Three Faces

La terza faccia della medaglia

QuaranThreevial Off: Lockdown 2.0. Un articolo di A. Di Raimondo


QuaranThreevial Off: Lockdown 2.0

La solitudine di chi rimane

di Anna Di Raimondo

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Lockdown di Bladi

Tra i film che mi fanno piangere come una fontana, c’è Air Bud, una storia d’amicizia tra il piccolo Josh, un giocatore di basket alle prime armi, e Bud, un cane che – incredibile ma vero – sa giocare a basket.

Tutto molto tenero. Ma c’è un intoppo: Bud appartiene a Norman, un clown cattivo e particolarmente inquietante che vedendo le prodezze di Bud in tv, decide di riprenderselo per farci una marea di soldi.

Il momento che mi fa versare litri di lacrime è quello in cui Josh decide di abbandonare Bud nel mezzo del nulla per evitare che finisca nelle grinfie del clown. Nella scena, Josh cerca in tutto modi di allontanare Bud: gli dà un budino per distrarlo (Bud è un eccezionale estimatore di budini), gli dice che non lo sopporta più, gli urla di andarsene, ma Bud rimane lì scodinzolante e con la lingua di fuori. Alla fine, l’unico modo è quello di fingere di voler giocare a basket. Così Josh gli lancia il pallone e, mentre il cane gli corre dietro, scappa via. Una scena straziante, ve lo garantisco.

Per un motivo o per un altro, tutti i miei cinque coinquilini sono tornati dalle loro famiglie lasciandomi sola a Milano. Il giorno in cui una di loro se n’è andata mi ha ricordato moltissimo la scena di Air Bud.

La conversazione è andata più o meno così:

Io: «Quando torni?»
Coinquilina: «Non lo so, devo ancora organizzarmi».
Io: «Ma torni?»
Coinquilina: «Certo che torno».
Io: «Non è vero. Chiuderanno tutto e io rimarrò qua da sola».
Coinquilina: «Ma smettila…»
Io: «Anche a marzo dovevi stare via qualche giorno e non sei più potuta tornare. Resta!»
Coinquilina: «Non posso! Devo farmi pesare dal dietologo».
Io: «Ti peso io».
Coinquilina: «Senti, ti ho lasciato uno yogurt e una ricottina in frigo!»
Io: «Non mi compri con uno yogurt e una ricottina!»
Coinquilina: «Ma scadono…»
Io: «Non mi interessa!»

Alla fine, mi sono addormentata verso le tre per un pisolino e quando mi sono svegliata c’era un biglietto sul tavolo che diceva:

A presto! Promesso.
P.S. Non buttare lo yogurt e la ricottina

Ho così capito cosa ha provato Bud quando, tornando indietro con il pallone, non ha trovato nessuno. Giorno dopo giorno, ho osservato rassegnata i miei coinquilini andarsene. E adesso eccomi qui. A Milano, in smart working e senza amici.

Un commento a caldo? Le prime 48 ore sono filate lisce come l’olio. Ho mangiato senza dover lavare subito i piatti, ho occupato il posto a tavola che più mi piaceva, ho messo la musica a tutto volume e ho guardato in tv quello che volevo, senza dovermi sorbire una partita di calcio o un documentario di tre ore su qualche omicidio ancora irrisolto. Poi ho iniziato a cedere.

Dopo due giorni trascorsi a non fare nulla, domenica pomeriggio – sdraiata a letto sotto il plaid, con il computer sulla pancia e un pacco di triangolini di mais vuoto – ho iniziato a desiderare che fosse lunedì per poter lavorare e vedere, anche se attraverso un computer, i miei colleghi. Di fronte a quel desiderio, così lontano dalla scansafatiche che sono sempre stata, ho capito che le settimane successive sarebbero state molto dure.

Quando a febbraio il virus è arrivato in Italia, si è iniziato anche a parlare della possibilità di chiudere tutto, ma era un’idea così lontana dalla realtà alla quale eravamo abituati che quando è successo non sapevamo che sentimenti provare. Adesso sappiamo cosa si prova.

Il mio lockdown, però, è stato diverso. Sono rimasta chiusa in casa tre mesi con il ragazzo che mi piaceva e a cui, si è scoperto poi, piacevo pure io. È stata una convivenza forzata e difficile. Quando si litiga, quando si sente il bisogno di stare soli non ci sono molti posti dove andare se non la propria camera da letto. Ma quelle quattro mura non bastano quando sai che dall’altra parte della porta c’è la sua stupida e irritante faccia.

Avete presente i primi mesi di una relazione? Quando tutto è perfetto ed entrambi sembrate usciti dalla copertina di un giornale di moda? Sempre ben vestiti, capelli in ordine, truccati e profumati? Ecco, in lockdown non esiste: c’è il pigiama stropicciato, le calze bucate, il viso pieno di brufoli, i peli che crescono, i rutti dopo cena, il mal di pancia per aver mangiato troppo, le ascelle che puzzano e nessuna voglia di fare la doccia. Non è esattamente una favola, ma ti ci abitui. È come saltare uno step e arrivare direttamente a quella fase della relazione dove non ci si vergogna più di niente. E un po’ ti senti fortunato nell’aver trovato qualcuno che ti infastidisce facendo finta di avere un puntatore laser solo perché hai un brufolo rosso e gigante sulla fronte, ma che ti abbraccia e ti consola quando ne hai bisogno. E io ne ho avuto di bisogno.

Il 19 marzo, Festa del Papà, ho scoperto che mio padre aveva un tumore al quarto stadio ai polmoni con metastasi cerebrali.

Con una videochiamata mamma ci ha dato la notizia. Io e mia sorella piangevamo ma papà rideva, dicendo di non fare sceneggiate: scherzava sui capelli che aveva sempre avuto in disordine e che ora avrebbe perso. Diceva che sarebbe andato tutto bene. Il dottore era positivo: papà era giovane, 58 anni appena compiuti, era forte e vigoroso e poteva sopportare la chemio e la radio. In un anno, diceva, si sarebbe ripreso.

È morto il 28 luglio, dopo cinque mesi di una malattia che lo ha distrutto fisicamente e mentalmente. Non riusciva più a camminare da solo, non parlava o scherzava più. Era depresso perché aveva dovuto lasciare la sua casa, non riuscendo più a sopportare i quattro piani di scale necessari per raggiungerla. Ma era anche stanco e soprattutto preoccupato.

“Vi lascio in mezzo alle pene”, ha detto a mia madre il giorno prima di andarsene, come se sentisse l’arrivo della fine.

Io sono riuscita a tornare a casa il 27 giugno, solo dopo essermi accertata con test sierologici e quarantene di non essere un pericolo per mio padre. Siamo stati insieme un mese.

In quel mese abbiamo mangiato tanti gelati gusto fragola e limone.
Io, mia madre e mia sorella abbiamo parlato pomeriggi interi del nulla.
L’ho visto ridere, con difficoltà, grazie ai racconti indecenti di suo fratello.
È tornato a essere un figlio che necessita delle cure di sua madre.
E poi è finito tutto.

Con la sua scomparsa sono cambiate tante cose. Nel mio cuore, ad esempio, in quell’angolo riservato a mio padre, adesso c’è vuoto enorme. Chi ha vissuto un lutto dice che lo riempirò di ricordi, ma che il dolore non passerà mai. E non vedo neanche io come possa passare.

Quasi tre mesi dopo, provo una rabbia che non so verso chi indirizzare, uno stupore continuo nel constatare che non c’è più e un immenso amore per mio padre, per l’uomo che è stato. Fantasioso, brillante, dispensatore di consigli, curioso e soprattutto un gran lavoratore, un marito e un padre meraviglioso.

La scoperta di un sentimento combinata con la preoccupazione e l’ansia per mio padre non mi hanno fatto rendere conto nulla: non ho sentito il peso dello stare chiusa in casa perché ero troppo occupata nel fare o nel pensare ad altro. Come interessarsi a quello che succede intorno a te quando tuo padre dice che non ce la fa più? Come tenere a debita distanza un’amica che ti vuole abbracciare al funerale di tuo padre?

Ma adesso ci sono solo io. Ora posso concentrare l’attenzione su una situazione della quale prendo veramente atto solo ora. Inizio anche io a guardare il telegiornale, a leggere i bollettini giornalieri, ad aspettare le conferenze del Presidente Conte. Mi informo su scenari futuri, sui vaccini, leggo i post di conoscenti negazionisti su Facebook e sono tentata di commentare. Sono di nuovo tornata a far parte del mondo, dopo una pausa di nove mesi in cui del mondo non me ne fregava proprio niente.

Mentre scrivo sono passati cinque giorni dalla partenza dei miei coinquilini. La solitudine che provo è strana. Mi sento sola in modi diversi.

Mi sento sola perché la casa è vuota.
Mi sento sola perché lui, quello che mi prende in giro per i brufoli, è tornato a casa.
Mi sento sola perché mio padre non c’è più.
Mi sento sola, ma butto giù questi pensieri.
Mi sento sola, ma mi alzo e cerco di cucinare degli hamburger vegetariani con discreto successo.
Mi sento sola, ma pulisco casa.
Mi sento sola, ma indosso qualcosa di decente e vado a fare un giro. Chiudo la porta di casa, ma torno indietro dopo cinque passi. Ho dimenticato la mascherina.

Perché la solitudine di chi rimane non ha fine, ma il mondo deve continuare a girare. E io con esso.

QuaranThreevial Off: Lockdown 2.0. Un articolo di A. Di Raimondo

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