ogni tanto, un breve messaggio, e confini sempre più stretti, sempre più scomodi. Era normale che la vita si assestasse, e che i progetti a lungo covati iniziassero a prendere forma, ma noi che non li avevamo, che non li avevamo mai avuti, ci sentivamo soffocare. Abbandonati da quella gioventù carica di speranze e di opportunità che ci evitava, e pressati da un giudizio che pian piano sfibrava le nostre certezze.
Veniva applicata davvero una misura diversa per gente come noi? Il marchio che portavamo addosso era definitivo? Dovevamo rassegnarci?
Non chiedevamo comprensione o misericordia, solo risposte alle mille e più domande che ci assillavano. Che ci ripetevano a casa, in giro, in una escalation per cui l’unica soluzione sembrava la sordità. Per tanta indifferenza ostentata di colpo avvertivamo una frustrazione che relegava il sorriso a pochi preziosi momenti.
Ogni cosa si stava complicando, e non c’era verso di gestirla. Perfino le ragazze volevano di più, un rapporto più stabile, più garanzie, la sicurezza che può darti la solidità. Noi che di solido avevamo si e no il cuore attaccato al petto, il silenzio mascherato col rumore, e una sola espressione per tutto.
Forse è stato proprio nel periodo peggiore che ci siamo decisi ad alzare la testa. E la voce. Forse nessuno lo aveva pianificato, perché forse accade e basta. Che un giorno compri il biglietto di un treno, o di un aereo, e dopo aver riempito la tua piccola valigia ti senti pronto a partire. Ad andare.
A mettere in pratica ciò che hai imparato.
A smentire chi ti considera un fallito.
A cercare finalmente le agognate risposte, a cercarle a modo tuo, ovunque siano.
A comprendere il padre che non c’è mai stato, la madre che non ti sapeva ascoltare, e lasciare il divano delle tue notti appoggiate per un letto vero.
A sperimentare nuove emozioni, familiarizzare con il senso di responsabilità, a scoprire che ci sono infinite vite da vivere, anche per chi non nasce inquadrato. Che il cambiamento comincia quando è tempo e non un secondo prima, e gli sbagli, gli abbagli, il buio, ti hanno dato più di quanto ti hanno chiesto in cambio.
Ci incontriamo al solito posto e abbiamo la stessa voglia di cazzeggiare. Qualcuno si è tagliato i capelli, qualcun altro ha cinque chili in più, ma quando ci guardiamo in faccia siamo sempre noi, quelli partiti da zero. Che non tirano più fino a tardi la sera, perché al mattino la sveglia suona presto. Che si addormentano accanto alla stessa donna da un po’, e anche se non promettono palazzi di cento piani garantiscono la verità. E che quando tornano a casa lo fanno da uomini più che da figli, o nipoti, o fratelli.
La gente ora dice che quelli come noi non nascono più, che nessuno ha più la volontà di ritagliarsi il suo posto nel mondo, di costruirselo il mondo. Noi continuiamo a non sentirli, perché al solito i problemi sono altri, e perché non c’è bisogno di una medaglia per dimostrare ciò che solo noi sappiamo.
Non siamo eroi adesso e non eravamo da buttare via allora, quando nessuno ci credeva, né si sforzava di capire, o aveva voglia di ascoltare. Di aspettare che la nebbia si diradasse e ciascuno di noi reclamasse il suo destino, il suo futuro. Che stabilisse la sua andatura, le sue priorità, annaspando nell’acqua alta prima di toccare terra. Che mettesse insieme tanti piccoli mattoni per costruire il muro.
Nessuno ci ha incoraggiato, spronato, nessuno ha pensato niente di buono riguardo quelli come noi. Quelli che hanno pianto da soli, che da soli si sono curati, che hanno bussato a tutte le porte prima di trovare uno spiraglio di luce, una mano tesa, un posto caldo. Che hanno viaggiato sotto la pioggia, in mezzo al vento, attraversando il fango e il deserto con la forza dell’incoscienza. Che hanno vinto la paura, che si sono persi e ritrovati, un passo alla volta.
Un respiro alla volta.
E mezzo bicchiere di fiducia con due dita di gin.
Piccoli mattoni è un racconto di Daniele Adamini tratto da StreetBook #2
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