Three Faces

La terza faccia della medaglia

A Night in Kinshasa Pt. 2 di A. Biagioni || Musica e Teatro || THREEvial Pursuit


A Night in Kinshasa Pt. 2

di Andrea Biagioni

A Night in Kinshasa testa

[Per leggere A Night in Kinshasa Pt. 1 clicca qui!]

First Round

Ring the bell. Ali balla come ha promesso e come ha sempre fatto. Primo scambio ed entra nella guardia di Foreman. Secondo scambio, nulla di fatto. Terzo scambio: Ali abbassa la guardia, entra nuovamente col destro, poi col sinistro. Foreman barcolla e forse non gli era mai davvero capitato, allora gli si rifà subito sotto. Ali ha scatenato la bestia, lo sa e tenta di colpirlo più volte che può, ma è Foreman che prende il sopravvento: vedi quei colpi e ti sembra di sentirli addosso da come sono potenti. Poi, la campana suona e Ali forse per la prima volta ha paura, sente che se va avanti così non arriverà neanche al terzo round. Allora alza il pugno e inizia a incitare il pubblico e il pubblico risponde.

Siamo schiacciati dal peso assordante di sessantamila voci che sembrano una sola, perché scandiscono le medesime cinque sillabe. Sono tutti qui per lui. Ognuno dei presenti che abbia nazionalità zairota è certo che Ali tornerà campione, ma soprattutto è convinto che Ali distruggerà George Foreman, anzi lo vuole ogni cellula del suo corpo: ognuno di loro vuole vedere Foreman abbattuto. Ma perché tutto questo odio per Big George, che va oltre a una semplice questione di tifo? Perché Ali è un re del trash talking, ovvero ha una straordinaria capacità di mettere in cattiva luce e provocare l’avversario, prima nelle interviste e nelle conferenze e poi sul ring, con lo scopo non solo di innervosirlo ma soprattutto di mettere a nudo le sue debolezze. Si tratta di prendersi un vantaggio psicologico che segna il vero punto cruciale tra la vittoria e la sconfitta.

«What’s my name, Uncle Tom?»

A tutto questo Ali aggiunge un ulteriore carico, con cui accompagna i mesi che precedono i suoi match e lo ha fatto con Joe Frazier, ma soprattutto con Foreman, il quale gli ha pure reso il compito particolarmente facile. Il sunto più o meno è questo: “Io, Muhammad Ali, sono un nero che combatte per i neri, dentro e fuori dal ring; voialtri neri che salite sul ring contro di me siete solo dei bianchi con la pelle nera, che combattono e lavorano per i bianchi. Voi siete lo Zio Tom”.

Ali aveva apostrofato con l’epiteto di “Zio Tom” Ernie Terrell, nel corso di un match che avrebbe unificato i due maggiori titoli dei pesi massimi (quello WBA e quello WBC) e che Ali ovviamente vinse, nonostante di lì a pochi mesi sarebbe stato costretto a renderli entrambi vacanti per il suo rifiuto alla guerra in Vietnam. Il motivo? Terrell continuava a chiamarlo “Cassius”, il suo nome da schiavo. Ali rispose mandandolo al tappeto domandandogli per tutto il match: «What’s my name, Uncle Tom?»

Lo stesso appellativo è stato invece affibbiato a George Foreman da tutta la comunità afroamericana, perché alle Olimpiadi di Messico ’68 ha festeggiato la vittoria dell’oro olimpico sventolando una piccola bandiera a stelle e strisce; peccato che, dieci giorni prima, Tommie Smith e John Carlos avessero “celebrato” rispettivamente oro e argento nei 200 piani alzando il pugno guantato di nero in aperto sostegno alle Black Panthers, venendo poi espulsi dalla squadra olimpica statunitense.

«Ali, bomá yě! Ali, bomá yě!»

A Foreman l’etichetta di “Zio Tom” pesa: gli pesa perché anche lui si sente africano, anzi lui si sente più africano di Ali, il quale ha sangue europeo e quindi bianco nelle vene. Ma non è sulla purezza del sangue che si basa questa lotta, bensì sulle idee e Foreman ne ha avuta una pessima, perché si è presentato a Kinshasa con un pastore tedesco, lo stesso cane che Leopoldo II aveva usato come cane poliziotto per “mantenere il controllo” sulla popolazione locale e questo solidifica negli zairoti quanto ha detto Ali appena sbarcato a Kinshasa, ovvero che Foreman è in sostanza un belga. È in quel momento che prima una voce, poi altre mille e ancora decine di migliaia iniziano a scandire quelle cinque sillabe: «Ali, bomá yě! Ali, bomá yě!». Ali, uccidilo.

Ali sta quindi cercando il sostegno della “sua” gente. Cerca quel coro che è diventato praticamente un mantra. Loro sono lì per lui, ma ancor di più è lui ad essere lì per loro e non può deluderli. Si è allenato in quella terra per due mesi. Inizialmente avrebbe dovuto essere solo uno, perché l’incontro doveva tenersi il 25 Settembre, ovvero appena conclusa la tre giorni di Zaire ’74, a memoria il più grande festival di musica africana a cui partecipano non solo i grandi musicisti africani come Miriam Makeba o la TPOK Jazz, ma anche James Brown, Bill Withers e B.B. King: ah, ovviamente tutto organizzato da Don King e un grande spot per il caro Mobutu. Lo sparring partner di Foreman però alzò un gomito di troppo in un allenamento a pochi giorni dal match. Risultato: un grosso occhio e vista limitata per Big George. Il match rischia di saltare, ma con una borsa di cinque milioni di dollari ciascuno, nessuno se la sente né di far saltare il match né di portarlo lontano da Kinshasa e alla fine si decide per il rinvio di un mese.

In quel mese, forse, cambia anche la percezione che Ali ha dello Zaire. Si allena non solo nelle palestre ma anche per strada, in mezzo alle baracche inseguito da orde di ragazzini (e non solo) che lo sostengono. Ha visto e ha capito che lo Zaire non è come se l’era immaginato. Certo, la prima impressione era stata buona: aereo con piloti neri e hostess nere; neri negli uffici pubblici, negli ospedali, neri che insegnano; neri che parlano perfettamente lingala, francese e inglese, mentre negli Usa nemmeno l’inglese viene parlato correttamente. Ben presto però si rende conto che libertà, opposizione, dissenso sono parole inesistenti e che in quella terra renitenza alla leva non significa qualche anno di galera o perdere la licenza di pugile: significa vivere o morire.

Probabilmente sa anche che sotto al ring sul quale si sta battendo, c’è una prigione che può contenere fino a duemila detenuti e che un centinaio di questi sono stati prelevati e uccisi a pochi metri da quel ring solo per lanciare un messaggio: se commettete un crimine, qualsiasi crimine, darete un’immagine negativa dello Zaire, soprattutto darete un’immagine negativa di Mobutu e questo non deve accadere, perché il mondo ha gli occhi incollati su di noi. E a Kinshasa tutti sanno cosa vuol dire deludere il gran capo.

Per questo Ali non può perdere stasera, perché almeno stasera quel popolo vessato vuole gioire e se lui perde che significato avranno avuto questi due mesi? Perché sei venuto in Africa, Ali, perché hai spostato l’attenzione del mondo su di noi?

Muhammad Ali durante una conferenza stampa. Fonte img: Lowell Sun
Muhammad Ali durante una conferenza stampa. Fonte img: Lowell Sun

«He did that with you at the Madison Square Garden, Joe».

Ring the bell. Foreman sa esattamente quello che deve fare: Ali ha promesso che avrebbe ballato, quindi lui si è allenato per tenere il centro del ring e metterlo alle corde. Senza contare che in fondo è vero quello che dicono tutti: Ali non balla più come un tempo. Infatti, adesso è lì che si protegge come un bambino, che prova a incassare, ma Ali non è mai stato un incassatore e i match di Foreman raramente vanno oltre la seconda ripresa: chiedere a Joe Frazier e Ken Norton, che pure hanno battuto Ali. In particolare, a Frazier che si è visto sbattere a terra da Big George per sette volte in meno di cinque minuti.

Alla fine del terzo round, che ha avuto lo stesso canovaccio del precedente, come di consueto si va da quelli che negli States chiamano colour commentators, tra i quali c’è proprio Joe Frazier che sotto sotto se la ridacchia, perché l’amicizia che c’era tra lui e Ali è finita da un pezzo e si sta trasformando sempre più in odio. Per lui come per molti altri è questione di uno, forse altri due round. Qualcuno, credo sia David Frost ma potrei sbagliarmi, chiede a Joe se quello stare alle corde di Ali non sia una tattica.

«No, no, ti devi muovere, non ci si mette mai alle corde».

«Ma Joe, lo ha fatto anche con te al Madison Square Garden nel vostro primo incontro».

E infatti Ali ha perso, ma dopo quindici round e solo ai punti, con appena due match alle spalle dopo quattro anni di inattività. Magari a Joe in quel momento è venuto un dubbio, lo stesso dubbio che si sta insinuando nella mente di Foreman, perché qualcosa nel terzo round è cambiato: Ali ha iniziato il suo trash talking. Nel quarto, Foreman continua a picchiare duro, Ali a provocarlo e a buttarsi sulle corde. Quello che Frazier, Foreman e quasi tutti allo Stade du 20 Mai non sanno o stanno capendo è che sono le corde l’arma di Ali.

Rope-a-dope

Angelo Dundee, nato Angelo Mirena, è un ex pugile di 64 anni e dal 1960 è il coach prima di Cassius Clay e poi di Muhammad Ali. Avete presente il Mickey Goldmill di Rocky? Lui. Ed è lui prima del match a “controllare” che le corde siano, diciamo, flessibili come si deve e c’è un motivo. Intanto, il match scorre.

Quarto, quinto, sesto e settimo round sono difficili da raccontare perché praticamente non succede niente che non sia già stato detto: Foreman che carica come un rinoceronte impazzito, Ali che lo provoca e si butta sulle corde. Succede solo questo per quattro round, ma è intenzionale, come è stato intenzionale far credere a Foreman che Ali avrebbe ballato, che era importante prendere il centro del ring e mandare Ali alle corde. È intenzionale come quell’attacco diretto e aggressivo che ha fatto barcollare e infuriare il campione nella prima ripresa per capire di che pasta fosse veramente fatto questo Foreman: picchia davvero come si dice? Picchia davvero e allora signori, questo match si vince in un solo modo: rope-a-dope, man.

“Quando Foreman attacca, cerco le corde. Se l’estensione è giusta, sono fuori dalla sua portata. Quando lui torna, mi metto in guardia. Fagli scaricare tutti i colpi che vuole scaricare. Molleggia sulle corde, attenuano i colpi. Tu incassa. Molleggia e incassa, poi scivola sulle corde, esci dal suo campo visivo, fatti cercare. Provocalo. Tenta un’offensiva. Fallo incazzare. Quando Foreman attacca, si ricomincia. Prima o poi si stancherà”.

Foreman oramai ha capito, ma che può fare a parte colpire…

Fonte immagine: tumblr
Fonte immagine: tumblr

Round 8

Oramai è palese a tutti. Foreman è stanco. I suoi colpi hanno perso vigore, non da adesso ma da almeno due round. A esser buoni. È quello che Ali ha sempre aspettato, ora serve solo il momento giusto: almeno due minuti e mezzo. Poi tutto accade e quasi non te ne rendi conto.

Foreman attacca, di nuovo. Tenta di creare un varco, ma non ha più le forze per tenere il suo avversario lì. È il momento. Ali esce dalle corde, gancio destro e adesso è Foreman alle corde. Tutto è ribaltato. Adesso Ali tiene il centro e Big George è dalla parte opposta a quella che ha avuto per tutto il match. Appena sente il contatto con le corde cerca di allontanarsi, ma non c’è più guardia. Destro, sinistro. Foreman si accascia. Ali prepara il destro, il colpo di grazia, ma no, non serve. Deve finire così. Sei stato grande George, davvero grande, ma non lo potevi immaginare. Il campione è a terra. Lo Stade du 20 Mai esplode. Ten.

L’ultima immagine sono le bocche aperte di tutti coloro che avevano dato Ali per “un uomo diretto verso il patibolo”.

«You deserve it».

Un ultimo boato assordante, una tempesta di applausi, scrosciante come le piogge africane che stanno per arrivare. Poi le luci si alzano e siamo di nuovo nella sala di un teatro fiorentino di fronte a due musicisti straordinari e un uomo che ha quasi più vite di quelle che racconta e che per circa ottanta minuti ci ha fatto credere di essere altrove, a 5365,56 km e quarantaquattro anni più dodici giorni da casa. E mentre indosso la giacca, raggiungo la hall e mi giro una sigaretta appoggiato al muro, penso. Penso a Don King, a Mobutu, a Joe Frazier, a George Foreman e Ali e ad altre decine di storie che mi si accavallano in testa e che vorrei ancora raccontarvi. Magari un’altra volta.

Poi è un attimo, proprio come il destro-sinistro con cui Ali ha abbattuto Foreman, mi volto ed è lì: Federico Buffa. Vorrei dirgli molte cose e vorrei ringraziarlo per molte altre, ma per ora forse è solo il caso di allungare la mano e dire l’unica frase che merita di essere detta…

«Complimenti, Avvocato, davvero…»

Esco dal Teatro Puccini. L’aria novembrina è calda e umida stasera. Kinshasa non è poi così lontana.

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