
PadreMmichela
di Roberta Dell’Ali
Illustrazione di Ilaria Affi
La memoria dell’uomo è labile, poiché sempre col tempo si sgualcisce, perde forza e vigore.
Già presso gli antichi, il più diffuso rimedio a questa tragica incapacità di tenere a mente gli eventi era stata la narrazione, nelle sue innumerevoli forme. Il genere che qui ci interessa è quello della ‘storia’, intesa come racconto, e ne abbiamo di ogni: eroi, dei, ninfe, centauri, mortali capacissimi o stupidissimi, imprese e guerre.
Si badi bene però che esiste una scala di valore nelle storie: chi non conosce la guerra di Troia? Chi non sa dei Mille di Garibaldi? Chi è lo sciagurato che non ricorda Barabba? Ecco, gli esempi fin qui nominati appartengono alla storia magna, quella che decide la cronologia umana e distingue cosa debba essere ricordato da cosa no. Così a delineare i contorni della macrovicenda degli uomini sono sicuramente le big stories, a crearne le sfumature sono invece le miliardi di piccole storie quotidianamente destinate all’oblio. Nei libri non c’è spazio per mortali qualsiasi, ma ce n’è, per fortuna, tra le vie dei paesi e tra le bocche dei vecchi in piazza che giocano a carte. Le chiacchiere delle anziane signore, poi, salveranno il mondo, ché d’estate, alla sera, si siedono ancora davanti alla porta e se cominciano a raccontar fatti non smettono più.
La storia che sta per essere qui raccontata viene proprio dalle bocche rugose e stanche del paese, dunque non è possibile verificare la veridicità di ogni suo elemento: è la storia di una donna nata in un luogo remoto alla fine dell’Ottocento, pare fosse chiamata PadreMmichela.
Sul suo aspetto non sono molti i dettagli, ma si narra che la sua faccia fosse «‘na Quaresima», con i peli dei baffi neri neri e gli occhietti piccoli, coperti da sopracciglia così folte che Frida Kahlo sarebbe sembrata glabra a confronto. In compenso però gira voce che il suo corpo, da giovane si intende, quindi prima che venisse deformato da un numero scandaloso e indefinito di gravidanze, fosse «‘na Pasqua». Era nata negli anni Ottanta del secolo XIX, ai bordi della piazza centrale di un paesino collocato in un angolo remotissimo della Terra, diventato unità cittadina solo agli inizi del Settecento, nonostante a poco meno di sessanta chilometri la civiltà fosse giunta e fiorita già nel VII secolo a.C.
Quando nacque PadreMmichela il paesino si sviluppava solo per qualche centinaio di metri proprio intorno alla piazza, un tondo di mattoncini quadrati e grigi con su qualche panchinella in ferro battuto: a nord stavano le casette dei borghesucci, notai, dottori e farmacisti, che c’avevano anche la casa al mare e i poderi a timparossa; sul versante sud non c’era niente, forse qualche capanna malfatta, poi una infinita distesa di campagna, dunque aranci e limoni, tanti ulivi e mandorli, lunghissimi serpenti di muretti a secco e infine l’abbraccio del mare. Piccole scatole di blocchetti rossi, a volte intonacati, separavano la campagna e i suoi padroni, in quelle casette modeste e fatiscenti abitava «la gentuzza», ossia quel ceto sociale che forse oggi definiremmo ‘proletariato’. Proprio in una di quelle casupole viveva PadreMmichela, che solo alla veneranda età di quindici anni prese marito: rischiava di rimanere signurina con quello sciagurato caratteraccio e quella forza maschia che c’avevano le sue braccia. Si dice che riuscisse a portare sulla testa fino a dodici litri d’acqua e che c’avesse le gambe grosse di muscoli massicci, cosicché correva velocissima. Inoltre, come seccava lei i pomodori, non li seccava nessuno.
Un giorno, a casa sua, era venuto il «Don Pippuzzo che ci abitava davanti» per fare una proposta a Don Masino, il padre di PadreMmichela. Il figlio di Don Pippuzzo, Antonio, bello bello ma scemo scemo, doveva maritarsi o si sarebbe pensato che era «quaquaraquà, o peggio ‘n pigliainculo», e, poiché lui non era cosa di fare lavori di uomo, il matrimonio tra i due avrebbe salvato la reputazione di entrambe le famiglie. Don Masino, vide la luce e non ci pensò un attimo: i due si sarebbero sposati entro il mese, ché la figlia aveva il corredo pronto già da due estati. PadreMmichela pare non fosse troppo dispiaciuta: Antonio era bello come il sole, c’aveva il viso fino e mai l’avrebbe fatta schiava o trattata da misera sfornabambini, che quello in fondo era essere moglie a quei tempi.
Antonio e PadreMmichela di bimbi ne sfornarono parecchi, più di quanti entrambi si sarebbero aspettati quel giorno di agosto in chiesa, lui col viso che pareva quello di una statua antica e lei con i baffi pettinati e un pizzo grezzo ottocentesco buttato su quelle liane di capelli. I primi anni di matrimonio furono buoni, i bambini venivano giusti, uno ogni dieci o undici mesi, nella casa avevano messo anche le finestre buone, la campagna fruttava e la pioggia benediceva. Tutto andava a gonfie vele con la grazia del Signore, finché, di botto, l’abbondanza finì e le cose cominciarono ad andare male: PadreMmichela era di nuovo incinta e anche l’Etna s’era messa di lena a scuotere la terra senza ritegno alcuno. Era l’inizio del secolo XX e Antonio decise di partire per Panama, lì c’era suo fratello «Saro che ci poteva trovare il lavoro per due mesi e prestarci qualche soldo»: aveva promesso che sarebbe tornato almeno «un mese prima che PadreMmichela sgravava».
Passarono sette mesi, Antonio ancora non tornava, tutte le amiche e comari dicevano a PadreMmichela di stare tranquilla, ricordandole che i piani del Signore sono imperscrutabili, che c’aveva tanti figli e non si doveva preoccupare, che le mani per la campagna non mancavano e che Antonio, bravo ragazzo, non era scappato, ma sicuramente se l’era mangiato il mare. Il fatto era però che PadreMmichela non lo sentiva morto il suo bell’Antonio, ma le sembrava piuttosto che fosse solo un gran vastaso: così, per togliersi il dubbio, partì per Panama, «sola e incinta grossa».
Qui i dettagli della vicenda diventano praticamente nulli e gli accadimenti di Panama sono nebulosi. Quel che però la più vecchia del paese racconta è che PadreMmichela fece ritorno qualche mese dopo, un giorno caldissimo d’inizio estate, con il piccolo Emilio appeso sul petto, avvolto in una bellissima stoffa straniera, e Antonio agganciato a una mano.
Poco altro si sa della vita di PadreMmichela, se non del giorno in cui morì. Dicono che lei e la figlia sua grande, Santa, fossero di ritorno dal fiume, l’una con l’anfora grossa sulla testa e l’altra col cesto carico di finocchietto selvatico fresco, e che facesse molto molto caldo. Era scoppiato un incendio nella strada più grossa del paese e un signore (o una signora, davvero non saprei dirlo) era andato a fuoco pure lui, così, spegnendo l’incendio e salvando l’infuocato per strada, morì PadreMmichela: tanto forte da meritarsi l’appellativo “Padre”, tanto donna da poter tenere pure il nome suo, Michela.
bellissimo racconto!