Parasite: smells like poor spirits
di Chiara Francioni

Parasite è l’ultima fatica di Bong Joon-hu, talentuoso cineasta sudcoreano già noto in occidente per la regia di Snowpiercer (forse il suo lavoro più conosciuto dal grande pubblico), e grazie al clamoroso successo guadagnato ha di fatto segnato la ribalta internazionale della cultura hallyu, oltre che un evidente miglioramento in fatto di gusto collettivo.
A ogni modo, di tutta l’aurea mistica che circonda questo gioiello della settima arte, devo però confessare che è stato il titolo a conquistare, per primo, l’inespugnabile fortezza del mio interesse: Parasite. Mi sono infatti domandata: chi sono i parassiti di cui vuol parlarci Bong Joon-hu?
Lo spaccato di realtà oggetto della satira sociale di cui andiamo discorrendo è quello della contemporanea Corea del Sud, terra non troppo distante dalla schizofrenica tirannide di Kim Jong-un e allo stesso tempo esempio di modernità e caccia sfrenata al progresso. Così, sullo sfondo di un tessuto sociale che ricorda molto quello occidentale, al punto da rendere tutto piuttosto familiare, assistiamo alla messa in scena di una macabra commedia, destinata a trasmutare in tragedia, attraversando in pratica tutti gli stadi della drammaturgia shakespeariana.
Tutto comincia all’interno di un seminterrato situato nel cuore avvizzito di un quartiere popolare. Qui vivono i Kim: famiglia composta da un padre e una madre ormai da tempo disoccupati e da due figli incapaci di avere la meglio sul rigido sistema di reclutamento universitario. Sono poveri, privi di mezzi di riscatto, ma carichi di risentimento per l’ingiustizia sociale di cui si sentono vittime. Ci spostiamo quindi sulla vetta di una bella collina, dove si erige la prestigiosa villa dei Park, gioiello dell’architettura moderna. Il capofamiglia è un ricco uomo d’affari che può agevolmente permettersi di mantenere la giovane e bella moglie nullafacente e i due figli, il più piccolo dei quali connotato da una traboccante vivacità infantile che preoccupa i genitori, spaventanti da qualsiasi comportamento possa definirsi “sopra le righe”.

In estrema sintesi: poveri, da un lato, e ricchi dall’altro, rappresentati in modo essenziale in quella che sembra essere l’anticamera di un’inevitabile lotta di classe. La contrapposizione tra le due fazioni viene esasperata anche grazie al simbolismo della geometria. I Kim, infatti, vivono sotto il livello del mare, mentre i Park lo dominano dall’alto. E allo stesso modo le abitazioni delle due famiglie ne raccontano lo status sociale: l’indigenza dei Kim è rappresentata da spazi stretti e consumati, mentre il benessere dei Park è reso evidente dalla loro villa open space, attraverso la quale i suoi abitanti possono dimostrare al mondo di apprezzare l’arte, a prescindere dell’effettiva conoscenza del suo linguaggio.
I poveri di questa storia non sono però dei disperati, sono invece animati da un forte spirito di rivalsa che riescono a tradurre in un arguto piano, ordito ai danni dei ricchi, grazie al quale finiscono per infiltrarsi nel loro tessuto domestico, facendosi tutti quanti assumere sotto mentite spoglie come collaboratori domestici dei Park. È quindi il momento della massima di comune esperienza, già sfruttata dagli autori sin dai tempi della commedia classica (il servus callidus plautino ti dice qualcosa?), secondo cui i poveri sono disgraziati ma scaltri e l’audacia di un buon piano risulta spesso essere più redditizia di soldoni sonanti.
È il piano il protagonista di questa fase della narrazione, in cui tutto fila liscio in favore dei Kim, che sanno sfruttare intelligentemente le fobie e le ossessioni della classe dirigente, come la preoccupazione per il giudizio altrui, l’ipocondria e l’ossessione per il controllo. All’estremo opposto della scaltrezza dei Kim, c’è invece l’eccessiva ingenuità dei Park, tipica di chi non ha mai dovuto davvero difendersi dal prossimo in vita propria. Significativa in tal senso è la scena in cui il piccolo di casa fa notare alla madre che tutti i nuovi collaboratori domestici hanno il medesimo odore, senza che la donna ne tragga alcuna indizio. Anche l’odore è un tema importante in questo contesto. Viene infatti più volte sottolineato che i poveri hanno un cattivo odore, proprio come chi prende la metropolitana (dirà a un certo punto il Signor Park).
Mi domando se, a questo punto, ci siano elementi sufficienti per provare a dare la risposta alla domanda di cui si diceva poc’anzi, che probabilmente adesso starà stressando anche le tue meningi: chi sono i “parasite” in questa storia?
Sono forse i poveri, incarnati dai Kim, che sottovalutano i ricchi definendoli superficiali e naif? E che, trovandosi arresi, cercano di trarre giovamento dall’altrui benessere? O sono i ricchi stessi, rappresentati dai Park, che mal sopportano i poveri, giudicandoli sguaiati e impregnati di cattivo odore? In definitiva, con il loro stile di vita, consumano le opportunità di riscatto dei disperati, costringendoli a stagnare in un perpetuo stato di indigenza.
Entrambe le risposte sono possibili, ma nessuna delle due mi sembra soddisfacente: troppo scontate e di certo questo aggettivo non si addice a Bong Joon-ho.
*** spoiler alert ***
Se non hai visto Parasite, potresti voler rimandare la lettura di questa seconda parte dell’articolo a dopo la visione. Se vuoi proseguire ugualmente, sei il benvenuto.

Da qui in poi la storia entra nel vivo e il precario equilibrio raggiunto dai Kim, irrimediabilmente destinato a crollare sin dalla sua genesi, inizia a vacillare quando gli astuti impostori scoprono che la casa in cui si sono infiltrati nasconde un oscuro segreto. Per scovarlo, i protagonisti dovranno scendere nuovamente in basso (la geometria che ritorna) e introdursi in uno spazio ancora più angusto del loro seminterrato: lo scantinato che l’architetto, in preda al terrore paranoico condiviso da molti connazionali e legato alla minaccia di un’imminente invasione militare, ha cautelativamente realizzato sotto le fondamenta della sua opera d’arte. All’interno vive un uomo, nascostosi lì anni prima nell’intento di sfuggire agli strozzini grazie all’aiuto della moglie, ossia la ex domestica dei Park, fatta ingiustamente licenziare proprio dai Kim nell’ambito del loro geniale piano.
In uno scenario di matrice marxista questo potrebbe assurgere a snodo fondamentale: il momento solenne in cui emerge, nella sua ineluttabile necessità, la volontà di rivoluzione, spingendo gli oppressi a unire le forze per sovvertire l’ordine sociale ed economico.
Eppure, nell’impianto narrativo di Parasite non accade niente di simile. Piuttosto, in seguito al ritorno della ex domestica, intenzionata, insieme al marito, a rivendicare la precaria sicurezza che la vita alle spalle dei Park aveva donato alla sua famiglia, la trama subisce un netto twist. Si assiste, infatti, a una inaspettata e sanguinaria guerra tra poveri, che avanza in un brutale susseguirsi di attacchi e controffensive senza che i ricchi ne abbiano mai effettiva contezza. L’obiettivo?Guadagnarsi il ruolo esclusivo di intruso, evitando che il proprio segreto venga rilevato ai Park. La tensione inizia a crescere, dando vita a un climax fatto di macabro sarcasmo, a tratti sconfinante nel grottesco, capace di strappare risatine ma anche qualche respiro.
Non si assiste, dunque, al profetizzato avvento dei prolet dell’epopea orwelliana, bensì alla degenerante espressione dell’istinto di sopravvivenza che porta i Kim a difendere, con le unghie e con i denti (e non solo) lo status fraudolentemente guadagnatosi. Una lotta che non può non comportare costi per entrambe entrambe le fazioni, e che darà il colpo di grazia al sofisticato piano architettato dai protagonisti. Sono proprio le parole che il padre impostore rivolge al figlio a farci capire quanto tutto questo sia tristemente vero.
“Sai qual è l’unico tipo di piano che non può fallire? Nessun piano … Se fai dei piani la vita non va mai nella direzione sperata. Se non lo fai, niente può andare storto”. [1]
Tutto è quindi dovuto, per lo più, al caso: i ricchi sono ricchi principalmente per contingenza, così come i poveri sono poveri per la stessa motivazione. Quest’ultimi sono infatti costretti, loro malgrado, a subire l’eterno ritorno della loro sventura, mettendo da parte il rancore verso i benestanti che, in fin dei conti, non necessariamente sono la vera causa della loro sofferenza. Una rabbia che finisce per essere sfogata verso chi è più facile da fronteggiare, ossia i propri simili.
Tuttavia, non sono i poveri i nostri parassiti, o almeno non lo sono più dei ricchi che sulle spalle dei poveri costruiscono ville imponenti. Pertanto il vero parassita di questa storia, talmente rilevante da guadagnarsi addirittura una menzione d’onore nel titolo, deve per forza essere un altro.

Il parassita non può che essere la deriva decadente del capitalismo. Tutto torna, in effetti, e non potrebbe essere più lampante (soprattutto se hai familiarità con la filmografia di Jong Boon-hu).
La lettura dell’ordine sociale che ha imperato tra le menti illuminate degli intellettuali a partire dalla fine del XVII secolo, basata proprio sul principio di contrapposizione tra classi emerso in tutto il suo splendore con la rivoluzione illuministica dei francesi, trova qui il suo collasso. Non ci sono più strategie volte al trionfo della giustizia sociale e alla massificazione del benessere, ma solo un basilare bisogno di sopravvivere. L’impeto che muove gli oppressi è quello dell’autoconservazione: l’assetato bisogno di prendersi quello che il destino, terribile demiurgo, ha negato loro, donandolo ai ricchi senza che questi abbiano fatto niente di speciale per meritare cotanta abbondanza.
Ma lo stesso concetto di povertà deve essere riletto: non miseria, bensì mancanza relativa di risorse. Quello stato che non è tipico delle popolazioni che abitano le zone più disagiate del pianeta, bensì di chi si trova, spesso suo malgrado, alla base della piramide sociale del nostro progredito mondo moderno: primi tra tutti i disoccupati.
La velenosa infezione innescata dall’estremizzazione dei capi saldi del capitalismo e della società consumistica, ha tragicamente riscritto il dna della lotta di classe. Le risorse a cui si aspira non sono più solo quelle necessarie a soddisfare i bisogni primari, ma anche e soprattutto quelle indispensabili per accaparrarsi i bisogni indotti. Il nemico, quindi, non è più solo chi di tali risorse ne ha in abbondanza, ma anche colui che, trovandosi nella medesima condizione di indigenza, si pone come pericoloso rivale nella corsa all’oro farlocco del XXI secolo.
Un parassita, la deriva capitalistica, che ha trasformato le menti e che continua a crescere, ben oltre quelli che sarebbero potuti esserne i naturali confini, e che rischia di trasformare la società nello stato di natura che Hobbes aveva invece contrapposto a essa. O almeno così sembra volerci dire Bong Joon-hu.
Triste? Sì. Evitabile? Mi auguro. Ma non è questa la sede per proporre strategie volte ad assicurare un’equa redistribuzione della ricchezza. Qui si parla di arte, di finzione, insomma. E infatti probabilmente ci fingiamo intellettuali, speculando sul significato profondo di un film. Certo è che se un messaggio deve passare è meglio che sia quello più edificante. Ad esempio non vorrei che di tutto questo pezzo vi arrivasse solo la considerazione che i poveri puzzano.
E, a proposito di messaggi, chiuderei con il più recente dei moniti lanciati da Bong Joon-ho che, di ritorno in patria dopo l’esperienza losangelina degli Oscar, ha salutato gli acclamanti giornalisti così.
“I’ll diligently wash my hands from now on and partecipate in this movement to defeat coronavirus”.
Sempre satirico, sempre sul pezzo, semplicemente geniale.
[1] Precisazione da snob: ho visto Parasite in lingua originale con i sottotitoli in inglese, pertanto il virgolettato è frutto di quella che oserei definire come la mia umile traduzione non letterale. Ma il senso è quello.