Three Faces

La terza faccia della medaglia

La graziella blu, un racconto di A. Rosso || Street Stories


La graziella blu

di Amanda Rosso

Illustrazione di Marcho

Adriano Ferrari aveva conosciuto il Bambino brevemente, la cartelletta di plastica a pois due banchi a destra del suo in quinta elementare, nella fretta tipica delle infanzie un po’ spiantate.
Un padre a Londra, macchinista a Heathrow, una madre casalinga a Bordighera, l’avamposto inglese del Ponente ligure, roccaforte del turismo coloniale e dell’architettura vittoriana della Biblioteca Civica. I Natali a dar da mangiare ai cigni sulla Serpentine ghiacciata e le estati a far la schiuma ad Ospedaletti assieme alla combriccola di Inglesini tisici in villeggiatura. Sua madre ci teneva che facesse amicizia con quelle strane creature dagli accenti incomprensibili, così diversi fra loro, e a lui non dispiaceva neanche troppo, se non fosse che qualcuno di loro, ogni tanto, passava senza annunciarsi dalla vacanza direttamente al Creatore.

Ad Adriano era rimasta quella fretta distratta appiccicata ai sonnolenti, ma rapidi passi verso la stazione di Surray Quays, al buio, le mattine fosche di novembre. Da che sua madre aveva raggiunto, anche lei senza molte cerimonie, il Creatore, gli inverni londinesi si erano dilatati in primavere piovose, estati afose e autunni pungenti. Zia Elvira, anziché compagna irrinunciabile di briscola chiamata e ravioli al sugo di coniglio ogni domenica, era diventata un pacco di lettere legate insieme da un elastico di gomma verde scuro e scorte di dolciumi spediti una volta al mese con la Posta Prioritaria.
Si ricordò dell’ometto cencioso seduto sui gradini della chiesa, ad ogni ora del giorno e della notte, o così sembrava a lui all’epoca, birra Moretti e una coperta sdrucita come unica compagnia.
I suoi amici passavano dritti, obbedienti alle raccomandazioni di mamme severe e nonne preoccupate, ma Adriano sentiva una strana nausea infiltrarsi negli anfratti di quei pomeriggi a far rotolare i copertoni dalla cella frigorifera del macellaio fino alla legnaia di Umberto Martini. La cittadina quieta e minuscola, una sola strada diritta ad affettarla in due; allora, o forse erano solo i suoi ricordi che si erano persi nella tenera nostalgia della sua infanzia, il suo paesino era un luogo troppo accogliente perché solitudine e disperazione potessero prendervi residenza.
Londra invece era una costellazione di senzatetto accucciati a terra, cani, coperte, messaggi sui cartoni, pennies tintinnanti nelle tazze di Starbuck’s a portar via e incipit appena accennati di conversazioni mai iniziate. Oltrepassando con un rapido cenno del capo la ragazza romena che si aggirava sempre intorno alla stazione pensava a sua madre che gli aveva insegnato a voltarsi dall’altra parte, e anche al Bambino.

Era il Bambino ad accompagnare Adriano quella mattina di gennaio, mentre esorcizzava la foschia torbida con il profumo un po’ terroso del primo caffè della giornata, al baracchino di Islem, alto e smilzo, stretto nel suo cappotto troppo grande imbottito di piume d’oca, rallentato nei movimenti dal sonno e dalla brina. Accennava alle volte ad una moglie intransigente e una figlia piccola che lo comandava a bacchetta, e di cui mostrava a tutti le foto sul cellulare. Somigliava a lui, gli stessi occhi furbi e il sorriso aperto di chi non saprebbe mentire. Anche Islem in fondo, seppur con tutte le sue mirabolanti avventure ispirate a uno strano miscuglio di commedie romantiche e romanzi d’appendice, non rideva mai se non per divertimento, e non assecondava Adriano solo per buona educazione. L’altro, dal canto suo, lo ascoltava sempre in silenzio, annuendo di tanto in tanto. Era un uomo di famiglia, diceva, ma non lo era sempre stato. Gli piacevano le donne, le ragazze, le mamme. Tutte, si sa. Ma il suo entusiastico ammirare faceva quasi di lui un esteta, più che un cascamorto. O almeno, questo suggeriva Adriano a se stesso mentre lo lasciava compiacersi di quelle imprese sempre troppo esagerate per essere vere, ma di indubbio intrattenimento. Sorrideva un poco, Adriano Ferrari, ogni mattina alla stessa ora, prima di imboccare la traversa per la fermata dell’Overground di Surrey Quays e lasciarsi risucchiare dal tempo scandito in fermate, porte automatiche e scale mobili. Non serviva dicesse niente, perché certe cose si capiscono, anche alle sei e trentacinque, quando il mondo è buio e la coscienza ancora appisolata.

Adriano era un uomo per lo più noioso, e per di più perfettamente consapevole di esserlo. Non si era mai inimicato nessuno, nemmeno lo sconosciuto a cui aveva soffiato l’unico taxi libero la mattina di Natale, in preda alla fretta tipica dei ritardatari. Gli aveva indirizzato un vago “Che vuole farci buon uomo, non si abbatta, è Natale!” ed era scomparso nell’abitacolo, inseguito dalle recriminazioni offese dell’altro. Ma si faceva vanto di essere capace di stare allo scherzo, almeno, e di inventare storielle divertenti di bassa lega per intrattenere i suoi pochi amici e fin troppi colleghi. Ironia, talvolta sarcasmo, quando pioveva, con un Evening Standard intrappolato sotto il braccio e un ombrellino pieghevole a far da padrone.
Accennava una battuta sull’imprevedibilità del tempo di Londra quando entrava nell’atrio del palazzo che ospitava il suo ufficio, commentava gli esiti delle partite della Premier League con il portinaio, ironizzava sulle elezioni del Primo Ministro, sulla disoccupazione dilagante e sulla Brexit. Non sembrava importargli di niente, se non dell’effetto comico che le sue parole esercitavano sul suo pubblico variegato. Poteva essere un impiegato della metropolitana, un autista nervoso, una fioraia dagli occhi a mandorla. Uno per ogni giorno della settimana. Anche quando non aveva niente da dire, Adriano Ferrari, si riservava il diritto di dirlo comunque, semplicemente perché anche la più spaventosa delle notizie, se abbrustolita ben bene con una sana dose di umorismo spicciolo, diventava un boccone quasi digeribile. Così si era detto, e così era stato. Non prendeva più niente sul serio, non più.
Ma nemmeno lui era sempre stato così.

Un tempo conosceva il Bambino, in quinta elementare, nei tragitti interminabili dal complesso abitativo dietro la stazione di Ladbroke Grove fino alla scuola elementare, calzoncini corti anche d’inverno e la pretesa sciocca di non avere mai freddo. Forse parlavano di giochi, del West Ham, di grandi ecosistemi, di noia e di compiti, sfuggendo agli sguardi sospettosi delle ragazze alla pari dei bambini ricchi di Notting Hill, intente a scambiarsi aneddoti agghiaccianti sulle loro famiglie, chiacchierando distrattamente in italiano, francese, spagnolo, russo. Procedevano a due a due sul marciapiede, processioni di lamentele, imperdonabili mancanze, accorati appelli e promesse di indulgenza.

Si era trovato a pensare al Bambino quello specifico martedì per via di John Grisham. Era sull’Overground, stretto fra pendolari lamentosi accalcati nel solito umido scenario di occhiali appannati, odore di carta di giornale, dentifricio e fiato, e stava spiando un romanzo di John Grisham da sopra la spalla del ragazzetto in completo mal stirato aggrappato al palo accanto a lui. Un libriccino dalla trama ritrita che non avrebbe letto nemmeno durante le sue peggiori agonie della domenica pomeriggio.
Aveva pensato al Bambino perché era un martedì di gennaio l’ultima volta che l’Evening Standard gli aveva dedicato un trafiletto. Da quel giorno tutto era rimasto in bilico, la notizia calda si era intiepidita sfilacciandosi e quotando se stessa. Aveva cozzato con la frenesia del Natale e le ridondanti eresie del Capodanno, per poi scemare nell’immobilità zoppicante di gennaio. Camminava di corsa per mano a suo padre per riuscire ad infilarsi nella metropolitana diretta a casa prima della ressa delle cinque del pomeriggio. Ricordava il baracchino dei giornali, una strana pioggia sottile che cadeva di sbieco e gli gocciolava sugli spessi e tanto detestati occhiali da vista dalla montatura rotonda, e la foto sgranata del Bambino, a colori, a penzolare da una prima pagina ripiegata su se stessa abbandonata su un sedile vuoto. Una donna, i lunghi capelli drappeggiati in un turbante dai colori vivi, gli aveva vagamente sorriso, probabilmente incerta se lasciargli scoprire cosa veramente fosse successo al bambino in prima pagina o nasconderlo alla sua vista con un gesto studiatamente distratto. Adriano non sapeva ancora leggere bene e suo padre era troppo di fretta perché avesse il tempo di decifrare quell’intricato girotondo di maiuscole e minuscole, ma delle parole che era riuscito a leggere, due, certamente, gli erano rimaste impresse, tormentando i suoi trenta minuti abbondanti di viaggio fino alla fermata della Central Line: Tragico incidente. Il Bambino era in bicicletta quando La Vettura Non Identificata lo aveva investito, sulla sua Graziella blu che lamentava continuamente essere “da femmina”, regalo di una nonna che aveva investito nel colore tutta la mascolinità che poteva concepire.

Adriano non aveva pensato al Bambino e alla sua Graziella blu letteralmente per via di John Grisham, ma dell’unghia dell’indice destro del suo lettore, inumidito di saliva per voltare la pagina del tascabile. Era bluastra, rotta, forse intrappolata contro una portiera. Aveva pensato all’unghia rotta del Padre del Bambino, lentigginoso e abbronzato, e al pomeriggio di maggio sulla Serpentine quando un cigno agitato lo aveva beccato in faccia, e così avevano corso fino al St.Mary’s Hospital per fargli mettere dei punti al sopracciglio. Il cerotto era blu quasi quanto la sua Graziella. Accovacciati accanto alla statua di Peter Pan, mentre premeva sulla ferita con il fazzoletto da tasca a pallini rossi, gli era sembrato Adulto e Invincibile, anche con la sua unghia rotta. Era parso piccolo e leggero, dopo, al funerale del Bambino, stretto nel suo completo preso a nolo e affondato nei mocassini scricchiolanti che avevano scavato tante piccole vesciche sotto i talloni.

Non ricordava che aspetto avesse la Madre del Bambino perché era rimasta seduta immobile ad occhi fissi per tutto il tempo, anche quando il coro della Westbourne Grove Church aveva intonato l’ultimo inno e la bara aveva come fluttuato nell’aria fino all’uscita, ma ricordava l’uomo accovacciato sui gradini, scalzo e macilento, il suo ukulele scordato e il suo dente d’oro. Gli aveva sorriso, e si era sentito in colpa per averlo fatto. Sua madre lo avrebbe strattonato un po’ per la camicia, maleducato, lui, che sorrideva ai funerali.
“Sembri uno a cui non interessa niente del morto”
Ma i suoi occhi si erano abituati ai corpi, nell’ingorgo schizofrenico della città.
Il giorno in cui la Vettura Non Identificata aveva investito il Bambino, il Padre del Bambino era accanto a lui, forse quattro passi e mezzo, fuori dall’off licence sotto il ponte della stazione di Ladbroke Grove, a comprare le sigarette. Pall Mall Blu da dieci, perché stava cercando di smettere.
L’ultima volta che l’aveva visto, il Padre del Bambino era accoccolato accanto alla cassa automatica del Sainsbury’s dietro la stazione, quattro passi e mezzo di distanza dall’off licence dove aveva dimenticato le sue Pall Mall, alla fine. Adriano fingeva di passare per caso, anche dopo anni, con quella nausea sul palato che era la stessa di sempre. Sedeva al secondo piano della North Kensington Library a cincischiare con un National Geographic dell’82 e lo osservava dalla finestra. Non si erano più parlati da quando la Vettura Non Identificata aveva investito il Bambino e la sua Graziella blu; lui aveva cambiato casa, scuola. I genitori del Bambino avevano divorziato, si era lasciata sfuggire la sua vecchia maestra elementare di passaggio a casa sua per raccomandargli qualche lettura estiva.
“Non se ne viene mai davvero fuori” aveva dichiarato semplicemente.
Al bambino che era stato, tutta la faccenda pareva decisamente più complicata di così, ma “Gli Adulti non si contraddicono”, lo avrebbe rimproverato sua madre, “sta male”.
Di certo il Padre del Bambino faceva sempre finta di non riconoscerlo, e lui altrettanto, ma osservava consumarsi la pelle sulle ossa, i capelli lunghi, radi, unti. I capillari violacei del viso scarno che danzavano un ritmo mortifero con le lentiggini che tanto aveva ammirato e invidiato.

Si guardavano a malapena, anche quando Adriano era diventato adulto.
Occhi vuoti fissi sull’asfalto, le scriminature del marciapiede, la linea di mezzeria che il Veicolo Non Identificato aveva aggrovigliato attorno ad una frenata vana prima di investire Il Bambino.
Non una Moretti, ma un vinaccio di Poundland più stomachevole dell’aceto. Non una coperta sdrucita, ma una scatola di cartone rosicchiata ai lati e chiazzata di impronte infangate.
Un gargoyle di pietra, scavato nell’inedia e nella ripetizione. Ormai tristemente avvezzo ai cenci senza volto che Londra rigurgitava incurante ad ogni semaforo, Adriano non voleva demandare all’abitudine la loro esistenza. Cercava di imprimere nella mente tutti i dettagli, i colori, le forme, i visi delle persone per non lasciarli scivolare via nella calca dei marciapiedi affollati di turisti e pendolari frettolosi. Si azzuffava con i dettagli, occhieggiava colori e forme, plasmava identità.
Mr. Ferrari, come era ormai ossequiosamente abituato a sentirsi chiamare, osservava rapito l’unghia rotta e livida del ragazzetto accanto a lui sull’Overground, e si chiedeva se prima o dopo, negli occhi del Padre del Bambino, la Vettura Non Identificata aveva frenato in tempo e il Bambino, la sua Graziella blu e il Padre del Bambino erano tornati all’edificio di mattoni grigi a due portoni dal suo con le Pall Mall Blu da dieci e una barretta Snickers. Forse il Padre del Bambino aveva mantenuto la sua promessa di smettere di fumare e la mamma di Adriano aveva ritrovato la voce dopo la Festa del Patrono dove si era presa la polmonite.

Lui ci pensava sempre al posto dove vanno le cose che non sono successe.
Avrebbe forse ricordato di più del Bambino sulla Graziella Blu e della Vettura Non Identificata che lo aveva investito all’incrocio con Portobello Road, a quattro passi e mezzo dall’off licence, di suo padre ancora un po’ abbronzato dopo sei mesi a fare il cuoco su una nave da crociera nel Mar Mediterraneo. Si sarebbe lasciato intiepidire dai dettagli, una gomma sgonfia, un the troppo caldo, o l’espressione di sua madre mentre accendeva l’ennesima sigaretta lamentandosi del caschetto di Raffaella Carrà; ma la cordiale voce registrata dell’altoparlante aveva annunciato la sua stazione con l’accento piano e monotono dell’artificio e Adriano Ferrari era sceso nel mondo, ancora una volta, di fretta.

La graziella blu, un racconto di A. Rosso || Street Stories

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