Musica morta
Dalla mente di Giulio Iovine

Tornai a casa una domenica mattina, dopo aver passato la notte a suonare il pianoforte o la pianola in non so quanti bar. Avevo mal di schiena, le labbra secche da tutti i cocktail fatti male che avevo bevuto, e un sonno che ve lo raccomando. Ma non c’era tempo di dormire. Quella sarebbe stata la mia giornata speciale. La giornata in cui finalmente avrei alzato la testa.
Abitavo con mio fratello in un bilocale seminterrato di un condominio di un quartiere ricco. Era stata la casa del giardiniere, cioè di papà. Era l’unica cosa che ci avesse lasciato. Mio fratello studiava ancora, si arrangiava con lavoretti. Io con il mio diploma in pianoforte ci potevo asciugare i bicchieri di birra al pub irlandese di via Marina. Suonavo qui e lì, e ogni giorno che passava ero sempre più incazzato.
Entrai in casa sbattendo la porta. Marco era già seduto al tavolo con i libri aperti, a studiare. Aveva l’esame lunedì.
«Ciao. Tutto bene ieri notte?»
«Solita roba. Tu alla festa?»
«Non ci sono andato. Mi rimanevano cose da fare».
Mi prese una fitta di dolore a vederlo gobbo sul manuale di ingegneria dei materiali.
“Oggi sistemo tutto, fratellino” pensai. “Oggi io e te ci trasferiamo ai piani alti”.
«Stai dritto con la schiena» gli dissi.
«Va bene. Mangi qualcosa?»
«No. Ti dispiace se vengo a suonare qui in sala?»
«Ma non vuoi nemmeno un po’ riposarti?»
«Non ho sonno».
«Va bene, vieni pure».
«Anche se studi?»
«Non mi dà fastidio».
Il mio pianoforte a muro con le rotelline era proprio davanti alla finestra aperta della sala – l’unica finestra che avevamo. Nell’altra stanza, quella dove dormivamo, non c’era posto e così ci era toccato sistemarlo in salotto. Mi sedetti e misi sul leggio la partitura.
«Cosa suoni?»
«Musica… nuova» risposi, esitando prima dell’aggettivo.
Marco tornò a leggere. Io mi scrocchiai le nocche, provai il pedale, fissai di nuovo la partitura che avevo rubato alla biblioteca del Conservatorio, dopo averla studiata per anni. Era l’originale del compositore, incompiuta per via della sua morte. Molte battute erano rimaste bianche, molti strumenti senza una linea, molte cancellature mai ripensate. Improvvisarla per pianoforte, così senza averla nemmeno trascritta, era un suicidio – avrei perso tantissime voci e mandato a ramengo buona parte delle armonie. Ma avevo studiato abbastanza la storia di quella sinfonia per sapere che non era quello il problema. E poi, nelle parti bianche, quei segni rossi – quella mano di fiamma! Mi bruciavano gli occhi a guardarli. Attaccai col primo movimento.
Il primo a buttarsi fu Bertini. Dal primo piano, quindi non si fece niente. Mi atterrò davanti alla finestra, urlando. Non mi fermai un attimo. Lui si alzò, il braccio piegato male, e corse ripetutamente contro il muro a fracassarsi la testa. Mentre barcollava, piovve anche sua moglie, già con il braccio mozzato e il machete nell’altra mano, contorcendosi al suolo. Torreggiani e Mila volarono invece dal quinto piano, spiaccicandosi direttamente sulle aiuole. Dalle finestre del condominio antistante cominciammo a sentire urla soffocate e colpi di pistola. Schizzi di sangue lampeggiarono sulle finestre. Dal terzo, dal quarto, dal quinto piano presero a volare giù donne, uomini, bambini. I cani abbaiavano disperati.
«Rino, ma che succede?»
«Boh?»
Mi voltai, senza smettere di suonare. Marco si era alzato e stava guardando ora in giardino, ora la mia partitura. Sembrava pallido. Forse era stanco.
«Rino, cosa stai suonando esattamente?»
«Mahler».
«Sì, ma cosa?»
Con un cenno del capo, gli indicai la prima pagina della partitura, nascosta sotto le altre sul leggio. Marco la prese e la guardò a lungo. Papà era musicista anche lui, e aveva insegnato a me e a Marco qualcosina quando eravamo piccoli. Io poi continuai, Marco smise perché non ne aveva più voglia. Ma aveva ancora un buon occhio, soprattutto per la lettura a prima vista, e ricordava bene tutto quello che sentiva. In lontananza mi parve di sentir detonare una bomba a mano.
«Non capisco, Rino. È la Decima sinfonia, ma Mahler non l’ha scritta mica così».
«Mahler è morto prima di finirla» risposi continuando a suonare. «Ha lasciato la partitura incompleta, piena di abbozzi e appunti. Cose che succedono».
A primo movimento finito, tutto il giardino e il vialetto d’ingresso erano ricoperti da un tappeto di corpi. Cominciavamo a sentire le urla anche da fuori, per strada, in giro per la città, in uno strano amalgama di voci. In lontananza riuscivamo a distinguere il luccichio di un incendio avvolgere un edificio, come uno zucchero filato in fiamme. Marco scartabellava nervosamente i fogli della partitura che mi ero lasciato indietro mentre suonavo; ogni tanto usciva fuori di casa e rientrava subito, girando senza meta per le nostre due stanze.
«Rino, non ha senso. Stai suonando il tuo pianoforte, ma se esci di qui e ascolti, la musica viene fuori amplificata, come se avessimo un impianto apposta».
«Eh. Ma d’altronde bisognerà che la sentano tutti, no?»
«Ma mi ascolti quando parlo? Non abbiamo nessun impianto del genere».
«Non ne abbiamo bisogno. Basta la musica. Questa musica vuole farsi ascoltare. È nel suo diritto, credo».
Le sirene della polizia cominciarono a mischiarsi con quelle dei pompieri. Vedevamo dalla finestra le macchine scontrarsi l’una con l’altra come agli autoscontri, in frontali diretti. La gente si buttava in mezzo alle strade.
«Mahler ha scritto questa roba nei suoi ultimi anni, sai Marco? Soffriva di cuore. Sentiva la fine che si avvicinava. Andava nella sua casa in montagna con quella stronza di sua moglie Alma, che appena poteva andava a scopare col giardiniere nel gabbiotto degli attrezzi. Lui sapeva anche questo. Non ti stupisce che sia morto un po’ incazzato, no? Per giunta sapendo che lasciava incompleta la partitura con cui voleva dire al mondo quanto fosse incazzato».
«Ma non è mica incompleta» protestò mio fratello. «Guarda qui. Questi segni rossi. Sono esattamente dove nell’originale il pentagramma era bianco. Chi ha completato questa partitura?»
«Se lo sono chiesti per anni, al Conservatorio. Sono stati molto bravi a non diffondere la notizia. Hanno tirato in ballo decine di falsari. Quando in fondo la risposta era semplicissima».
«E chi, allora?»
«Uno che evidentemente ci teneva che fosse finita».
Un piccolo elicottero, probabilmente del soccorso stradale, andò roteando a schiantarsi contro il condominio antistante, facendolo crollare come un castello di carte. Successe lo stesso negli altri edifici accanto al nostro. Correvano per le strade centinaia di persone, inseguendosi con coltelli o pistole, infierendo sugli altri e su sé stessi.
«Musica morta, fratellino» ripresi. «Musica rimasta incompiuta, quando era ancora impulsi elettrici nel cervello del compositore, o peggio ancora, quando ancora doveva essere pensata. Di casi del genere è piena la storia della musica. Ti lasciano sempre l’amaro in bocca, specie nel caso di partiture che avremmo voluto tutti vedere completate. E infatti a un certo punto, tu guardi l’originale e scopri che il compositore – dovunque sia finito dopo che è morto – ha fatto in modo di tornare e finire il lavoro».
«Ma scusa, i morti che tornano…?»
«Se ne vale veramente la pena…»
Finii anche il secondo movimento. Il nostro vicinato era un cumulo di rovine e cadaveri. Cominciai il terzo. Mi pareva ora che tutto il mondo suonasse con me. Le cicale e gli uccellini cantavano gli archi. Il vento tra le fronde e nelle spaccature dei muri provava a imitare i fiati. Le finestre si rompevano al ritmo delle percussioni. In questo torrente di musica, mi sentivo sempre più ispirato. Sapevo sempre che voce privilegiare, come trattare il basso, su cosa concentrarmi.
«Che c’è scritto qui?» chiese Marco indicando una riga autografa di Mahler sulla partitura.
«Der Teufel tanzt es mit mir. È crucco. Significa: ‘il diavolo lo danza con me’».
«In che senso?»
«Era depresso, che ci vuoi fare…»
Dalle fosse nel terreno, dai cespugli, dalle fronde degli alberi, dalle finestre frantumate, dai buchi nelle strade divelte dal terremoto, dalle colonne di fiamma ancora alte, cominciammo a vedere uscire persone.
«Rino, ma non è il caso che smetti?»
«Perché?»
«Rino, hai fatto un macello con questa musica».
«Sì, e quindi?»
«Ma perché l’hai fatto?»
«Ma scusa, abbiamo le pezze al culo, in questa città di merda non si trova un lavoro decente, viviamo da tutta la vita in questo posto col naso nell’ascella dei ricchi, non ti sembra che un po’ d’incazzo sia legittimo?»
«Sì, ma non ho capito come ci aiuterebbe a campare più felici il fatto che stai usando una partitura completata da chissà chi per fare a pezzi il mondo come lo conosciamo».
«Come da chissà chi. T’ho pur detto che è stato Mahler».
«Eh ma non solo lui. Secondo me lo hanno aiutato».
«Chi?»
«Loro».
Guardai di nuovo dalla finestra, senza smettere di suonare. Sembravano persone, vero, lì per lì le avevo scambiate per gente della protezione civile. Ma a guardarle bene, forse non lo erano. Erano tutte vestite uguali. Sempre che fossero vestiti, e non i loro corpi, così aguzzi e mobili, dalle curve impossibili. Che salti facevano! Da terra fino al tetto della casa, sfondavano i muri camminandoci, si tenevano per mano, e…
«Guarda, Rino. Stanno… ballando».
La musica riempiva l’aria, saturandone ogni atomo. Guardammo a lungo le figure nere e lunghe danzare pazzamente in mezzo alle fiamme, circondate da cani, gatti, serpenti scappati dai rettilari, pesci rossi e tropicali che nuotavano nell’aria.
«Da dove vengono, Rino?»
Inutile far finta.
«Non ne ho idea» risposi.
«Ma perché sono qui?»
«Non ne ho idea» ripetei.
Marco attese qualche secondo. Poi, la voce incrinata:
«Li avete chiamati voi due».
«Noi chi?»
«Tu e quell’altro cardiopatico. Prima Mahler ha composto quella decima sinfonia – ha indicato loro dov’era la porta. Poi tu hai suonato la sinfonia. E gliel’hai spalancata».
Sentivamo improvvisamente le loro grida. Parevano risate. O latrati, non si capiva.
Non riuscivo a smettere di suonare.
«Doveva essere incazzato forte, Mahler» disse mio fratello.
«Avoja» risposi.

Giulio Iovine
Nato a Bologna il 10/07/1987. Di lavoro studia manoscritti antichi e insegna all’università. Laureato in lettere a Bologna, dottorato a Urbino, assegno di ricerca a Napoli, da febbraio ricercatore a tempo determinato a Bologna. Ha da sempre il sogno di scrivere (romanzi, racconti, teatro). Ha un blog (Il monte Analogo), pubblica prose, meme e video su Facebook e Instagram (Dinosauri futuri) e racconti e romanzi su Wattpad (‘Francesco Storbini’).
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