Three Faces

La terza faccia della medaglia

Patrick Zaki ve lo ricordate? Un articolo di R. Dell’Ali || Threevial Pursuit


Patrick George Zaki ve lo ricordate?

di Roberta Dell’Ali

Ciao belli de mamma, come ve la passate? State in para per il Coronavirus o ve ne state fottendo?

Pensate alle vostre tragedie personali o siete preoccupati per la borsa che scende a picco?  Vi rode il culo che la potenziale pandemia abbia bloccato svariate cose della vostra vita o siete felici di potervela grattare (la pancia eh) senza dover dare giustificazioni? A me, personalmente, rode un sacco.

Mind the gap between the train and the platform

In questo momento sono in veranda, fumo una sigaretta e mi chiedo come esaudire il proposito che circa due settimane fa mi ero data per questo THREEvial Pursuit, ossia scrivere sulla vicenda Zaki. Andrea, per la precisione, ha detto: «Sarebbe giusto avere un pezzo su Patrick» ed era il 17 febbraio.

Solo tre giorni dopo sarebbe arrivata la questione Coronavirus, prepotente, a invadere i media e le bacheche e i post, che fino al 20 febbraio erano ancora dominati da uno straziante Giulio Regeni che abbraccia Zaki. Dal mio punto di vista le due vicende sono estremamente intrecciate.

CALMI! Non sto per avanzare una teoria complottista. È solo che sono stata a Bologna fino al 18 febbraio e, in quei giorni, sono andata alle manifestazioni per Zaki. Poi sono andata a Milano, dove sarei dovuta restare un mese per un corso di digital marketing (lo so, può creare dei sospetti sulla genuinità della mia persona, ma io questo non creto).

Ho fatto i primi due giorni di lezione e, nel mentre, confabulavo tra me e me su come/cosa potessi scrivere riguardo Zaki. Comunque sia, il 20 febbraio, dalla sera alla mattina, la potenziale epidemia del Coronavirus è arrivata in Italia ed è entrata nelle conversazioni e negli smartphone di chiunque: che il mood fosse moriremo tutti o ma sei scemo è solo un’influenza, cambia poco. A Rogoredo i treni per Bologna erano stati cancellati, riuscire a tornare è stato abbastanza rocambolesco. 

Il lunedì seguente non sono tornata a Milano, la mia vita si è riorganizzata a guisa di ordinanze e la riflessione su Zaki è continuata attraverso un’attenzione mediatica drasticamente diminuita.

Di trend e di appeal

Per quanto mi costi dirlo, una buona parte della riflessione alla base di questo articolo parte proprio dalla roba di digital marketing milanese (che continuo a fare su Skype: una cosa da matti, credetemi). A seguito di una serie di lezioni con professionisti del settore ho acquisito alcune nuove consapevolezze rispetto all’intorno della mia individualità.

La prima, di rilevanza relativa, è di ordine linguistico e si basa sul fatto che il mondo del digitale sembra avere la necessità di esprimersi con termini urticanti come “vision”, “business model”, “experience”, “design thinking” e menate varie (capisco che suona meno figo, ma perché devi dire main activity o team work, se puoi serenamente dire “attività principale” e “lavoro di gruppo”?).

La seconda consapevolezza venuta a galla è un pelo più seria e riguarda l’approccio di una come me, che del marketing non sa una cippa, ad alcuni concetti cardine di questo strampalato universo. Parlo di cose come trend e appeal. Qui potrei far partire lo spiegone della vita, ma ammetto di non esserne capace e mi limito a riportare una esplicativa conversazione avvenuta qualche giorno fa.

«Hey Robe’, ricordi quel lavoro che t’avevo fatto vedere l’altra volta? Poi l’ho mandato e m’hanno detto che l’intro è pallosa. Adesso l’ho fatto più ritmico ed esaltante, ma non so, ho la sensazione che stiamo andando nella direzione sbagliata. Guardalo un po’».

«Ma come?! L’intro ci piaceva un sacco! Però dai, questo è effettivamente più accattivante e dinamico. In che senso “stiamo andando nella direzione sbagliata”? Non ti seguo».

«Sì okay, ma io volevo fare una cosa calma. Sono anni che mi dicono questo e quello e quell’altro, mi aspettavo solo una maggiore sensibilità narrativa

«Calmino compa’, io sono qui da giorni a sentire quanto sia importante l’appeal del prodotto. È il 2020, l’attenzione è minima, il capitalismo ha trionfato ed esistono mezzi di diffusione per cui non puoi mai dimenticarti dell’appeal» [auch, ma l’ho detto veramente?]

«Maddai, questo appeal molto commerciale sta fallendo, sono evidenti tutti i limiti di questo sistema. Non sarebbe male che la gente ritornasse a cercare lo stimolo da : guarda anche ora che sta succedendo. Tutti questi titoloni, servirebbe più calma nel narrare le cose».

La conversazione non la riporto tutta ovviamente, anche perché ha poi divagato, com’è normale che sia. Però sì, è evidente che i principi della comunicazione si siano adattati alla nuova tecnologia che trova forza proprio nei concetti di appeal e trend. In un certo senso mi vien da dire che è sempre stato così. D’altro canto la velocità e continuità con cui avviene il rimescolamento delle carte impone la subalternità, sostanzialmente arbitraria, di alcune questioni rispetto ad altre.

Questo ragionamento è lo stesso che sottostà a un’affermazione diffusissima sui social ultimamente, che più o meno fa così.

«Ci stiamo agitando tanto per il Coronavirus, quando il cambiamento climatico fa morti da un sacco di tempo e nessuno se ne è preoccupato in questo modo».

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Già, nulla di più vero. Le urgenze nel mondo sono molte e simultanee. Penso alla guerra turco-siriana con bombardamenti, esodi e morti à gogo. E penso ovviamente al quasi silenzio sceso su Zaki, ancora in carcere.

Regeni, Zaki e tutti gli altri

“Patrick George Zaky, studente del master internazionale Erasmus Mundus ‘Gemma’ in Women’s and Gender Studies, è stato arrestato la scorsa settimana dalla polizia egiziana. Il 22 febbraio è stata fissata l’udienza in cui si deciderà per un suo eventuale rilascio.
In qualità di rappresentati degli studenti e delle studentesse dell’Università di Bologna lanciamo un appello a tutta la comunità dell’Alma Mater, alla cittadinanza e a tutti coloro che vogliono far sentire la propria vicinanza.
Lunedì 17 febbraio alle 18:00, ci ritroveremo davanti al Rettorato, in via Zamboni 33, per poi spostarci verso Piazza Maggiore. Per manifestare la nostra solidarietà a Patrick e chiedere con forza che i suoi diritti vengano rispettati e che possa tornare al più presto a frequentare le aule universitarie.”

Le righe qui sopra sono un copia incolla dall’evento Facebook che, appunto, il 17 febbraio invitava la comunità meticcia bolognese al corteo di solidarietà a Patrick Zaki. La partecipazione a livello numerico è stata buona, ma i toni del lungo serpente umano non hanno corrisposto alla presenza fisica. A esser sinceri sono stati un po’ mogi, poco convinti e convincenti. Arrivati in piazza Maggiore il problema più grosso è stato la dispersione acustica, che è culminata in un’intonazione pallida di Imagine, del buon Lennon. Non è durato molto il tutto, alla fine si è librato un coro moderatamente arrabbiato: PatrickLibero! ParickLibero! PatrickLibero!

Mentre di lunedì sera, rimbombava dal basso la libertà negata di Zaki, sotto una finestra del primo piano del palazzo comunale, spiccava ancora uno striscione appeso lì ormai da qualche anno: un pezzo di stoffa giallo, un po’ sbiadito, che chiede, urlando in grassetto “Verità per Giulio Regeni”.

Finito il corteo, io e un po’ di amici siamo passati a uno spritz molesto e riflessivo: Regeni, Zaki, quanti altri? La realtà dell’Egitto è complessa e insidiosa. Qualcuno mi chiede cosa ne penso, in particolare del fatto che Zaki non sia un cittadino italiano e, nonostante ciò, ci sia molto movimento. Non ricordo cosa rispondo con esattezza, ma tiriamo in ballo tutto: l’entità dei diritti umani, la loro violazione, la necessità di proteggerli, arriviamo alla questione Unibo e Zaki, Cambridge e Regeni.

Qualche settimana fa, prima che il caso Zaki esistesse, Pif è andato a riprendere la bici di Giulio Regeni a Cambridge e ne ha approfittato per sondare un po’ il terreno. Gli studenti dell’università inglese alla domanda «Do you know the story of Giulio Regeni?», rispondevano mediamente «No, I’m sorry». Agghiacciante, non vi pare? All’inizio c’era il suo nome su una bacheca, che adesso è vuota. C’era anche un memoriale, very small, in biblioteca, un piccolo tavolo con candele e un libro della commemorazione sopra: non c’è più nemmeno quello. Comunque esiste una Giulio Regeni Room e, in programma, erano fissati un paio di eventi commemorativi, uno organizzato da Amnesty e l’altro dall’università.

Stando a quanto detto da una studentessa italiana, che Pif ha incontrato casualmente a Cambridge e che conosceva Regeni, quella di Giulio «è una cosa molto controversa e loro [gli inglesi] il controverso tendono un po’ a nasconderlo». Pif, durante la trasferta, avrebbe voluto incontrare la professoressa che ha mandato Giulio Regeni in Egitto e che non ha aiutato la magistratura italiana nelle indagini. La professoressa Maha Mahfouz Abdel Rahman comunque non c’era e l’incontro non è stato possibile.

Il 9 febbraio, di domenica sera, c’è stato a Bologna in piazza Maggiore un primo presidio organizzato da Amnesty International e da Unibo. Poca gente in realtà, un cerchio di uno o due centinaia di persone, gli amici di Zaki e la sua professoressa. La promessa è stata: «Non ti lasceremo solo».

Gli spritz continuano ad arrivare, la chiacchiera procede e finiamo a parlare di tutti gli altri, tutti coloro che si trovano in condizioni simili a quelle di Zaki, che non hanno nome per noi, ma che certamente esistono e subiscono le conseguenze di una vita sotto dittatura.

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Eclissi di lune e di soli

Quando, il 17 febbraio, ho googlato sulla barra di ricerca “Patrick Zaki”, è venuta giù una cascata di notizie, mille articoli e innumerevoli aggiornamenti. Ad oggi, i comunicati risalgono mediamente a tre giorni fa, sono pochi ed è chiaro che l’attenzione mediatica si è spostata su altro.

M’era venuto in mente di ripercorrere la vicenda di Zaki dall’inizio, dal 7 febbraio, quando all’arrivo all’aereoporto de Il Cairo è stato sottoposto a diciassette ore di interrogatorio e torture, alle ultime notizie, che ci riferiscono un trasferimento alla prigione di Mansoura. Solo dopo una settimana i genitori hanno ottenuto il permesso di vederlo. Pare che Patrick stia bene anche se non ha la libertà di andare al bagno quando gli serve né di leggere i suoi libri. Ma non lo farò, non lo ritengo necessario quanto ricordare le accuse che pendono su Patrick: “diffusione di notizie false”, “incitamento alla protesta” e “istigazione alla violenza e ai crimini terroristici”.

Ha scritto dei post su Facebook e studia a Bologna, il corso di studi è “Women’s and Gender Studies”. Inoltre è gay: niente di grave a pensarci, eppure la dittatura è un luogo oscuro dove non è concesso a un individuo di essere.

Non so se avete presente quell’estratto da un telegiornale egiziano che ha girato per un po’, dove il presentatore si è soffermato sulla definizione di omosessuale. Mi sono chiesta se davvero fosse una cosa così lontana dalla coscienza comune la libertà sessuale, tanto da meritare una spiegazione live. Comunque, secondo Suleiman Wahdan, il vicepresidente del Parlamento egiziano, se Patrick avesse diffuso notizie false sull’Europa, questa avrebbe proceduto all’arresto, come è successo in Egitto. Anche questo io non creto. Cioè non avremmo più posto nelle carceri di qualunque stato europeo. Al di qua del mar Mediterraneo, nel bene e nel male, il diritto all’espressione esiste.

Non so bene quale sia l’intento di tutte queste parole che ho scritto. Potrebbe trattarsi delle perenni eclissi di urgenze mediatiche che si succedono: per cui prima c’era Patrick, oggi c’è il Coronavirus e domani chi lo sa. Potrebbe trattarsi anche della stortura insita nella nostra percezione dell’universo circostante, per cui le cose sembrano avere davvero valore finché sono in prima pagina.  Il trend e l’appeal delle notizie dovrebbero far riferimento non al numero di click, ma alla necessità di informare su fatti cogenti e attuali, di rendere il lettore/spettatore cosciente del suo intorno, fornendogli i dati necessari per trarre le giuste conclusioni.

Alla fine, però, in questa società perennemente immatura dove è difficile sapere cosa si farà da grandi anche quando grandi già si è, io cosa voglio lo so. Io voglio Patrick libero, governi giusti, cittadini coscienti e un’informazione che trasmetta le storture connaturate agli eventi, senza aggiungerne altre decidendo beceramente cosa sia degno e cosa no. Ma si sa, l’erba voglio cresce solo nel giardino del re.

Patrick Zaki ve lo ricordate? Un articolo di R. Dell’Ali || Threevial Pursuit

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