Nuove piume
di Chiara Francioni
Illustrazione di Irene Meniconi
La prima cosa che vidi di Matilde furono le sue spalle.
Ipnotizzato dalla linea del collo, scivolai giù attraverso le scapole e incontrai il pavone. Il maestoso uccello d’inchiostro mi fissava con quel suo occhio rotondo dalla pupilla nera. L’iride rosa spiccava tra l’azzurro e il blu del muso elegante, mentre il becco appuntito attraversava un fiume di lentiggini. Per un istante fu come se nella fabbrica dismessa, che era diventata la nostra base, non ci fossimo che noi: io, Matilde e il suo pavone. Poi un applauso scrosciante interruppe il sogno. Il nostro capo aveva finito di parlare e le ovazioni non si erano fatte attendere. Mi unii al coro senza neanche riflettere. «A morte il tiranno!» gridai. Matilde si voltò e vedendomi sbraitare mi sorrise.
«Ti ricordi le elezioni?» mi chiese durante la nostra prima conversazione.
«Sì, le ricordo». Era stato un plebiscito: le masse avevano consegnato il paese a chi aveva saputo sfruttare la loro insoddisfazione. «Dopo un po’ i miei genitori mi dissero che non dovevo parlare delle nostre idee politiche». In seguito a un presunto attacco militare, il parlamento concesse pieni poteri al primo ministro. Lui non tardò a usare l’esercito per restituire al popolo il favore e da leader di partito si trasformò nel nostro tiranno: il Moderatore. Noi, invece, divenimmo prima degli oppressi e poi la resistenza.
«I miei non hanno mai smesso di dire come la pensavano» replicò lei «e sono stati…»
Uccisi. La morte era ciò che spettava ai dissidenti.
«Tu perché sei entrato a far parte del Fronte?» Stavolta fui io a esitare. «Io» continuò lei riempiendo il mio silenzio «l’ho fatto perché credo ci sia ancora speranza».
In quel momento la invidiai: era una sorta di esemplare di altri tempi, di quando avevamo ancora delle emozioni da proteggere. Ma che risposta potevo darle? Mi ero unito al Fronte solo per seguire mio fratello.
«Posso fartela io, una domanda?» tentai di sviare la conversazione. «Perché proprio il pavone?»
«Perché è bellissimo».
Non era una vera risposta. Però pensai che anche lei era bellissima, e prima o poi glielo avrei detto.
La resistenza non era solo guerriglia. Ci impegnavamo anche a mantenere viva la cultura. Chi aveva studiato nelle vecchie università, o chi semplicemente era bravo in qualcosa, insegnava agli altri. Matilde, ad esempio, condivideva la sua arte; io invece, che ero mediocre un po’ in tutto, mi limitavo a servire il Fronte come soldato.
Una volta mi chiese se volessi imparare a dipingere. «Quando tutto sarà finito» mi disse «saper assemblare armi non ti servirà. Dovrai pur saper fare altro».
Non credevo, come lei, che saremmo tornati a vivere in un mondo pacifico, ma non volli deluderla, così la seguii in una vecchia cella frigorifera di cui stava affrescando le pareti. Mi porse un pennello e le restituii uno sguardo perplesso, ma lei sorrise e per me fu sufficiente. Lasciai che mi afferrasse la mano e che mi guidasse. Scivolando sull’intonaco vergine tracciammo una linea rossa, come tutto il sangue che avevo visto versare. Passammo poi al giallo, al bianco e al blu. Mi condusse come se non avessi una volontà mia. Era piacevole: sentivo le sue mani morbide contro le mie, consumate da ore passate ad assemblare artiglieria.
«Sei stato bravo» sentenziò ammirando il tramonto che in realtà aveva dipinto lei. «Vorrei tanto vederne uno vero insieme a te, magari in riva al mare». Sentii il bisogno di abbracciarla, ma non mossi un muscolo. Ci fu un attimo di silenzio, poi lei si voltò e, senza che potessi prevederlo, mi baciò. Lì, davanti a quel tramonto.
“Chissà perché proprio un pavone?” pensai mentre mi abbandonavo a lei.
L’obiettivo della missione era l’Archivio di Stato, centro di raccolta delle menzogne del regime. L’avevamo pianificata per mesi, ma fu un fallimento: costretti alla fuga dal fuoco nemico. Un colpo andò a segno e rovinai a terra, incapace di vedere a causa del dolore che aveva spento tutto. Per fortuna i miei compagni mi avevano recuperato prima che mi catturassero. Avevo passato due giorni steso a letto, in quello che era diventato il nostro ospedale, e lei non era mai venuta a trovarmi. In un mondo normale un uomo avrebbe temuto di essere stato abbandonato, ma nel nostro mondo si pensa ad altro: alla morte, per esempio. Avevo chiesto notizie al tizio che mi curava, ma lui diceva di non sapere nulla. Quando infine mio fratello venne a prendermi per riportarmi agli alloggi lo obbligai a parlare: «È morta, vero?» Indugiò un istante che per me fu un’era.
«L’hanno catturata. Quando sei rimasto a terra lei ha fatto da esca per permetterci di salvarti».
I pensieri iniziarono a vorticare come banderuole violentate dal vento. Matilde che sorride, Matilde che mi bacia, Matilde che rischia tutto per salvarmi.
«Avete già pianificato la missione di recupero, vero!?»
«Non c’è tempo, la giustizieranno stasera. Sarà un’esecuzione esemplare».
“Esecuzione. Che parola arrogante!” pensai. Nessuno dovrebbe decidere della vita degli altri. Eppure quei porci l’avrebbero processata pubblicamente, dipingendola come un mostro senza permetterle di difendersi, e poi l’avrebbero impiccata davanti agli occhi di centinaia di fanatici. Sentii la rabbia risvegliarsi, ma fu subito sopraffatta, come me, dalla disperazione.
È buio ed è freddo. Le tenebre mi nascondono mentre mi sporgo di soppiatto dalla finestra del palazzo in cui mi sono intrufolato. Sono così convinti della loro superiorità e della nostra debolezza che neanche si preoccupano di sorvegliare la piazza a quest’ora della notte. O forse mi lasciano fare, così quando avrò commesso il mio crimine avranno un altro sudicio eversivo da giustiziare.
Rievoco Matilde, accogliendo il dolore di quel ricordo come se servisse ad espiare le mie colpe. Eravamo a letto, ancora abbracciati.
«Me lo devi dire, perché proprio il pavone?»
«Temi che sia una signorina vanitosa?»
Mi scappò una risata; solo quando ero con lei riuscivo a ridere.
«La vanità non c’entra niente. Nel Medioevo era considerato simbolo di rinascita e di vita eterna perché la sua carne non marciva e si credeva che perdesse le piume della coda in autunno per metterne di nuove in primavera… e non morire è proprio quello che dobbiamo fare!»
Quella era una vera risposta.
Fisso l’estremità dello striscione al metallo freddo della grondaia e lascio che il suo corpo morbido si srotoli lungo la parete in una danza di stoffa e vento, rivelando al mondo il mio primo grande dipinto. L’ho realizzato con i suoi colori, che ho tenuto per me come fossero stati un suo lascito, e mettendo in pratica i suoi insegnamenti. Il muso del pavone è ora ben visibile: l’iride rosea, le piume sgargianti e il becco appuntito. Sopra la sua testa campeggia una frase che ho scritto pensando a quel futuro in cui lei credeva: non moriremo mai.
Matilde ha perso le sue piume, ma io ne ho messe di nuove. Non esiterò e gliela farò vedere a quel cazzo di Moderatore. Mi riprenderò il mondo che volevi, Matilde. E guarderò il tramonto in riva al mare anche per te.
Nuove Piume è un racconto di Chiara Francioni tratto da StreetBook Magazine #10
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