Three Faces

La terza faccia della medaglia

Lucifero, un racconto di M. Cortopassi || Street Stories


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Lucifero

di Martina Cortopassi

Illustrazione di Sheida Assa

“Se Lucifero avesse un volto, sarebbe il suo”, pensai mentre lo guardavo dormire di fianco a me. Gli occhi incavati, i baffi neri, le labbra fini come un taglio. Le sue scapole si sporgevano come ali sotto il lenzuolo, potevo contargli le ossa. Da addormentati tutti sembriamo innocenti eppure lui mostrava con insolita purezza tratti demoniaci. C’è un piacere perverso nell’amare il male: ci si sente buoni. E così mi sentivo io, un’anima buona, devota al sacrificio. Mi era costato dolore amarlo. Aveva distrutto il mio ego in pezzi talmente piccoli che io stessa avrei fatto fatica a rimetterli assieme. Ed infatti mi persi. Tuttavia, mi sentivo una martire privilegiata. Mi avrebbe parlato oggi? Non era insolito passare le ore imbattendoci l’uno nell’altro come fantasmi. Sentivo il suo sguardo sprezzante alle mie spalle. Mi odiava perché lo amavo, come lui non avrebbe mai potuto fare con se stesso.
Ogni giorno temevo di abbandonarlo per andare a lavoro. Sapevo che al rientro lo avrei trovato al fuoco, depresso, forse ubriaco, chitarra in mano e il sorriso di benvenuto più falso che poteva indossare e che, con il tempo, divenne il rito più pesante della sua giornata. Viveva da me, perché non voleva stare dai suoi genitori. Viveva con me, perché non aveva un lavoro. Viveva di me, perché non conosceva la pace. Sapeva di farmi male, ma non poteva lasciarmi andare. Succhiava vita dal mio seno e sputava sul mio sesso. I nostri incontri erano battaglie sanguinarie. Ci scambiavamo i ruoli di leone e gazzella; lui mi mordeva, io urlavo. Lui piangeva, io lo picchiavo.
Lui mi penetrava, io lo penetravo. Ne uscivamo svuotati e disgustati. Se ne andò due mesi dopo. Mi ubriacai. Il giorno successivo mi aspettava un turno di dodici ore. La ristorazione non lascia tempo ai lutti. Passando davanti allo specchio del bar, il riflesso mi rimandava forme che non conoscevo. Il capo mi prese da parte: – Sei strana. Ti sei fatta? Non mi piace il ragazzo che frequenti. Vatti a lavare la faccia – Mi chiusi nel bagno sporco e affrontai la mia immagine smostrata dal doposbornia.
I contorni cominciarono a sparire in una nebbia nera, offuscati dalle lacrime. Gli occhi marchiati di viola si fecero più familiari, le sopracciglia si unirono, le guance persero la carne per mostrarmi zigomi alti e una mascella nervosa. Ero diventata lui. Lui era me. Non c’era mai stata nessuna distinzione. Bene e Male avevano la stessa faccia. E io non ero cosi buona come credevo.

Mezzanotte, fresca sera d’estate. Avevo chiuso il locale, il giardino era illuminato dalla luna e dai lampioni. Due clienti si erano fermati con me: Emiliano, il santone, psicologia new age e pensiero positivo e Samuele il mago. Lo avevo conosciuto sul fiume, un’apparizione mistica dietro i cespugli, forse vegetazione, forse i suoi capelli. Volto scavato, si cibava di poche noci al giorno. – Credi nella magia? – La discussione verteva sul Diavolo. Esiste solo in te, affermava il primo, mentre i riccioli cristici riflettevano un’aurea serafica. L’altro all’ombra, espressione cupa, ribattè fissandomi: “I demoni esistono, li riconosci. Hanno la voce più bella che tu abbia mai la disgrazia di ascoltare.”
Un’intuizione. La voce. Le sue canzoni in francese, le poesie scritte a macchina che il foglio mi sussurrava all’orecchio con la sua intonazione, le critiche feroci che cullavano la mia insonnia. “Pesca una carta”. Le sibille risposero puntualmente: la Prigione. Non si esce da ciò in cui ti richiudi. Ma l’alcol mi dava l’idea di averne il potere. Sconvolta salutai i due, affrettandomi a raggiungere il bicchiere mezzo pieno di Jamenson sul lavandino del bagno di casa. Ora basta; meglio finirlo, meglio farlo sparire.

Non riuscivo più ad identificare il carnefice tra di noi. Se ne era andato o l’avevo cacciato? Distorsione della realtà. Vittimismo. Flagellazione. La cena della testa di porco, il vomito, il sangue che usciva dai graffi che si era autoprocurato. Oh, poverino. Da quando avevo iniziato a frequentarlo puzzavo. Il mio corpo espelleva incessantemente whisky, umori e disgusto attraverso il sudore. Lo incolpavo per la lenta putrefazione della mia anima.
Mi chiusi nella doccia, senza notare la differenza tra dentro e fuori. Il mio spazio vitale ormai si era ridotto a quel metro quadro anche nella vita reale. Niente aveva abbastanza valore, né mi dava lo stesso piacere, di lavarmi con quell’acqua calda, mentre sparivo facendomi io stessa molecola, evaporando, superando la dualità che lacerava la mia mente, il chiaroscuro della mia ombra sulle mattonelle. Non eravamo mai entrati in due lì dentro. Mi occupavo maniacalmente della mia pulizia circa cinque volte al giorno, una meditazione insolita: percepivo le gocce sulla pelle, estirpavo i peli come bulbi di pensieri infetti dal mio cervello e ne uscivo rigenerata, diversa, protetta da strati di finto candore ed oleoliti. Era la tomba umida dove mi era concesso di sciogliere la cera con la quale avrei plasmato il mio volto. Ero al sicuro. Semplicemente non ero.
Tornò abbastanza in fretta, prima che l’astinenza producesse risultati, presentandosi come la cura. Ma già la prima notte ero io ad abbracciare le sue costole scheletriche. Non riusciva a rimanere. Seguirono diversi addii. Ogni volta le nostre braccia si incrociavano come pesci morti lungo i fianchi. Tutto puzzava. Non era stato lui a farmi questo, non era lui il Diavolo, era solo la proiezione della mia lotta interna. Non avrei mai potuto cambiarlo, tanto meno salvarlo per redimermi. Avremmo sofferto, soli o separati. Volevo uscirne. Volevo uscire da me, dalla santa e dalla peccatrice. Un’altra doccia. Il rasoio sul pavimento, arrugginito, era lo strumento che avevo scelto per l’esorcismo. Iniziai ad ungermi con un olio, ricordando nozioni di imbalsamazione: nel passaggio il mio corpo non doveva subire danni. Silenziosamente, lavai tutti i miei organi. Pulii il mio intestino da anni di marciume, il mio fegato dalla rabbia repressa, ovaie e utero dai sensi di colpa. Il cuore aveva le vene ostruite da troppi amanti. Il filo rosso del destino, che avevo legato alla sua immagine, mi rimase in mano, annerito dal sangue raggrumato, e lo buttai nel cesso. Era rimasta la testa, lì, dove risiede la dualità; lì, dove tutto si era generato. Rimasi stupita dalla naturalezza con la quale il rasoio finì l’opera iniziata dalle forbici. I capelli caddero a terra morti, così come la mia vanità, la mia identificazione con qualcuno o qualcosa, tutto ciò che conoscevo. Non temevo alcun giudizio o castigo. Avevo affrontato i miei mostri, mi ero purificata: il mio cuore adesso pesava quanto la piuma di Maat. Ero pronta alla morte e mai stata più pronta alla vita.

Lucifero, un racconto di M. Cortopassi || Street Stories

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