Three Faces

La terza faccia della medaglia

Our Farewell, un racconto di A. Del Debbio || Street Stories


Our farewell, un racconto di Alessio Del Debbio Three Faces INTOUR FAREWELL

di Alessio Del Debbio

Illustrazione di Marco Brucio Degl’Innocenti

 
Ley si tuffò nell’acqua appena in tempo, ma i suoi fratelli non furono altrettanto veloci. Li sentì urlare e invocare l’aiuto del Signore dei Mari, poi i loro corpi sprofondarono nelle praterie di posidonia che circondavano l’isola, trafitti dalle frecce infuocate degli invasori. Ley nuotò tra le piante imbrattate di sangue, afferrò la mano del compagno più vicino e gli chiuse gli occhi sbarrati dal terrore, e forse dalla consapevolezza di essere rimasti soli. Capiva quel sentimento, ribolliva dentro di lei da quando l’attacco era iniziato e nessuno era giunto in loro soccorso.

Scilla e Cariddi avevano affondato decine di navi nemiche, ma quando avevano compreso che Poseidone non sarebbe intervenuto, erano scomparsi tra i flutti, assieme alle misere speranze di vittoria degli Oceanini.

– Questa non è la nostra guerra – Si erano giustificati così, tornando alla loro terra natia, senza capire che quella guerra riguardava tutto il popolo dei mari, non soltanto coloro che dimoravano sulla Tirrenide.

Un tonfo improvviso rubò Ley a tristi pensieri, un altro corpo si inabissò accanto a lei. Non si voltò, per non vedere chi altro aveva perduto. Lasciò la mano del fratello e lo affidò alla pace delle correnti, poi si decise a reagire. Scese in profondità, dove le frecce dei terrestri non potevano arrivare, e radunò tutti gli Oceanini che incontrò. Nascosti negli anfratti rocciosi sotto l’isola o dietro mucchi di sabbia, attendevano impauriti che quella follia avesse fine, ma sperare non sarebbe bastato. Non quella volta.

L’aveva visto, nello sguardo deciso dell’Imperatore degli uomini, ritto sulla prua della nave ammiraglia, e in quello terrorizzato di sua madre, consapevole di aver fallito. Quella non era una spedizione come le altre, una delle tante schermaglie che avevano opposto i due popoli del Mare di Mezzo negli ultimi mille anni. Quella era una guerra di conquista e sarebbe terminata soltanto con la distruzione dell’altro.

– Ascoltatemi, fratelli! So che siete impauriti, tutti lo siamo, ma il nostro popolo ha bisogno di noi – disse, sperando di far leva sul senso di comunità degli Oceanini. – Aiutatemi, cacciamo l’invasore dalla nostra terra! Possiamo ribaltare le sorti del conflitto –

– No, non possiamo – le rispose un anziano Oceanino.

– Ma sì, Tritone. Attacchiamo la nave dell’Imperatore! Possiamo farlo prigioniero –

– Sei giovane e sciocca, Ley, come tua madre che credeva possibile una pace con i terrestri. E oggi tutti paghiamo il prezzo della sua ingenuità –

– Hai proposte migliori? –

– Migliori? Qualunque anfratto è meglio che andare a morire fuori dall’acqua –

– Ma la Tirrenide è la nostra casa! –

– Rinuncia, giovane Ley. Il nostro tempo è scaduto. L’Atlantide che rifondammo ormai sprofonda nell’oblio, assieme ai nostri sogni di pace – Tritone non disse altro e scomparve nell’oscurità degli abissi assieme agli altri Oceanini.

Ley sospirò di fronte alla diaspora del suo popolo; ben lontani erano i giorni in cui imperavano per tutto il Mare di Mezzo, incutendo timore ai naviganti. Era seduta proprio tra le braccia di Tritone, su uno scoglio rivolto a oriente, quando aveva visto una nave dei terrestri per la prima volta. Fendeva le acque attorno alla Tirrenide, incurante dei canti ammaliatori delle sue sorelle. A Ley era sembrata un drago sorto dalle acque, lo stesso mostro che adornava le maestose tele gialle dell’imbarcazione. Il suo mentore l’aveva definita il simbolo della casa di Svevia, quella che adesso guidava molti regni degli uomini. Ley non aveva capito granché dei loro costumi, ma quel marchio le era rimasto in mente e poche ore prima l’aveva visto sventolare di nuovo. Sulle bandiere delle navi, sulla pelle corazzata dei soldati, sul mantello dell’Imperatore degli uomini.

Strinse le mani a pugno e prese a nuotare verso l’alto, spinta dalla rabbia. La vedeva bene, proprio sopra di sé, la barchetta su cui i terrestri erano ritti a scagliare le loro frecce di fuoco. Forse Tritone aveva ragione, non poteva mutare le sorti della guerra, ma quella maledetta cassa di legno l’avrebbe ribaltata, poi si sarebbe divertita con i corpi dei malcapitati che le sarebbero caduti tra le braccia. Un ultimo colpo di pinne e se la trovò sulla testa, a chiuderle lo spazio, a impedirle di vedere il cielo. Sollevò le braccia e prese a spingerla, ma era troppo pesante e riuscì soltanto a smuoverla un po’.

Voci concitate la distrassero, lunghe aste di metallo dilaniarono l’acqua attorno, di certo impugnate dai pavidi che ne temevano i segreti. Oh, quanto avrebbe voluto che Cariddi fosse al suo fianco, così li avrebbe fatti ballare con il suo vortice. Lei invece di forza non ne aveva, poté solo schiacciarsi contro il fondo della barca, per schivare gli affondi, ma una lama la raggiunse a un braccio, strappandole un grido. Perse la presa e scivolò in profondità, lasciandosi dietro una scia di sangue azzurrognolo. L’arto le doleva e temeva che presto l’avrebbe perso.

Sapeva come combattevano i terrestri, con il fuoco e col veleno, con l’inganno e la tortura. Aveva visto i corpi mutilati delle sirene sue sorelle, le ali strappate via, come se le bestie di Scilla c’avessero giocato. Troppi cadaveri aveva ritrovato sulle coste sabbiose o nelle lagune in cui si era spinta assieme ai fratelli, incuriositi, persino attratti, dalla strana razza che viveva sulla terraferma. Forse Tritone aveva ragione, forse la pace era un’utopia, eppure sua madre ci aveva creduto e si era battuta per dare un futuro agli Oceanini. Cosa era rimasto dei suoi insegnamenti?

Quando ritenne di essersi allontanata a sufficienza, iniziò a salire, sforzandosi di rimanere lucida. Si ritrovò dietro la carcassa di una nave abbandonata, l’acqua che stava riempiendo le falle, la corrente che portava via i corpi dei caduti. Terrestri e marini. Umani e Oceanini. Ecco cosa sarebbe rimasto del loro mondo. Tutt’attorno risuonavano le grida dell’invasore, mentre la Tirrenide si spaccava, distrutta dalle fiamme e dalla paura della diversità. Non era per tale motivo che l’Imperatore degli uomini aveva riunito quella grande armata? Per combattere ciò che non comprendevano?

Uno scricchiolio la raggiunse. Un riflesso scintillò sull’acqua. Si voltò e vide un soldato che si teneva al corrimano, l’altra mano stretta a una lancia dalla punta insanguinata. La sollevò e fece per tirargliela, quando un’agile figura balzò fuori dal mare e lo atterrò. Ruzzolarono sul ponte, con lui che scalciava e tentava di agguantarla e lei che lesta guizzava via.

– Madre! – gridò Ley.

– Fuggi, piccola mia! –

– Vieni con me! –

La signora degli Oceanini sorrise, poi affondò i denti nel collo del soldato, facendolo stramazzare sul ponte. A fatica raggiunse la figlia, notando subito la ferita al braccio.

– Sei infetta. Dobbiamo estrarre il veleno. Chissà quali erbe venefiche avranno usato. Con una mano gli uomini ci proponevano un trattato di pace, con l’altra già impugnavano le armi –

– Non c’è tempo, madre. Dobbiamo andare, trovare un riparo –

– Lo faremo. Starai bene, te lo prometto – annuì lei, afferrandole il braccio. Lo avvicinò alla bocca e prese a succhiar via il veleno.

– Madre, che fai? No, smettila! È pericoloso – Ma per quanto provasse, Ley non riuscì a divincolarsi, finché sua madre non la lasciò libera.

– Ecco… ora sei salva – mormorò. In quella, una punta di lancia le spuntò dal petto, ferendo anche Ley e spingendola indietro. Alle sue spalle il soldato si accasciò sulla nave che sprofondava.

– Madre! –

– Va’, piccola mia! Trova un posto dove ricominciare. Un posto da chiamare casa –

Ley esitò, incapace di abbandonarla, ma l’altra la spinse via, lasciando che il riflusso delle correnti la trascinasse negli abissi. Allora nuotò, tra le rovine del mondo, tra le fiamme che non avrebbero mondato tutto quell’orrore. Lasciò il mare e risalì un fiume, si perse nei suoi affluenti, ristagnò in un lago, poi riprese ad avanzare senza meta, sorretta soltanto dalla volontà di rispettare la promessa. Nuotò finché ebbe forze, poi si abbandonò alle correnti.

Al risveglio, giaceva su una spiaggia rocciosa, il corpo ferito e sanguinante. Attorno a lei una bruma avvolgeva il mondo, simile a quella che al mattino solleticava i campi di posidonia attorno all’isola natia, ma le bastarono i suoni e gli odori per capire che era nel regno degli uomini, la Tirrenide era ormai un ricordo lontano. Levò lo sguardo e là, in alto, vide una rupe stagliarsi fino a sfidare il sole. Si arrampicò sulla parete di roccia, cadendo e riprovando, finché non la raggiunse e poté ammirare la gola del fiume in cui si trovava. La terra in cui sarebbe stata prigioniera a vita.

Sospirò e pianse, poi pensò che sua madre non avrebbe voluto vederla così. Era l’ultima degli Oceanini e la sua voce non doveva scomparire. L’avrebbe conservata, per cantare la sua rabbia e il suo dolore, ne avrebbe fatto un’arma e un giorno avrebbe avuto la sua vendetta. Un giorno i terrestri avrebbero conosciuto il canto di Lorelei, la signora del Reno.

Our Farewell è un racconto di Alessio Del Debbio tratto da StreetBook Magazine #4

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