Ho sempre pensato che le piazze fossero le parti più interessanti e affascinanti delle città: sono un cuore pulsante da cui si dipanano vicoli e strade come fossero vene ed arterie, sono un cuore che sempre ricerco per prendere aria, per lasciarmi alle spalle i reticolati le cui pareti ti sanno incantare e poi risucchiare.
Nelle piazze incontri volti assopiti, arrabbiati, incontri le urla, i contenitori dei fiori, le sigarette fumate di corsa, piangendo, ridendo o contemplando. Incontri ricchi che rifuggono immagini di povertà, incontri la storia, il popolare.
E incontri le mani di un contrabbassista che accarezza le corde del suo strumento, compagno fidato di una chitarra dalla voce avvolgente; un simposio di gesta, di suoni, di spasmi, che spezza il disordine e che in quell’istante converte la piazza in introspezione.
Se dovessi individuare quale sia l’elemento caratterizzante di quest’epoca, nominerei sicuramente il viaggio. Quasi tutte le persone intorno a me, quasi tutte le immagini e le parole che circolano nel mondo virtuale, quasi tutte le occasioni che mi si presentano sul cammino riguardano il mettersi in movimento, il migrare, l’andare. Spesso mi domando il perché di tutto ciò, cercando di vedere nei processi socio-culturali cosa ci ha condotto fino a qui: la tecnologia, la circolazione di informazioni, la diminuzione del tempo e del costo dei trasporti, l’internazionalizzazione del lavoro, il multilinguismo…
Eppure, riflettendo sulla mia personale esperienza, sono certa che c’è dell’altro: il mio bisogno di prendere e partire muove da sentimenti che di certo non possono essere slegati dal contesto in cui viviamo, ma che allo stesso modo non possono neanche essere ricondotti banalmente ad una fame del mondo in un’ottica meramente estetica. Andare, per me, significa soprattutto cercarmi, guardare intorno e scrutare quegli angoli di mondo in cui ritrovo parti di me, immedesimarmi in realtà differenti cogliendone l’essenza per costruirmi ogni giorno, dimenticare in partenza da dove provengo per poi desiderarlo prepotentemente.
Andare implica inoltre relazionarsi al mondo: eventi apparentemente insignificanti originano dentro di me sensazioni che a volte possono essere nuove ed altre invece ben conosciute, tanto da esser date per scontate e, dunque, dimenticate. Da qui si comprende come il ricordare, il riportare alla mente, debba per forza essere incluso nell’esperienza che un viaggio spesso rivendica come nuova.
Cercare sé stessi, allontanarsi, andare via, non comprende solo la novità, bensì ridefinisce il vecchio, lo rielabora, lo purifica.
Ciò che, secondo me, in molti sbagliamo, però, è l’attendere di potersi permettere un viaggio per compiere questo; è vero che in un contesto apparentemente estraneo siamo più ricettivi e più inclini all’emozione, ma è anche vero che intendere il movimento solo in questi termini implica una sorta di distacco da quello che è il luogo da cui ci alieniamo una volta partiti e in cui prima o poi dobbiamo e desideriamo tornare.
La nostra dimensione interiore non può interagire con l’esistere -nostro e altrui- solo laddove ci si allontana, perché questo significa imparare a parlar con noi stessi soltanto in alcune circostanze.
Il sorriso del bambino che in Venezuela ci stringe il cuore deve avere lo stesso peso del sorriso di un passante che per un secondo incrocia la nostra traiettoria una domenica, in una piazza che attraversiamo ogni giorno.
Laggiù o lassù è diverso ma è diverso anche qui: tutto ciò che ci circonda è un viaggio e tutti coloro che ci incontrano possono essere dei motori per guardarci dentro. Perché alla fine, partendo, cerchiamo nell’estraneo pezzi di noi che pensiamo di non aver ancora trovato o rivisitato.
Sento il bisogno di esprimermi perché le mani del musicista nella piazza di cui parlavo prima, sono state per me un lunghissimo viaggio: è bastata un’immagine, un suono, per farmi innanzitutto soffrire guardando all’indifferenza dei passanti, e poi commuovere, in movimento verso la figura di mio padre, che da ventun anni, ogni giorno, riempie la mia quotidianità con quelle stesse mani, seduto sulla sedia, col basso poggiato sulle ginocchia. In questa piccola partenza nella città in cui vivo, ho potuto vedere nitido quanto io sia legata a lui, quanto lui mi abbia insegnato stando al mio fianco e quanto lui sia sempre con me, in ogni angolo di mondo in cui io guardo. Per questo, contemplando quelle mani che hanno mosso un’eco dentro di me, il nuovo ha generato un ricordo, e dopo un ricordo è emerso il dono che ho dentro da sempre e che ho riconosciuto solo in quel momento, senza partire verso nessun luogo: la sensibilità trasmessa da mio padre, il desiderio di guardarmi intorno e di conoscere, senza per forza dovermi imporre dove questo debba accadere. Senza viaggiare, per viaggiare.
Martina Calista