Three Faces

La terza faccia della medaglia

Nove anni dopo || Intervista a Wu Ming 2 di Andrea Biagioni


Nel novembre 2014, StreetBook Magazine di fatto non esisteva o, per meglio dire, era ancora in fase embrionale. Nessuno allora poteva immaginare che ci saremmo ritrovati qui più di nove anni dopo, con alle spalle qualcosa come 34 pubblicazioni targate StreetBook, tra numeri ufficiali e non ufficiali. A essere onesti in quel novembre 2014, un po’ per fattori esterni e un po’ per legittima inesperienza, addirittura sembrava piuttosto complicato anche solo riuscire a realizzare il primo numero di StreetBoook, che uscì poi nel marzo del 2015. L’incoscienza però ha degli enormi vantaggi, uno su tutti quello di non preoccuparsi delle conseguenze e soprattutto di ricevere un “No” come risposta. E fu così che una rivista di fatto inesistente, che neppure si sapeva quando avrebbe visto effettivamente la luce, ottenne (confidando unicamente nelle affinità elettive) un’intervista con uno dei più importanti collettivi letterari della nostra epoca, ma da sempre sensibile a sostenere le nuove realtà (contro)culturali indipendenti, ovvero Wu Ming. Da quella prima, memorabile intervista se ne sono succedute tante altre, alcune altrettanto memorabili, ma quella realizzata da Lorenzo Frittelli e Andrea Federigi a Wu Ming 2 (aka Gianluca Cattabriga) e Wu Ming 5 (aka Riccardo Pedrini) nel novembre 2014, ha sempre avuto un posto speciale nella nostra storia. Quindi, nel numero che ne sancisce la fine, ci è sembrato normale concludere il nostro viaggio, ospitando nuovamente su queste ultime pagine Wu Ming 2. Un modo per capire come è cambiato il mondo intorno a noi in questi nove anni e per dare una degna chiusura a questa splendida avventura chiamata StreetBook Magazine.

Andrea Biagioni: Rileggendo l’intervista di nove anni fa, sono rimasto particolarmente colpito dalla tua analisi sul ruolo della letteratura nell’epoca contemporanea, ovvero nell’epoca dei social e dell’immagine. In quell’analisi spiegavi come, in una società portata a inondarci con un flusso continuo e inarrestabile di informazioni, la letteratura svolgesse un ruolo fondamentale nel frenare quel flusso, creando una sorta di lago che consentisse di far decantare le informazioni per renderle più comprensibili. In questi nove anni, il mondo è cambiato moltissimo, il flusso è diventato forse ancora più veloce, più difficile da contenere e l’impressione è che la letteratura stessa ne sia rimasta travolta, sia entrata a far parte di certe dinamiche, soprattutto per quanto riguarda il suo rapporto con i social. Credi che oggi riesca ancora a svolgere quel ruolo di contenimento o è in crisi anche sotto questo punto vista?

Wu Ming 2: Allora, la crisi sicuramente c’è. Non tanto per il fatto che la letteratura si stia adeguando o meno alla velocità dei social, anche perché molto spesso, quando lo fa, finisce per non essere più letteratura, ma per essere parola, per essere discorso, per essere quindi un’altra cosa. Dunque non vedo tanto questo rischio, anche se ovviamente esiste. Piuttosto, credo che creare questo lago dove far decantare le acque sia diventato sempre più difficile. Le acque sono talmente impetuose, talmente è grande la portata dei fiumi che arrivano verso quel lago, che spesso il lago stesso tracima e, soprattutto, ho l’impressione che le persone facciano sempre più fatica a fermarsi in riva al lago. Però il lago c’è, la letteratura esiste e offre ancora l’opportunità di forme di pensiero differente: non dico migliore, non dico più alto, perché questo non l’ho mai pensato, ma c’è un modo in cui il nostro cervello funziona, mentre leggiamo un romanzo e mentre ci immergiamo dentro una storia, che non ci offre nessun’altra esperienza. Rinunciando a quel tipo di lettura, noi rinunciamo a un’esperienza che, in qualche modo, fa parte della nostra cultura. Mi pare che le persone siano sempre meno capaci di affrontarla quell’esperienza, perché per far sì che un libro ti offra questo rallentamento devi anche dargli del tempo, devi accordargli una certa attenzione. Per leggere un romanzo e per entrare in quello stato di coscienza diverso da quello normale che ti dà la lettura, almeno una mezzora ti ci vuole, ovvero quando sei lì che leggi da una mezz’ora, a un certo punto succede che ti trovi dentro la storia in una maniera che non sperimenti con un film o con una serie: magari la sperimenti in un altro modo, ma non in quel modo. Quindi, se non gli concedi quel tempo di attenzione, allora quell’effetto non arriva e di conseguenza non hai poi la motivazione per provarci ancora, perché alla fine è quell’effetto che ti cattura della narrativa. Ecco, secondo me, questo è oggi una delle principali difficoltà a cui va incontro la letteratura. Sempre meno persone fanno esperienza di quello stato di coscienza diverso che essa offre, quindi sempre meno persone sono poi disposte a investire un po’ di tempo nella possibilità di entrare in un mondo letterario. Questo sicuramente è un problema, o meglio, per chi nella letteratura crede, per chi nella sua funzione crede, è un problema da porsi, ma da porsi in maniera anche molto laica, diciamo, nel senso che è doveroso chiedersi a un certo punto se non sia più utile tentare anche altre strade per raccontare delle storie. Per questo, un obiettivo che noi come collettivo abbiamo sempre avuto è stato quello di raccontare appunto con ogni mezzo necessario. Le storie possono passare attraverso tanti strumenti, non per forza da un libro. Io stesso faccio reading, faccio musica, faccio spettacoli col circo, quindi le storie hanno tanti canali per diffondersi e per fare il loro lavoro. Però il modo in cui le diffonde la letteratura è un modo peculiare che, se lo perdiamo, perdiamo una parte di biodiversità. È come quando si estingue un animale, una specie. Una volta che hai estinto le tigri, basta, le tigri non ci sono più. Poi ci sono tanti altri bellissimi animali, però le tigri non ci sono più. Ecco in questo momento il romanzo, la letteratura è un po’ una specie a rischio.

AB: Senza contare che l’epoca in cui viviamo è caratterizzata da un drastico calo della capacità di concentrazione, quindi diventa necessario sperimentare altre forme per alzare il livello d’attenzione, anche per evitare il rischio che diminuiscano le narrazioni e qui mi ricollego a un altro aspetto che era stato affrontato in quell’intervista, ovvero la “narrazione tossica”. Allora parlavi della necessità di moltiplicare le narrazioni, perché è il modo migliore di reagire alle narrazioni tossiche che il potere ci propone come uniche con il solo scopo di plagiarci. Anche in questo caso sembra che il livello d’intossicazione si sia notevolmente alzato. C’è sempre meno spazio per l’analisi, per far appunto decantare le informazioni e sempre più spazio per narrazioni propagandistiche, quindi affette da “tifo di parte”. Secondo te siamo arrivati al livello di guardia? C’è un modo per abbassarlo?

WM2:Su questo aspetto sono più ottimista, perché le storie hanno tanti canali, tante forme per diffondersi e sono molto brave a farlo, sono molto brave a colonizzare i cervelli umani. Ovviamente, questo lo fanno sia le buone storie che le storie tossiche. Però “intossicazione” non vuol dire per forza di cose “riduzione della diversità”. Quindi, credo ancora nella possibilità di rispondere moltiplicando le storie genuine, le storie che funzionano, le storie che provano a ribaltare i punti di vista e a proporre una nuova inquadratura. Insomma, è la narrazione unica quella che va combattuta. In questo, la letteratura ci può mettere del suo e può tornare utile, perché il rischio appunto è quello che le narrazioni si ripetano uguali a sé stesse e questo rischio è presente anche per le narrazioni che ci trasmettono delle idee importanti, che ci trasmettono delle verità. Penso alla famosa frase di Goebbels che diceva, in sostanza, prendi una falsità, ripetila mille volte e ti sembrerà vera. Funziona anche al contrario, cioè prendi una verità nella quale credi, ripetila mille volte con le stesse parole, nello stesso modo, con lo stesso schema e ti suonerà falsa, ti suonerà banale. È quello che accade in coincidenza di certe cerimonie, di certe ricorrenze, di certi momenti celebrativi, durante i quali senti ridire le stesse cose, sempre con le stesse parole, tanto che alla fine ti suonano premasticate e quindi ti suonano false, o quantomeno banali.

TF: Depotenziate, insomma, di quello che è il loro valore originario.

WM2: È uno dei problemi dell’antifascismo, per esempio. Un certo antifascismo istituzionale si presenta sempre con le stesse parole, sempre con gli stessi rituali, sempre nello stesso maniera e, alla fine, la sua capacità di dire qualcosa a chi se l’è sentito ripetere tante volte chiaramente diminuisce. Qui la letteratura può dare una mano, come dicevo, perché la letteratura è dire le cose con parole nuove e quindi può svolgere un grosso servizio alla narrazione, soprattutto in favore di una narrazione genuina perché, cambiando le parole e cambiando le strutture narrative, può aiutarla proprio a distinguersi dalla narrazione tossica, che invece è molto ripetitiva e oggi, purtroppo, molte storie sono figlie di uno stampino. Ne funziona una e allora ne vengono prodotte altre cinquanta con lo stesso meccanismo, perché quella funziona. Questo è un altro aspetto pericoloso che potremmo chiamare “l’algoritmo”, però fortunatamente credo che non si arriverà mai al punto in cui tutto è già stato raccontato in tutti i modi possibili. Ci sarà sempre un modo per raccontare altrimenti, ci sarà sempre un modo per dire le cose con altre parole e quindi ho fiducia nelle storie e nella loro capacità di mostrarci altri mondi, di farci vedere ciò che di solito non vediamo e ciò che di solito “disvediamo”, ciò a cui non siamo abituati a fare attenzione. Spesso una storia serve a creare la cornice, l’inquadratura giusta per far risaltare un dettaglio che invece di solito non siamo capaci di notare. Penso che per la narrativa funzioni ancora così, che il proliferare di storie tossiche e di false notizie non diminuirà e sarà sempre un problema, ma non diminuirà neppure questa capacità delle storie di moltiplicarsi.

AB: Moltiplicare le storie, le narrazioni e farlo con ogni mezzo possibile, come spiegavi, è un po’ quello che avete sempre fatto e che avete continuato a fare in questi nove anni, sia individualmente che collettivamente con i vari progetti legati alla Wu Ming Foundation, e quindi Giap, Wu Ming Contingent, Wu Ming Lab e così via. Nel frattempo avete pubblicato, oltre che romanzi solisti, anche due romanzi collettivi,Proletkultnel 2018 eUfo 78nel 2022, nel quale per la prima volta immergete una vostra trama in un periodo storico a cui siete molto legati, ovvero l’Italia degli anni ’70. Come mai questa scelta proprio in questo momento storico?

WM2:Allora, il motivo in realtà non te lo so dire, nel senso che le idee arrivano e quando contagiano tutti e tre insieme, sentiamo che sono le idee giuste per scrivere un romanzo collettivo. Probabilmente, è vero quello che ci ha detto qualcuno, perché spesso certi motivi li scopre chi legge, non chi scrive. Qualcuno ha detto che, in fondo, noi ci siamo sempre confrontati con l’eredità degli anni ’70 in tutti i nostri scritti, in tutti i nostri romanzi. Il nostro stesso modo di fare letteratura, di fare arte collettivamente è in effetti molto figlio di quel periodo storico ed è invece quasi fuori dal tempo in questo periodo storico. Ha un sapore un po’ vetero per certi versi, ecco. Quindi, molti ci dicono e ci hanno detto riferendosi già agli altri romanzi, come nell’affrontare il tema della rivolta, della rivoluzione, dei mondi possibili che vengono cancellati dai mondi che invece si realizzano, tutto sommato, si sentiva che affrontavamo quel periodo storico in metafora, traslandolo in un altro periodo per non affrontarlo direttamente. In certo senso, non lo abbiamo fatto neanche in questo romanzo, perché è vero che è ambientato nel ’78, ma non è un romanzo sugli anni ’70 a tutti gli effetti. Ci sono dentro chiaramente tanti elementi e tante riflessioni su quell’epoca ma, se vogliamo, molti aspetti di quegli anni, anche centrali come il rapimento Moro, sono sullo sfondo e non vengono affrontati di petto, direttamente. Una cosa certa che posso dirti è che ci sembrava venuto il momento di avvicinarci al presente. Precedentemente, avevamo scritto 54 ed era quello il romanzo più vicino alla nostra epoca, ma nel frattempo abbiamo cresciuto anche dei figli e ci siamo resi conto che per loro il ’78 era proprio il passato: era tanto passato quanto il ’54, ormai non era nemmeno più storia contemporanea. Abbiamo così pensato che forse quell’epoca si era allontanata abbastanza da poterla affrontare con gli strumenti del romanzo storico, che poi in realtà abbiamo utilizzato solo in parte, perché forse il cambiamento maggiore che abbiamo affrontato in questi nove anni è stato quello di un progressivo allontanarsi dalle forme del romanzo storico, così come le abbiamo praticate fino alla metà degli anni ’10. Già L’Armata dei sonnambuli (2014, ndr) aveva uno scarto importante dal romanzo storico, perché aveva una parte di trama non tanto inventata quanto completamente sganciata, divergente rispetto ai fatti storici e quella era la prima volta che facevamo una cosa del genere. Da lì, abbiamo cominciato a infilare dentro ai nostri romanzi sempre più elementi di fantastico o comunque in bilico tra il verosimile e il fantastico. Così in Proletkult, se un lettore vuole, può leggere quel romanzo come un romanzo che parla dell’arrivo di un’aliena nella Russia sovietica degli anni ’20. Se vuole può leggerlo invece come un romanzo che riguarda l’incontro tra un personaggio storico, Aleksandr Bogdanov, e una ragazzina un po’ fuori di testa che pensa di essere un’aliena, però nel romanzo non c’è mai un elemento che ti faccia decidere per l’una o per l’altra soluzione. Se vuoi credere che sia un’aliena, puoi arrivare fino in fondo pensando che Wu Ming ha scritto un libro dove c’è un’aliena a Mosca nel 1927. Lo stesso per Ufo 78, nel senso che anche lì ci sono apparizioni di Ufo, ci sono funghi allucinogeni che producono visioni estremamente vivide e veridiche e quindi tutto è credibile, è possibile, è fantasy, però è calato dentro a uno sfondo, a un’ambientazione nella quale invece ci sono dettagli di realtà precisissimi presi dai quotidiani e da altre fonti come abbiamo sempre fatto. Ecco, questo è il tentativo che stiamo facendo negli ultimi tempi, cioè generare un tipo di invenzione diversa da quella classica del romanzo storico, che sia quindi al limite dell’inverosimile ma piazzata dentro a un contesto storicamente verosimilissimo.

AB: Però inUfo 78comunque trattate temi caldi dell’epoca, descrivendone in maniera molto vivida la “quotidianità”, come il dilagare dell’eroina, e che in alcuni casi sono molti caldi anche nell’Italia odierna, come l’aborto e in generale le lotte dei movimenti per i diritti. O, ancora, affrontate per vie traverse fatti storici che hanno molti legami con l’Italia attuale, di cui questo paese continua ad avere, volutamente, una visione arbitraria e manipolata, anche perché in parte sommersa, ed è il caso del terrorismo e della strategia della tensione. Questo mi fa riflettere sul fatto che mi pare ci sia tanto degli anni ’70 nella società di oggi e che siamo molto legati a quel periodo come da un filo che dalla fine degli anni ’60, passando per Genova 2001, arriva fino ai giorni nostri. Ecco, che effetto ti fa realizzare come quel periodo venga già visto come Storia, quando in realtà è molto più attuale di quanto si creda?

WM2:Ci sono tanti motivi per cui gli anni ’70 non sono mai passati, in parte perché non li si è fatti passare, nel senso che appunto lo Stato ha deciso di non fare i conti con quella stagione fino in fondo o di farli in una maniera molto spiccia. Dal ’68 al ’78 in Italia si sono vissuti dieci anni di un confronto e di un conflitto molto forte, che ha prodotto alcune delle innovazioni e dei progressi sociali più importanti con i quali, appunto, ci confrontiamo ancora e che nessun’altra epoca successiva ha prodotto. Anzi, delle due, le epoche successive hanno smantellato alcune delle conquiste che erano state fatte in quei dieci anni grazie alla pressione dei movimenti popolari, dei movimenti operai, anche grazie al fatto che le persone di potere, la borghesia al potere aveva paura di una svolta veramente rivoluzionaria e questo ha portato quantomeno delle riforme. Questo è il motivo per cui quell’esperienza continua a essere anche un esempio per chiunque voglia ottenere dei cambiamenti sociali, delle leggi più giuste, perché in quei dieci anni la rivoluzione non c’è stata, però si è riusciti a fare molto. C’è stata la legge Basaglia, c’è stata l’introduzione del servizio civile in alternativa a quello militare e quindi la legge sull’obiezione di coscienza; c’è stata la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, c’è stata l’istituzione del Servizio sanitario nazionale. C’è stata anche l’introduzione della “scala mobile”, per la quale gli stipendi aumentano all’aumentare dell’inflazione: una cosa che oggi se la dici sembra un’eresia, perché poi è stata cancellata e adesso sembra follia, ma è una cosa che era stata ottenuta e che è stata smantellata. Lo statuto dei lavoratori, anche quello oggi lo tiri fuori, sembra una follia, ma è stato il risultato di quel lungo ’68, che nessun altro paese europeo o dell’Occidente ha vissuto, e per l’Italia questa cosa è identificante, fondativa. In Francia, parlano del maggio ’68, ma è durato qualche mese. Negli Stati Uniti, parlano della cosiddetta Summer del ’68, o di quella del ’67 al massimo. Per l’Italia, invece, è stata una stagione durata dieci anni, quindi molto più lunga e molto più influente, con la quale però a un certo punto si è voluto chiudere in maniera drastica, veloce, violenta, con una soluzione militare da un lato e con una culturale dall’altro, il cosiddetto “riflusso”; oltre che con una soluzione chimica, perché l’eroina di cui parliamo anche in Ufo 78 è stato uno dei modi per chiudere quella stagione, per inquinare il desiderio di cambiamento, di ribellione e sedare un’intera generazione e, quando non sedarla, ucciderla, perché se uno guarda lo schizzare del numero di morti per overdose dal 1976 ai primi anni ’80, è veramente un’epidemia. L’altra cosa, che fa sì che gli anni ’70 siano sempre qua, è che quelli sono stati gli anni, in cui è stata sperimentata in maniera sistematica la legislazione emergenziale, cioè le leggi fatte per intervenire in una situazione di emergenza e che tu fai passare perché c’è un rischio, perché c’è una situazione eccezionale: così la legge, senza tanti passaggi parlamentari e in maniera più rapida e giustificata dalla situazione, viene introdotta, salvo poi non essere eliminata nel momento in cui questa eccezionalità finisce e quindi non esiste più il motivo a causa del quale si è introdotto quella legge. E l’Italia è un paese che da allora ha praticamente sempre legiferato in situazioni di emergenza, ovvero tutte le volte che si fa una legge in Italia c’è un’emergenza e quindi si legifera sull’onda emotiva di qualcosa che va fermato e rispetto alla quale siamo in ritardo. È un paese, insomma, che ha inanellato continuamente “stati di eccezione”, in cui non valgono le normali garanzie e i normali diritti, e di conseguenza leggi di emergenza. L’abbiamo visto ultimamente col Covid come in altre situazioni, ma il padre e la madre di tutto questo sono gli anni ’70 e le leggi speciali per contrastare il terrorismo e così via. Quindi, ecco perché tutte le volte senti quella puzza lì. O quel profumo, dipende dalle circostanze.

AB: Che effetto ti fa invece vedere adesso al governo non tanto la destra – perché la destra al governo in Italia fondamentalmente c’è sempre stata – quanto questa destra, nella quale sono presenti tanti fratelli, figli, nipoti, ex camerati di quei movimenti di estrema destra che erano molto legati alla stagione dello stragismo nero degli anni ’70? Soprattutto, non ti sembra che l’opinione pubblica non appaia particolarmente scandalizzata da questa situazione?
WM2: Più che effetto nel vederli al governo, questa situazione mi fa soltanto pensare a chi ha continuamente lasciato loro terreno. Trovo che non sia tanto un successo della destra, quanto un arretramento di altri che piano piano hanno finito per raccontare gli anni ’70 e altri momenti della storia italiana in un modo non molto diverso da come li racconta una certa destra, diventandone succubi, trovandosi nella posizione di non essere mai all’attacco, ma sempre in difesa, fino a un vero e proprio arretramento che ha lasciato il campo libero. Mi stupisco piuttosto del fatto che, proprio coloro che hanno preparato il terreno perché questo avvenisse, adesso si scandalizzino agitando per fini elettorali lo spauracchio dei fascisti al governo, nonostante gli abbiano portato l’acqua con le orecchie per anni. E loro non hanno mai detto di non essere fascisti, anzi, e ora sono lì. Quindi, mi fa quasi più effetto che un sindaco iscritto all’Anpi da quando aveva 16 anni, come il sindaco di Carpi, inauguri con Roberto Menia un giardino intitolato a Norma Cossetto e Roberto Menia è uno ritratto in varie foto e in varie situazioni con il braccio teso. Lo stesso dibattito sul “Giorno del ricordo”, sulle foibe e l’esodo istriano giuliano dalmata è appunto un esempio di come quel discorso di destra, anzi di estrema destra e repubblichino, sia una narrazione tossica divenuta egemone, la quale ha messo in luce il fatto che non c’erano gli anticorpi e che anzi, tutto sommato, non c’era tutta ‘sta gran voglia di fare troppa fatica per fermarli.

AB: Abbiamo parlato del passato, del presente e quindi non resta che chiudere con il futuro. Cosa c’è nei vostri prossimi nove anni, cosa ci racconterete quando rifaremo un’altra intervista per il nuovo progetto editoriale Three Faces?

WM2: Sicuramente, l’obiettivo è quello di continuare a moltiplicare i modi di raccontare storie con ogni mezzo necessario. Credo quindi che continueremo a scrivere insieme, a pubblicare romanzi collettivi e romanzi solisti, a portare avanti il nostro progetto e la comunità che pian piano si è radunata intorno alle pagine del nostro blog e alle tante iniziative alle quali prendiamo parte in tutta Italia. Questo ci dà coraggio, ecco. Rispetto a nove anni fa, il collettivo ha perso un pezzo, non siamo più quattro, siamo tre, ma le persone con le quali collaboriamo e con le quali inventiamo e seguiamo progetti sono in continuo aumento. Questo ci fa sentire che attorno a noi c’è una comunità allargata sempre più importante e quindi ci fa ben sperare, anche perché il nostro tentativo è sempre stato quello di “stare insieme senza appartenere”: non ci siamo mai messi dentro a gruppi di pressione, lobby, giornali, redazioni che in qualche modo ci spingessero in prima linea, ci dessero parola, ci facessero da megafono. Tutto questo negli anni lo ha fatto e lo fa soltanto chi segue le nostre storie e chi crede nel progetto che portiamo avanti. Detto questo, sinceramente mi piacerebbe molto riuscire a introdurre nel collettivo elementi nuovi, perché avrei l’ambizione di riuscire a fare a un certo punto un passaggio di consegna e andare in pensione come Wu Ming. Penso che il massimo che un collettivo può ottenere sia quello di sopravvivere ai suoi fondatori. Ecco, se riuscissimo a inglobare nuove leve, a scrivere insieme a persone più giovani di noi, magari a introdurre anche qualche persona di genere femminile visto che abbiamo questa mancanza, sarei contento perché questo è un progetto che mi affascina molto. Ancora non so come farlo. Di sicuro, mi piacerebbe riuscirci in una maniera assolutamente non gerarchica, dove non c’è insomma quel rapporto del maestro di bottega con i suoi apprendisti – perché mi potrei sparare – però mi piacerebbe molto che un domani uscisse un libro firmato Wu Ming che non abbiamo scritto nessuno di noi tre, del quale non fa parte nessuno dei fondatori, ma che è comunque Wu Ming. Questo secondo me sarebbe davvero il superamento dell’identità individuale che abbiamo sempre inseguito sin dai tempi di Luther Blissett e sarebbe il vero compimento di questo percorso. Non so se ci riusciremo nei prossimi nove anni, speriamo nei prossimi venti (risate finali, sipario).

Nove anni dopo || Intervista a Wu Ming 2 di Andrea Biagioni

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