Mezzanotte a teatro con Edgar Allan Poe
Parte I
di Andrea Biagioni
Conoscete la follia, miei cari lettori? Sapete che essa alberga in ognuno di noi, negli angoli più nascosti del nostro animo? So che può sembrarvi assurdo, eppure è così. Tuttavia, se non volete credere a me, credete perlomeno a colui che più di ogni altro si è dedicato a scandagliare gli abissi, le angosce e gli incubi della psiche umana. Il suo nome è Edgar Allan Poe.
Ho incontrato Poe a quattordici anni. Sbucò fuori da un’antologia di prima liceo, mentre il professore cercava di ficcarmi in testa il concetto di focalizzazione narrativa: interesse del sottoscritto per la questione pari a zero (giuro però d’aver recuperato). Di certo non era colpa del buon uomo, tantomeno era colpa mia se nello sfogliare pagina 133 avevo letto l’incipit de Il cuore rivelatore, che mi aveva totalmente rapito e distratto. Il concetto di “amore a prima vista” confesso sia decisamente abusato ai nostri tempi, ma mai come in questo caso ritengo sia azzeccato. Tra me e il buon Edgar scattò la scintilla, da lì in poi decisi che avrei scritto. Quindi dovete prendervela con lui per tutto questo. Se avete lamentele, rivolgersi al Westminster Hall and Burying Ground, Baltimora: ricordate di portare con voi sempre tre rose rosse e una bottiglia di cognac.
Comunque, mi sembra superfluo spiegarvi quanto io abbia una conoscenza quasi morbosa nei confronti della sua produzione, una morbosità che egli avrebbe certamente apprezzato. Il problema è che una tale predisposizione può davvero condurre alla follia; e se non è follia sorbirsi i film degli anni ’60 realizzati da Roger Corman con Vincent Price su I racconti del terrore, allora tale concetto va totalmente riscritto, fidatevi. Orrendi.
“Spero che stasera vada meglio” penso, mentre varco la soglia del Teatro della Pergola per assistere a I racconti del terrore – Mezzanotte a teatro con Edgar Allan Poe, un invitante spettacolo itinerante proposto dalla Compagnia delle Seggiole all’interno dei luoghi più nascosti dello storico teatro fiorentino. In piena notte. Quattro serie di racconti che si concluderanno il prossimo 21 Aprile. Primi estratti: Il cuore rivelatore (sospirone sognante), La maschera della Morte Rossa, La sepoltura prematura. Per me si prospetta una goduria di proporzioni ciclopiche che in confronto vincere l’Oscar equivale a primeggiare in una, diciamo, contentio ructus: Di Caprio, scansate.
Confesso di essere stranamente allegro, fin troppo allegro. Saranno quei bicchieri di vino in più a cena, ma non giudicatemi, dovevo entrare nel giusto mood allaniano. Per questo, decido di aggiungerci una buona grappa che serve anche a digerire una cena ottima, ma decisamente massiccia. Saranno tutti questi fattori messi assieme, ma inizio rendermi conto che la mia euforia è surreale e il passo dall’ebbrezza all’allucinazione è breve: la hall della Pergola rassomiglia in maniera sconcertante alle sale irregolari che il principe Prospero ha realizzato nel suo palazzo e grazie alle quali spera di scampare alla Morte Rossa. Saremo tra le venti e le trenta persone, in attesa. Tutto appare tranquillo, eppure mi rendo conto che sto impallidendo, inizio a sudare freddo, il sangue mi fluisce alla testa, d’improvviso: le persone intorno sembrano tutte uscite da uno dei racconti di Poe.
Respiro. Chiudo gli occhi. Buio. “Che mi succede?”
Sento una voce in lontananza. Spiega che alla conclusione di Vetri Rotti, spettacolo di prima serata con Elena Sofia Ricci e Gianmarco Tognazzi, sarà il nostro turno: ci raccomandano di non allontanarci e di tenersi ai lati per consentire il deflusso. Sento che tutti mi osservano. Apro gli occhi. Annuisco, ma con fare meccanico. Devo uscire a fumare, e una volta fuori respiro: una boccata, due, ma non basta a calmarmi. Nel frattempo, una folla di mille persone irrompe nella hall e si riversa in strada, dove sono io. Mi sento tranquillo in mezzo alla gente. Mi sento come il demoniaco protagonista de L’uomo della folla, ma la mia folla adesso defluisce e una voce mi ordina di rientrare. Stiamo iniziando.
“Non posso più scappare”.
Mentre mi rimbomba in testa quella frase senza senso, non posso più scappare, mi ritrovo ai piedi della scalinata marmorea che introduce al teatro: ho un biglietto in mano, salgo ogni scalino con passo infermo, mi ritrovo nella penombra del colonnato che conduce all’ingresso della platea e qui sembra davvero di essere un racconto di Poe. Una gentile ragazza dai lineamenti fini, capelli e grandi occhi corvini, mi indica che devo avvicinarmi ad una piccola porta di servizio, dove un uomo che sembra un guardiano aspetta, tenendosi sul viso una maschera deforme.
Declama.
«A Mezzanotte, nel mese di Giugno,
me ne sto sotto la mistica luna… »
“Non c’entrano i suoi racconti. E’ una sua poesia” penso “ma quale… Possibile che io non riconosca una sua opera?”
Irene, comprendo. E cerco nella mia memoria, mentre il guardiano mascherato si ritrae e io vengo spinto da quella piccola massa di venti, venticinque persone che siamo, altrove.
Non saprei dire come ci sono arrivato, ma mi trovo in un lungo corridoio, dal cui fondo suona un piano e una luce rossa come fosse una ferita mi/ci circonda. È Il cuore rivelatore. Mi distolgo un attimo dalla mia allucinazione, poiché sono di fronte alla fonte della mia passione per Poe. Mi avvicino con sorriso sagace, ai limiti dello psicotico. Mi fermo. Un vecchio sfatto siede in un angolo. Vedo un piano, e il pianista che si alza, apre un libro come fosse un diario e narra.
Lo confesso: lo sento troppo accademico, meno nevrotico, più distante da come ho sempre immaginato il narratore di quel racconto. Ma sono io che sto commettendo un errore, perché non devo guardare l’attore, bensì l’ombra che dietro egli proietta e che sembra sovrastare il vecchio, che a tratti geme di paura mentre l’attore declama in crescendo, diventa frenetico il suo tono e l’ombra s’agita ad ogni accento…
“CHE FINISCA!”
Sento gli applausi. Io so di essere di nuovo impallidito. La combriccola si sposta e io con essa. Volti distesi, gente che parla e ridacchia sommessa.
“Ridono di me? È solo il vino e nulla più?”
Devo controllarmi. Questa esperienza ha preso una brutta piega e soprattutto non riesco a contrastare gli eventi. Ho sempre avuto la tendenza a immedesimarmi in maniera eccessiva nelle storie di Edgar, ma mai come questa notte, e ora che vedo lo scheletro del teatro, le funi, le quinte, alte strutture che sembrano di pietra il mio turbamento è irrefrenabile. Dove siamo?
«Da tempo la Morte Rossa devastava il Paese…»
“Chi è che parla? Da dove sbucano queste due donne che recitano? Perché ancora questa luce sanguigna ci perseguita?”
Devo realmente cercare di calmarmi, ma non è impresa semplice. I miei sensi sono al punto di rottura. Le vicende del principe Prospero e dei suoi invitati, rinchiusi per mesi tra gozzovigli, cibo e vino e burle mascherate mi avvelena, mi atterrisce. Qualcuno mi sfiora una spalla e io scatto. Fisso il mio vicino con occhi sbarrati. Lui non si scompone, guarda altrove e io guardo dove guarda lui.
“Ma è la Morte Rossa quella che vedo! Ha la stessa maschera e sotto di essa il medesimo volto di cadavere. Come fate a rimanere imperterriti?!”
Intorno a me, sento solo qualcuno che afferra dei frammenti di paura. Si limitano a qualche espressione di circostanza, sembrano dire che si possa fare di meglio, spaventare di più. Allora mi rendo conto che sono solo io ad essere entrato nella giusta dimensione del terrore. Il mio è un incubo che gli altri non vedono.
“È solo il vino e nulla più” mi ripeto.
Vorrei fermarmi adesso, sedermi solo per un istante, ma il gruppetto mi inghiotte e mi ritrovo in uno stretto corridoio, dove si sente continuo uno sbattere e ribattere porte, mentre una mano mi spinge con decisione contro la parete: ormai la sento, la aspetto, La sepoltura prematura. E invece no. Le parole che sento vagheggiare per quello spazio lungo e stretto sono quelle di Alone, i versi in cui tanto mi sono riconosciuto da adolescente.
«Fin da bambino, io non sono
stato uguale agli altri…»
Il tempo si ferma. Ho l’anima in gola. Per fortuna, qualcuno mi strattona e mi conduce lungo il corridoio. Voci mi dicono di stare tranquillo, di rilassarmi. Non capisco molto di quanto sta succedendo. So solo che mi ritrovo su una delle poltroncine della galleria, in un angolo buio, stretto. Sento una presenza al mio fianco.
«Sto bene, sto bene. Andate pure avanti. Mi gira solo la testa» e mi lasciano solo, tranquillo. Separato dal resto del gruppo, ma al sicuro.
Dalla piccionaia, vedo in basso una distesa di poltroncine vuote, mentre La sepoltura prematura si svolge nella voce degli attori. E quando il Demone mostra all’occhio del narratore quella selva di tombe abitate da gente più in vita che morta, mi aspetto quasi di veder muovere arti, braccia e gambe insieme, e teste e lamenti di sotto tra le poltrone vellutate della platea.
E poi, finalmente, gli attori svelano il trucco. Mi rammentano che nessuno realmente è mai stato sepolto vivo. Sono solo storie. Che solo i fantasmi della mente ci accompagnano e hanno accompagnato me in questo viaggio di un’ora e poco più. Sono loro, queste entità intangibili e bugiarde ad avermi giocato questo scherzo grottesco.
Risa, applausi, gran complimenti ora si affannano. Gli attori ringraziano e salutano. I nostri accompagnatori sollecitano a seguirli verso l’uscita. Io, spossato, mi accascio sulla mia poltrona di velluto rosso sbiadito. L’incubo è finito. Tutti i bicchieri bevuti prima dello spettacolo sono smaltiti.
Chiudo gli occhi per un attimo. Sorrido e ascolto le voci che si disperdono. Penso che varrà la pena tornare fra due settimane per seguire la seconda serie: Il ritratto ovale, Blackwood, Il gatto nero.
“Se la prendo un po’ meno sul serio, sarà divertente”.
Ma quando apro gli occhi sono solo, sono stato lasciato indietro. Mi precipito verso quella che credo essere l’uscita, ma è solo una porta chiusa. Provo a tendere l’orecchio per sentire le voci degli altri spettatori, delle maschere, degli attori. Silenzio.
“Quanto tempo è passato. Come hanno fatto a dimenticarsi di me?”
Scendo delle scale, attraverso un corridoio, ancora scale che però non ricordo di aver affrontato prima. Scendo. Salgo. Mi affanno.
“Come diavolo si raggiunge la hall? Quanto è grande questo maledetto teatro?”
Non so dove sono. Non c’è anima viva, non una luce e, se ve lo state chiedendo, neanche una traccia di linea sul telefono. Sono isolato. E non so come uscire. Sono chiuso qui dentro.