A Night in Kinshasa Pt. 1
di Andrea Biagioni
Kinshasa dista in linea d’area esattamente 5365,56 km da casa mia, eppure la Kinshasa in cui mi appresto a entrare è lontana non più di ottocento metri, dieci minuti di cammino, quarantaquattro anni e dodici giorni. E se vi domandate cosa possa accorciare lo spazio e dilatare il tempo a tal punto da permettermi, e permetterci, di conoscere storie cristallizzate nel passato e di viaggiarci dentro, beh, esiste una sola risposta: il teatro. Solo che non è il teatro che immaginereste, ovvero: non ci sono attori o, nel caso specifico, non c’è un attore come lo immaginereste; c’è una scenografia, ma magari non è quella che vi aspettereste; e soprattutto c’è una storia, che non è la storia che un teatro vorrebbe, almeno non convenzionalmente. Ma io delle convenzioni fondamentalmente me ne fotto, come le oltre seicento persone che si stanno accomodando insieme a me tra platea e galleria, e probabilmente se ne fotte anche il teatro (inteso come luogo fisico) di cui ho appena varcato la soglia, visto che si dichiara “Stabile della Satira e della Contaminazione dei Generi”: i soliti seicento e passa qui presenti, me compreso, ringraziano di buon cuore.
Perché tutti noi, stasera, siamo al Teatro Puccini alle nove di sera del 10 Novembre 2018 per un viaggio che ci condurrà allo Stade du 20 Moi di Kinshasa, Zaire, ore quattro del mattino del 30 Ottobre 1974. E se lo abbiamo deciso è per quella storia, per un incontro di boxe, o meglio ancora l’incontro di boxe, e per colui che quell’incontro ce lo farà vivere: un uomo che ha molte vite alle spalle. È un buon avvocato, un egregio giornalista, uno straordinario narratore e un fine umanista. Ma oggi è soprattutto un attore: un ottimo attore, anche se lui probabilmente non lo ammetterebbe mai. Adesso, però, le luci si sono spente, le note di un piano suonano, i tamburi battono lentamente ed è già 1974.

Lui è lì sul palco, la voce che si confonde nell’aria umida di una terra africana bagnata da lacrime e sangue, ma che stanotte ha solo voglia di rivalsa, e una fisicità che non sarà quella dei due colossi di cui ripercorre gesti, sofferenze e sguardi, ma che veste la scena e le loro vicende come un blazer ben tagliato. Nell’intercedere continuo del suo racconto, mentre ci costruisce attorno un ring di cui è l’unico padrone: egli è Alì e Foreman, è Don King e Mobutu, è Frost e Nixon, gli Stati Uniti e lo Zaire, Joe Frazier e Jim Brown. È tutto e il contrario di tutto, insomma: praticamente è The Rumble in the Jungle.
«E tu questo me lo definisci semplicemente un incontro di boxe?»
Stade du 20-Mai. Dei seicento che eravamo siamo diventati 60 mila e su di noi campeggia la gigantografia di Joseph-Désiré Mobutu, che però da un paio di anni circa ha cambiato il suo nome in Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu Wa Zabanga (che starebbe per “Mobutu il guerriero che va di vittoria in vittoria senza che nessuno possa fermarlo”). Ma del resto ha anche cambiato il nome dello stato di cui ha preso il potere militarmente da Congo, troppo legato all’idea coloniale di un Congo belga, al più africano Zaire, ovvero il nome attribuito in lingua bantu al fiume che per gli europei rimane sempre Congo e che ha reso floridissima questa magnifica terra, di cui si è innamorato sul finire dell’Ottocento un sovrano belga. Leopoldo II ne ha fatto un parco giochi personale in cui torturare, mutilare e far sbranare dai propri cani la popolazione locale, parco che è poi l’attrazione principale: tra il 1885 e il 1908 nel Congo belga sono morte circa 10 milioni di persone a causa di uno dei genocidi più atroci che la Storia ricordi, ma che in realtà ha dimenticato per decenni.

E Mobutu Sese Seko (per gli amici), uomo sì feroce ma anche acculturato e scaltro, ha imparato molto dai belgi oltre che dalle letture di Machiavelli, Churchill e De Gaulle: innanzitutto la diplomazia che gli consente di intrattenere rapporti più o meno confidenziali sia con gli stati del blocco sovietico, ma soprattutto con quelli occidentali; purtroppo, però, ha anche imparato dallo stesso Leopoldo II come mantenere il controllo sulla popolazione zairota, creando uno stato monopartitico e quindi autoritario e violento, basato sul concetto dell’autenticità africana.
«Nella nostra tradizione africana non ci sono due capi, non esiste un solo villaggio con due capi. Ecco perché abbiamo deciso di concentrare tutte le energie dei cittadini di questo paese sotto la bandiera di un solo partito nazionale».
È il 20 Maggio del 1967 ed è appena nato il Movimento Popolare della Rivoluzione, il quale dovrebbe avere come principio fondante la continuità col pensiero anticolonialista professato da Patrice Lumumba, il vero padre dell’indipendenza congolese. Lumumba però è stato prima destituito e poi ucciso un anno dopo l’indipendenza congolese per le sue simpatie filo-sovietiche. Gli esecutori formali sono gli uomini del tenente generale Mobutu, i mandanti la CIA e soprattutto dei belgi, i quali prima hanno spiato da vicino Lumumba tramite lo stesso Mobutu, che era più o meno il suo consigliere-segretario; poi si son resi conto di avere un arma fatta in casa per togliere di mezzo quell’idealista, che aveva gridato frasi poco concilianti contro di loro il giorno dell’indipendenza («Noi congolesi non saremo più le vostre scimmie») e che preannunciava l’interruzione di una tratta commerciale ricchissima e per i belgi fondamentale.
Ma a Mobutu, se non si fosse capito, principalmente interessa la ricchezza e non esiste alleato migliore degli Stati Uniti per questo, anche se non mancherà di spillare qualcosa come 263 milioni di dollari ai Paesi del blocco comunista. Sì, perché lo Zaire, o Congo se volete, ha il vantaggio di essere talmente centrale nel continente africano da risultare politicamente appetibile sia per gli statunitensi che per i sovietici. Quando però si tratta di mettere mano al portafoglio la spunta “la più grande democrazia del mondo”.
Anche perché, nonostante predichi il concetto dell’autenticità africana che consiste in morigeratezza e recupero delle tradizioni e degli abiti tradizionali a scapito di quelli occidentali, a Mobutu delle tradizioni poco importa, se si eccettua il suo inseparabile cappello di pelle di leopardo, e della morigeratezza gli frega ancora meno: nella reggia di Gbadolite, suo villaggio natio, potete trovare oro certamente autoctono; marmi di Carrara molto meno autoctoni; e quindi macchine tedesche, un Concorde con cui raggiungere Parigi per fare shopping, arredi in stile Luigi XIV, diversi quadri di pittori europei tra cui figurano Renoir e Monet, molti cognac rari con cui soddisfare la sua insaziabile passione per l’alcool. Intanto, fuori il popolo muore di fame e di torture. In pratica è una cleptocrazia.
«Nessun vietcong mi ha chiamato negro».
Ecco da dove arriva la borsa da dieci milioni di dollari che Don King, un uomo con tre omicidi su una coscienza che non ha e un talento ripugnante per gli affari, ha promesso ai due pugili che adesso, di fronte ai nostri occhi, aspettano solo la campanella per potersi mettere le mani addosso. Da un lato c’è un ragazzo che non ha mai perso, è il campione dei pesi massimi e si chiama George Foreman, mentre dall’altro c’è un uomo che invece ha perso almeno due volte sul ring e molte altre cose nella vita: ha perso un amico e una guida spirituale, ucciso da sette pallottole; ha perso una moglie che mal si adattava al nuovo stile di vita del suo compagno; ha perso la libertà per essersi opposto al volere della propria Nazione; e infine ha perso la possibilità di fare ciò che gli riesce meglio, ovvero combattere su un ring. Eppure quest’uomo l’incontro più importante l’aveva già vinto, non su un ring bensì in tribunale: perché dopo aver rinunciato al suo nome da bianco di Cassius Clay; dopo aver abbracciato l’Islam e le idee di Elijah Muhammad e Malcom X; e soprattutto dopo essersi rifiutato di partire per il Vietnam, ha convinto una giuria prima a non mandarlo in galera come disertore e poi a farlo tornare dove doveva stare, su un ring.
Ci è tornato dopo quattro anni di assenza, nel 1971, e lui che fino ad allora non aveva mai perso, si è dovuto piegare due volte: la prima contro il nuovo campione “Smokin’ Joe” Frazier, in quello che viene ancora definito il Match del Secolo (ci sarà il tempo per vederne almeno altri due); poi contro Ken Norton, che gli ha fratturato addirittura la mascella. Ma la questione del Vietnam, la morte di Malcom X e tutti i problemi che le scelte gli hanno causato, pare gli abbiamo anche insegnato a rialzarsi, lui che non aveva mai dovuto farlo, e soprattutto gli hanno insegnato a parare i colpi, ad assorbirli. E ha ricominciato a vincere, in particolare proprio contro Frazier, il quale sa che uno dei due sul ring sarà il suo prossimo avversario e che in questo momento sta pronosticando l’incontro (pro Foreman) a un David Frost, ancora lontano dall’idea di far confessare in diretta mondiale a Richard Nixon le sue responsabilità inconfessate sul Watergate.
È per questo che Muhammad Ali si trova su un ring nello stadio di Kinshasa di fronte all’imbattuto Big George: per il titolo dei pesi massimi, anche se in palio c’è molto di più.
E come diceva un tempo la stessa voce su cui sto navigando in questo sabato sera fiorentino, che però è anche una calda e umida notte africana: Lunedì, qui, per gara 2, A Night in Kinshasa.
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