L’Eccidio di Piazza Tasso
di Dario Landi
Illustrazione di Bladi
Qualcosa gratta l’asfalto. Mi volto. Un bambino gioca a far rotolare un vecchio cerchione di bicicletta, ma arrivato a pochi metri da me si ferma e mi guarda, mentre il cerchio si rovescia a terra con un suono sferzante.
La piazza attorno gorgheggia di chiacchiere, altri bambini che si rincorrono, pettegolezzi, e io devo essere strana, ai suoi occhi, seduta qui, sola e zitta.
Mi accorgo che non sta guardando me, ma qualcuno alle mie spalle. Mi volto, lo vedo. I capelli neri sono impastati dalla polvere delle macerie, la camicia è più grande di almeno due taglie e tiene le mani strette l’una nell’altra per nascondere il tremore. Si siede all’estremità opposta della panchina. Il vento caldo mi spinge nelle narici il tanfo del suo sudore rancido. Il mio non dev’essere diverso. Il bambino afferra il cerchio, lo rimette in equilibrio e lo spinge via. Lui tamburella le mani, se le passa sui baffi.
«C’è da organizzarsi ancora» dice.
Lo guardo senza sbattere le palpebre.
«Sai resuscitare i morti, Luciano?» rispondo.
Lo scuote un tremore così forte che penso si sgretoli. Chissà che fatica sta facendo per continuare a esistere, sbranato com’è dalla consapevolezza che siamo tutti già morti.
«Siamo ancora abbastanza» si affretta a dire «e ci hanno chiesto-»
«Ci hanno chiesto? Chi è che ci chiede ancora qualcosa?»
Prima che possa rispondermi il grido di una madre esplode nella piazza: «Venite qui, babbo ha detto di stare in casa». Tre bambini, senza ascoltarla, schizzan fuori da una porta, e si uniscono agli altri che scorrazzano per i giardini. Il vento alza una folata di pulviscolo. Flemmatica, una vecchia seduta sull’uscio di casa solleva una mano per pararsi gli occhi.
«Il CTLN, e a loro lo han chiesto gli Alleati» dice Luciano. Ha gli occhi bagnati, le guance accese. Credo abbia la febbre.
«Gli Alleati stanno arrivando. Quello che potevamo fare l’abbiamo fatto. Ora basta, aspettiamo che vengano a liberarci»
Luciano batte i denti.
«Dobbiamo occupare la tipografia del Valecchi, in viale dei Mille».
Non mi ha sentito. Rido.
«Una bella trappola per topi» dico. Solo ora sembra accorgersi che ci sono davvero, che non sono un fantasma anch›io. Alza la testa e mi guarda, le labbra spalancate che inspirano a fatica.
«Quanti saremo rimasti in tutto, venti?» gli chiedo.
«A-» balbetta «a venti non ci arriviamo». China la testa. Toglie un fazzoletto sudicio di tasca e se lo passa sul collo lucido di sudore.
Mi volto dall’altra parte, butto lo sguardo giù per via della Chiesa. I bambini di poco fa m’attraversano la vista. Uno si ferma, s’inginocchia e si toglie le scarpe.
«Avremo sì e no dieci fucili e qualche pistola, e il laboratorio è andato, niente bombe né granate».
«Hanno detto che ci riforniscono» insiste.
Afferro fra le dita l’orlo del vestito, lo stiro. Appena ho passato la mano le pieghe tornano, ormai sono impresse nel tessuto.
«È oltre la ferrovia, comunque»
«E allora?»
«Cosa credi, che Firenze la conquistano in un giorno? Prima arrivan qui, poi dovran passare l’Arno. E se i tedeschi fan saltare i ponti li voglio vedere. Poi si attesteranno un po’ più indietro. La città andrà strappata casa per casa, vicolo per vicolo. E intanto noi, di là dalle linee nemiche, chiusi nella tipografia a farci ammazzare».
I bambini han fatto il giro della piazza.
«No Luciano» dico. «A cosa serve che muoia anch’io?»
Lo guardo. Acqua gli cala giù per le guance. Non sono neanche lacrime. Sollevo una mano dal grembo e mentre l’altra ancora arriccia l’orlo del vestito, gliela poggio fra le scapole. I singulti la fanno sobbalzare, le vertebre della schiena scarna mi pungono il palmo.
«Non possiamo non far niente e rimanere fermi ad aspettare» dice singhiozzando.
Non può dire che non vuole portare il dolore per tutta la vita, non vuole ammettere che preferisce morire anche lui, e che Bruno, il Babbo, Pilade e tutti gli altri son stati quasi più fortunati, perché non dovranno preoccuparsi di ricordare, di trascinarsi la pena mentre tutti, attorno, dimenticano.
I bambini si son messi a giocare nella rena d’un cantiere. Quello senza scarpe lo riconosco. È Ivo, il figlio dei Poli. La madre, sulla soglia, li guarda preoccupata, poi alza lo sguardo su viale Petrarca. La mano mi cade nel vuoto. Luciano s’è alzato.
«Davvero non vieni?» mi chiede. «Noi andremo lo stesso. O anche io da–»
Un rumore lo interrompe, un grido.
«Ritorneremo!» bercia un tale vestito di nero, in piedi sul cassone d’un camion che s’è appena fermato nella piazza.
Dovrei alzarmi e scappare come stan già facendo tutti. E invece resto qui e penso che “ritorneremo” non ha senso, ancora non se ne sono neanche andati. Vedo il cranio del loro capo luccicare al sole. Sembra che stia per scoppiare a ridere, ma rimane serio, digrigna i denti. La prima fila s’inginocchia, la seconda sta in piedi, qualcuno resta sul camion.
Scappo. Lo scoppio dei fucili è un abbaiare di cani condotti al macello. Supero un anziano signore troppo grasso e lento. Lo crivellano alla schiena.
Luciano è già distante, sparisce dietro l’angolo di via del Leone. Io sento crepitare i colpi sempre più vicini, ho il fiato rovente. Laggiù, dove ora Luciano mi chiama affacciato all’angolo della strada, non c’arrivo.
Si spalanca una porta, mi ci butto dentro. Il muro si frantuma in un fischiare di schegge. Urto qualcuno, cado, batto la testa.
La voce ansiosa di una donna conta i figli che si riparano in casa.
«Uno, due, e tre»
Passi affrettati giù per il corridoio. Qualcuno piange «Mamma». Fuori ancora colpi di fucile.
Mi tocco la nuca, le dita si bagnano, sgusciano l’una sull’altra. Distendo le gambe, il sangue che sgorga m’impasta i riccioli, allenta la tensione. Starei qui distesa a dormire finché non arrivano gli Alleati. Chiudo gli occhi.
Mi scuote un lamento. Le palpebre pesano e faticano a sollevarsi, incollate dalle lacrime. Mi alzo. Di nuovo il lamento, in fondo al buio del corridoio. Quando arrivo nella cucina sento lo sgocciolio e penso che morirò, sto perdendo troppo sangue dalla testa. No, che stupida, non cola dal mio cranio, ma dal bordo del tavolo. Risalgo quella corrente vermiglia con lo sguardo, vedo un laccio bianco di polvere, la punta raggrinzita di una scarpa, un nodo, un altro laccio, un’altra scarpa e, infine, il piccolo Ivo. Le scarpe se le era tolte e le teneva al collo. Forse per questo ha corso più piano, forse per questo è rimasto ultimo, forse per questo si è preso una pallottola nella schiena e ora sta morendo sul tavolo, mentre i fratelli lo guardano attoniti e la madre si accascia sul pavimento col gemito di un ferro piegato. Mentre gli sfioro il piede, e sento l’ultima pulsazione affannarglisi nelle vene, penso che domani andrò a cercare i GAP rimasti, e ci organizzeranno per l’azione alla tipografia.