L’ultima volta
di Silvia Conforti
Illustrazione di Coito Negato
Marinella è una figlia. Ha un nuovo brufolo, proprio in fronte, centrale e rosso come un tilaka indiano. Lei odia i foruncoli e si lamenta per questo. Nonostante abbia ogni cosa al suo posto, brufoli compresi, Marinella non si piace.
È ancora a letto e, mentre con la punta dell’indice sposta una ciocca di capelli dalla fronte, avverte il bozzo neonato, si innervosisce, però si sforza di ignorarlo perché sa di dover aspettare. Stasera sarà abbastanza maturo e, alla luce della lampada sopra lo specchio del bagno, lo schiaccerà. Lo sa, esploderà come esplode la rabbia repressa. E lei la rabbia la conosce; un po’ la smaltisce sul quadrato del ring, picchia sodo, le sue avversarie la temono, perfino il sacco da boxe sembra restringersi quando gli si avvicina armata di guantoni.
Per ogni incontro vinto, un nuovo tatuaggio sulla pelle candida, una sorta di barriera, copertura fittizia a proteggere la sua fragilità, l’inganno per chi la crede una tosta. L’ultimo è stato più complicato, doloroso e stravagante del solito: un uomo con la testa di toro, indosso solo i pantaloncini rossi da pugile, pettorali da builder e posa plastica, la classica, con i guantoni in posizione di guardia. Campeggia sulla sua coscia sinistra, grande più o meno quanto il quadricipite femorale.
Lei si nasconde dietro ai muscoli, agli allenamenti sfiancanti, ai tatuaggi sfoggiati come medaglie al valore, gli spazi intimi dove imbuca disagi e tristezza; e una paura sorda; e una rabbia feroce sempre pronta a mangiarsi porzioni del suo senno, un morso dopo l’altro, un buco dopo l’altro, fino a ridurlo a una grande fetta di Emmental.
Oltre al foruncolo ha molte fantasie inconsistenti, i suoi bei sogni che tiene a bada come predatori pronti ad abbrancarla. Alle illusioni, lo sa, troppo spesso seguono le delusioni e quelle fanno più male di un montante destro al mento.
Il mondo reale, il suo, è difficile da digerire. Tra le pareti di casa si sforza di ritagliare spazi di serenità, ma è una serenità sulla quale non può fare affidamento. È una serenità distratta, inciampa di frequente e cadendo finisce per rompersi; lei quei pezzi non riesce più a farli stare insieme, anche se continua a provarci.
Marinella esce con le amiche, ha una storia d’amore, va in palestra, la sera studia fino a tardi e quando arriva a letto è tanto stanca. La tensione dell’attesa però è dispettosa, la agita e non le permette di prendere sonno. Si augura con tutta sé stessa che non si ripeta la storia della notte precedente e di quella ancora prima, e di così tante notti da non ricordare neanche più quando siano iniziate. Non ci crede, ma spera.
Un’altra femmina, nella stessa casa, allo stesso tempo figlia e madre, i sogni li ha chiusi da tempo in una valigia riposta sopra l’armadio, coperta da uno strato di polvere alto un dito. Le occorrerebbe una scala troppo alta per poterli riacchiappare.
Ora sono i ricordi a tenerle compagnia, l’unico baluardo contro la disperazione: li va a pescare nelle acque torbide della memoria e, una volta fuori, li lascia agitarsi e boccheggiare come pesci in un secchio asciutto, finché non muoiono e la realtà non prende il sopravvento.
In cucina, la sera, dopo aver lavato i piatti e spazzato le piastrelle di graniglia si mette davanti al televisore e si concede una puntata della sua serie preferita. Poi, sui titoli di coda, ripete lo stesso rituale: avvicina la sedia allo spiraglio della finestra, si accende una sigaretta e soffia fuori la prima boccata di fumo, la più gustosa e densa. Continua distratta mentre il suo sguardo si perde sulla strada illuminata dalla luce arancione piovuta dai lampioni. Questi sono momenti solo suoi dove cerca di dare la giusta collocazione ai pensieri spaiati come calzini di colori diversi.
Le sembra così lontano il tempo in cui aspettava, proprio a quella finestra, l’arrivo del suo giovane marito: appariva dal fondo della strada con la sua andatura sicura, alto, robusto, dritto, con una massa di muscoli sodi e gonfi, tanto sfacciati da tirare i bottoni della camicia. La cercava con lo sguardo puntato in alto, il suo mezzo sorriso sempre un po’ enigmatico, e lei già si agitava per la contentezza. Lo salutava con la mano, indugiava ancora un attimo ai vetri e poi svelta a buttare la pasta nell’acqua bollente e a sistemare le ultime cose sulla tavola.
Aver gustato la felicità e poi averla persa è come il cono gelato caduto per terra dopo poche leccate. Quando si infila nel grande letto è molto stanca, l’attesa smorza il respiro anche a lei e non le permette di prendere sonno.
La terza donna, la più anziana e ormai solo madre, se solo avesse più energie e gli anni non le pesassero così tanto addosso, avrebbe preso in mano il destino di sua figlia, l’avrebbe salvata e con lei Marinella. Le piace credere che sia così. Ma la vecchiaia è rassegnazione, un adagiarsi lento e costante allo scampolo di vita rimasto.
Bevute le dieci gocce di una medicina dal nome troppo difficile da ricordare, sciacqua il bicchiere, lo riempie di nuovo, lo poggia sul centrino bianco del comodino e si corica. Dopo tre Ave Maria lancia un bacio al quadro della Madonna e alla foto ingiallita di suo marito, con l’espressione da animale ammaestrato, impacciato nell’abito migliore.
Se lui fosse ancora vivo sarebbe tutto diverso. Le piace credere anche questo.
Le gocce fanno presto effetto, il sonno prende il sopravvento sui ragionamenti e rende il risveglio meno violento; le permettono di restare ancora un po’ intontita in un torpore incosciente.
Ecco, Marinella ha sentito il rumore temuto, si solleva dal cuscino, tende le orecchie, ascolta il tintinnio sinistro di chiavi poi, dopo un tempo che le pare infinito, la chiave giusta si infila nella serratura di casa e suo padre è dentro.
Sembra passata un’eternità da quando quel tintinnio significava gioia: lo aspettava sveglia per godersi i suoi baci prima di dormire; la proteggevano dai brutti sogni e il suo odore era ancora una garanzia di felicità. Adesso lo immagina come lo ha visto troppe volte, barcollante, goffo nel tentativo di mettere un piede davanti all’altro.
L’uomo urta il piccolo tavolo dell’ingresso, qualcosa cade a terra seguito dall’imprecazione di una voce arrochita dall’alcol; torna in scena il solito teatrino che le graffia ogni volta le orecchie, strappa lembi di pelle disegnata.
Lui chiama il nome di sua moglie, prima lo biascica sulla lingua impastata poi lo grida forte, come se lei fosse su un altro pianeta. In quel momento anche le mura di casa trattengono il respiro.
La gelosia lo sta sgretolando. Fosse fatto d’argilla sarebbe ridotto a un mucchietto di polvere. Con gli occhi spalancati e l’espressione di un pazzo entra in camera, è una furia, sbatte la porta sulla parete; il tonfo fa balzare il gatto fuori dalla cesta che, con il pelo dritto, si fionda a cercare un rifugio, il più lontano possibile dalla follia umana.
L’uomo respira veloce, si avvicina al letto, afferra la donna per i capelli e la trascina sul pavimento. Lei non ha da scontare peccati e niente da nascondere, il male del marito è un tarlo nella sua testa. Aspetta il peggio, stringe i denti fino a sentirli scricchiolare. Il peggio purtroppo arriva sempre e il dolore delle botte è forte, insopportabile e ingiusto.
Marinella si alza di scatto, butta via le lenzuola come se bruciassero, non avverte il freddo delle piastrelle sotto ai piedi nudi, calpesta e frantuma la custodia di un CD, ci scivola sopra, si riprende e corre con i battiti a mille in aiuto di sua madre. Vorrebbe stringere gli occhi per non vedere invece accende la luce: la donna è per terra, il sangue le cola dalle labbra e un fiore viola è spuntato al posto dell’occhio sinistro.
La figlia supplica il padre di smettere, lui continua a martellare la moglie di pugni, Marinella gli afferra prima un braccio, gli sfugge via, poi l’altro, lo trattiene a stento, per dare alla madre la possibilità di sfuggirgli.
La donna riesce finalmente a sottrarsi e scappa scomposta fuori dalla stanza. Lui la insegue gridando: «Troia io ti ammazzo, questa volta ti ammazzo…»
La raggiunge in cucina, la spinge giù sulla graniglia ben spazzata e continua a urlare mentre le tira calci, dove capita.
Urla e colpisce. Urla e colpisce. Urla e colpisce.
La rabbia di Marinella esplode come è esploso stasera il foruncolo sulla fronte: il luccichio della lama di un coltello dimenticato sul tavolo sembra chiamarla; lo afferra e non pensa, lo pianta nel collo del padre con tutta la forza guadagnata in palestra e ancora non pensa. Lui si volta, sulla faccia uno stupore amaro. Non grida più.
Un fiotto di sangue inonda il gufo stilizzato disegnato sulla maglia del pigiama di Marinella e continua a schizzare per la stanza a ritmo regolare.
Lascia cadere il coltello e si guarda la mano. Vorrebbe non le appartenesse.
Questa volta è stata l’ultima.