La mia più grande opera d’arte
di Michele Crescenzo
Illustrazione di Zolfo
Preferisco le imperfezioni, sia nell’arte che nelle persone. Fin da piccolo ero affascinato dai difetti, dalle anomalie, credevo che in ogni piccolo elemento fuori posto potesse esserci una storia. E avevo ragione. Giotto, Leonardo da Vinci, Raffaello, Morandi e tanti altri hanno volutamente creato delle imperfezioni nelle loro opere dove nascondevano le iniziali dell’amante, segnali esoterici o portafortuna. Hanno modellato i loro quadri – forzando il movimento di un albero, le braccia di una donna – soltanto per inserire qualcosa che doveva rimanere nascosto. I sarti inseriscono dentro le fodere dei vestiti frasi ricamate, amuleti di stoffa o propri capelli. Gli informatici costruiscono messaggi segreti in angoli nascosti dei loro programmi aziendali o nei videogiochi. Stephen King fa incontrare i personaggi dei suoi romanzi con altri dei suoi precedenti senza fissare alcuna nota né indicazione. Alcuni di questi personaggi sono omaggi ad amici o scrittori.
Tutte le persone sono così, io lo so bene. Sono un portiere di notte, anche se un tempo, però, mi definivo un artista. C’è, tuttora, una mia installazione nella sala permanente del Hamburger Bahnhof di Berlino e ho vinto il premio come migliore performance visiva europea nel 1999. Quando ti definisci artista a vent’anni puoi essere convincente – presuntuoso, forse – ma adesso, bè, adesso sarei solo ridicolo.
I clienti che si presentano durante il mio turno sono quelli in ritardo. Qualcuno arriva con il fiatone come se fosse venuto di corsa, altri appena entrano allargano le braccia e si giustificano dando la colpa alla lentezza del treno o al tempo speso ad aspettare il bagaglio di stiva. Mi piace osservarli come se studiassi un’opera d’arte. Serve a darmi un’impressione generica, giusto per inserirli in una categoria, poi inizia la fase interessante: la ricerca di un particolare, di un difetto o di una stravaganza.
La prima parte è facile: è chiarissimo capire se ho davanti a me ragazzi nervosi per il colloquio del giorno dopo oppure eccitati per un concerto. Se sono commercianti, gente che fugge o amanti. Più difficile è la seconda. Innanzitutto guadagno tempo: fingo di controllare la prenotazione, faccio fotocopie, compilo lentamente i moduli. Nel frattempo cerco di individuare orecchini, tatuaggi o bracciali che si dissociano dal loro abbigliamento o dall’atteggiamento. Se riesco a trovarli, la mia concentrazione è rivolta a scoprire se sono dovuti alla scelta casuale oppure raccontino qualcosa di diverso, come un travestimento non riuscito, un portafortuna o il ricordo di un amore passato. Così mantengo le prenotazioni in mano per un po’, faccio presente che il bar dell’albergo è chiuso ma se vogliono qualcosa – dell’acqua, una birra o un whisky – posso prepararlo o magari offrirlo. Poi faccio qualche domanda sull’anomalia, come se ne me fossi accorto per caso. Alcuni clienti mi rispondono generalmente, ma ogni tanto succede che mi guardano a lungo vedendo nascere dentro di loro la voglia di parlarne, di liberarsi, di raccontare il loro segreto. E poi, spesso, la notte e l’alcol fanno il resto.
Così ho scoperto un camionista che aveva camuffato il nome di un suo amante lungo la spina di una rosa del tatuaggio sul braccio, un manager che aveva il braccialetto comprato dalla madre a Fatima, una donna che aveva dei vecchi orecchini di un lontano amore usati come portafortuna, un uomo che indossava calzini verdi perché da piccolo aveva fatto un sogno in cui quel colore lo avvolgeva e lo proteggeva, un viaggiatore che portava sempre in tasca cinque pietre, una per ogni posto meraviglioso visitato.
Elementi fuori posto – quelli che non funzionano alla perfezione – che finiscono per caratterizzarci. Quelli che finiamo per amare di più. Si dice in giro che, al giorno d’oggi, si condivida ogni cosa, soprattutto in rete attraverso i social network. Si sbagliano. Tutti abbiamo un segreto, un difetto, una particolarità che ci portiamo dentro, di cui, ogni tanto, abbiamo bisogno di parlarne. E stasera, stasera tocca a me.
La mia anomalia è completamente diversa. Non me la porto addosso, né si trova in un museo. Ma è qui, nell’albergo dove lavoro. Il posto è piccolo, sono solo sedici stanze, ma è pulito e illuminato bene dal lampione della strada o dal sole che all’alba sembra trasformare il pavimento giallo dell’atrio nei girasoli di Van Gogh.
Il mio turno inizia un’ora prima della mezzanotte e finisce verso le otto. Il mio collega arriva sempre in ritardo. Le nostre colazioni sono abitudinarie. Dialoghi di due quarantasettenni che non sanno bene di cosa lamentarsi. Prima di salutarlo e andare via, faccio il giro per le stanze libere per prendere gli oggetti che i clienti hanno dimenticato, prima che la ditta delle pulizie delle dieci lo faccia al posto mio.
I clienti lasciano di tutto: occhiali da vista, medicine, libri, una volta perfino una piccola spesa del supermercato. Io li raccolgo e li dispongo con cura in una vetrinetta rosso opaco collocata all’ingresso, subito dopo la porta di entrata. E questi oggetti abbandonati rimangono lì. Disposti nel miglior modo tra due mensole, in attesa di qualche cliente che passi a reclamarli. Ma ritornano in pochi. Ogni tanto qualcuno si ferma e osserva la vetrinetta. Ma nessuno mi domanda nulla. È quella la mia opera d’arte. Tutti i pezzi hanno una storia, e hanno – ovviamente – anche l’anomalia, il difetto nascosto, il tratto che non funziona alla perfezione. Quello che amo di più.
Quando la notte diventa noiosa prendo tutti gli oggetti dimenticati da dietro il vetro. Li metto in ordine sul tavolo della reception e passo uno straccio per togliere la polvere. Come se fossimo dentro a un museo.
I primi che afferro sono i rossetti. Ce ne sono una quindicina. Sono di marche francesi, usati a metà o quasi intatti. Io, se fossi una donna, non li perderei mai. Hanno l’incredibile possibilità di alterare il loro volto, darsi slancio, cercando di essere più aggressive o più dolci o, semplicemente, di nascondere qualche imperfezione. Cosa avrei dato per avere quest’opportunità quando ero piccolo. La mia vita sarebbe stata più semplice se il taglio dei miei occhi, il sorriso e i tratti del naso non avessero ricordato a mia madre quelli di mio padre, l’uomo che lei odiava e che ha odiato fino alla fine.
Nella vetrinetta, nello stesso ripiano, ci sono tre sciarpe. Sono di marche sconosciute, comprate in qualche bancarella del centro o in qualche Paese straniero. Hanno riscaldato una sera e sono state dimenticate il giorno dopo. Quella a righe bianche su sfondo giallo ricorda l’unica cosa che dimenticò mio padre. Ancora oggi è per me davvero incredibile come quell’uomo avesse finto di essere malato, avesse aspettato che mia madre andasse al lavoro e io all’asilo e fosse scappato portandosi tutto con sé, tranne quella stupida sciarpa. Me lo immagino i giorni precedenti mentre pianificava la fuga nei minimi particolari: i vestiti già stirati, la valigia recuperata dalla cantina con una scusa e il biglietto aereo verso l’Argentina. Chissà dov’è ora quell’uomo, spero che qualunque cosa stesse cercando lontano da noi, non l’abbia trovata.
La mia sciarpa preferita però non è quella ma un’altra di seta. Ha una tonalità di rosso intenso come quello che usava Caravaggio o come i capelli di Nina. La sistemo al centro in modo che il suo colore acceso richiami il rosso della vetrina.
Sulla seconda mensola, quella un po’ più in alto, ci sono un mucchietto di gratta e vinci scarabocchiati e biglietti del superenalotto. Li conservo anche se nessuno verrà mai a reclamarli. Mi piace guardarli, pensare a quanta energia, passione e speranza ci sia stata tra le dita che stringevano quei piccoli pezzi di carta plastificata. Ricordo che a casa erano infilati dappertutto, tra i fornelli incrostati, tra i panni lasciati sul divano, dentro le scatolette di tonno vuote usate come portacenere. Era l’unico modo per vedere una luce negli occhi di mia madre. Dopo quell’attimo, lei si voltava e tornava a ristendersi sul letto, ignorando il bicchiere d’acqua e gli antidepressivi sul comodino. Chiudeva gli occhi e lentamente si incurvava in posizione fetale.
Come si convince qualcuno a volersi bene?
In quegli anni tutti mi ripetevano di starle vicino, di farla sentire amata. Ma non ci riuscivo. Il suo sguardo mi faceva sentire colpevole. Ero io il problema, anzi, ero io che le ricordavo con il mio volto qual era il suo di problema. Il suo errore più grande. Quello fatale. L’unica cosa che per me avesse senso fare, era comprarle quei gratta e vinci e, ogni tanto, qualche piccola riproduzione di tristi quadri di pittori fiamminghi, i suoi preferiti.
Sulla stessa mensola c’è un piccolo elefante giallo di peluche con la scritta Tokyo evidenziata sul petto e un braccialetto d’argento con un koala al centro. Provengono da posti dove non sono stato e dove non andrò mai. Sulla sinistra c’è un budda amaranto e un grande rosario con una croce bianca a grani neri. La religione ti fa star bene. Avere un Dio è un potere. Ti fa sentire nel giusto. Meno solo. Ti regala l’illusione che l’esistenza abbia un senso, che la vita sia come l’O, il cerchio perfetto di Giotto.
L’ultima cosa che prendo dalla vetrinetta è lo specchietto di Nina. Quest’ultimo oggettino rosso è l’errore, un impostore. È l’unico che non appartiene ad alcun cliente, a nessuno che abbia varcato la soglia di questo albergo. È il detrito di un passato che non esiste più, il rottame superstite di tutte le serate insieme a lei. Notti interminabili dove la guardavo ballare strafatta in quel suo modo impacciato. Occhi bassi, bocca impastata e mani chiuse come pugni contro il mondo. I pomeriggi erano persi tra il sesso e la sbornia, i film scemi e la ricerca del senso della vita. Tra le mie installazioni e i suoi libri universitari. Tra il niente e l’invenzione. Il rapporto con Nina era qualcosa di nuovo per me. Non era solo sesso, empatia e condivisione. Mi ricordava gli strani liquidi che vedevo fondersi e cambiare colore nei laboratori pomeridiani di pittura. Era qualcosa di chimico. Particelle molecolari che si univano e separavano. Si scontravano e si trasformavano. Era tutto confuso come un quadro di Jackson Pollock. Nessun paesaggio, nessuna rappresentazione. Era qualcosa che andava oltre tutte le definizioni romantiche, estetiche e morali. Era amore, ora lo so. Non so invece cosa fossi per lei. Sicuramente una novità rispetto a tutti i suoi amici universitari o la possibilità di parlare di arte invece che di medicina.
Forse solo un modo per distrarsi dai corsi universitari. Forse solo una scusa per litigare con i suoi.
Sembrava felice, anche se, più passava il tempo, più la sua fase autodistruttiva degenerava. Era sempre strafatta e troppo distratta durante le lezioni di anatomia. Ha iniziato a saltare degli esami, ad abbassarsi la media. Era ovvio che la stavo rovinando.
Come si fa a convincere qualcuno a volersi bene?
Io la stavo distruggendo, come ripeteva suo padre. Ho sempre saputo che aveva ragione. Ero io il problema, ero io la peggiore imperfezione di Nina, ma quella volta non ho permesso che la logorasse da dentro. Anche lei no.
Lo specchietto rosso di Nina va tenuto con cura perché è rotto, perché lei l’ha scagliato forte contro di me. Quella è stata l’ultima volta che l’ho vista, circa vent’anni fa. Lavoravo in questo albergo solo da pochi mesi e non vedevo Nina da circa un anno, da quando le avevo detto che l’avevo tradita a Bilbao con un’assistente della gallerista d’arte che mi ospitava. E lei ci ha perfino creduto.
Non mi piace ricordare il momento in cui le mentii, però ricordo benissimo quando mi ha lanciato contro lo specchietto. Lei passeggiava con alcuni suoi amici universitari. Dallo stupore del suo volto ho capito che non era lì per una ragione ma solo per caso. Dopo quel primo momento di confusione i suoi occhi si erano fermati per un attimo, poi erano diventati fuoco. Aveva cercato qualcosa dalla borsa e, dopo qualche secondo, questo oggettino rosso era volato con forza contro di me accompagnato da urla e accuse. Aveva i capelli rossi legati all’indietro, scarpe basse e il palmo della sua mano destra sporco di inchiostro, il segno di quei mille evidenziatori che utilizzava quando sottolineava i suoi libri. Aveva ripreso a studiare. Mentre andava via ho avuto la sicurezza di essere riuscito a non sfasciare anche la sua vita.
Come si fa a convincere qualcuno a volersi bene? Con tutti i mezzi necessari. Tutti.
Non ho mai portato lo specchietto rotto di Nina a casa mia. Non sono riuscito nemmeno a buttarlo via. Il suo posto è lì, a sbilanciare, a rendere asimmetrica la vetrinetta che, qualche volta, con la luce artificiale della notte sembra racchiuda le stesse solitudini dei quadri di Edward Hopper.
Quello specchietto è il particolare invisibile. L’errore. L’anomalia nascosta nelle sfumature di rosso opaco. L’inganno dell’autore, il ricordo di un amore lontano.
È il pezzo che non funziona alla perfezione, quello che amo di più.