Klub Taiga
(Dear Darkness)
di Thea C. Efres

Io non voglio scrivere
Non voglio lasciare niente di significante al mondo
Non voglio lasciare la forma della parola scritta
Voglio negarmi e rompere con la storia che non ho scelto di me…
(Klub Taiga)
Innanzitutto, credo di dover dare una breve spiegazione del motivo che mi porta su queste pagine telematiche a essere ospite di Three Faces. Io non scrivo molto, non ho mai pubblicato niente – almeno di rilevante – e se sento il dovere di farlo in questa situazione particolare, lo faccio solo per un profondo senso di amicizia che mi lega al direttore Andrea Biagioni, poiché ciò è avvenuto su sua esplicita richiesta.
Prima di iniziare a scrivere questo articolo, imponendomi rigorosamente di aspettare che calassero le tenebre, un interrogativo mi ha creato un notevole turbamento – che poi è lo stesso turbamento che mi coglie ogni volta di fronte all’atto della scrittura: avrei potuto dire tutta la verità? Mi è stato assicurato dal diretto interessato che non me lo avrebbe negato e quindi eccomi qui, a costringervi in una lettura che mi auguro non vi risulti pesante e soprattutto, artefatta.
Vi dirò quindi che ho incontrato Andrea circa dieci giorni fa poco dopo la mezzanotte all’uscita dal Teatro Fabbricone dove, evidentemente, entrambi avevamo appena assistito allo spettacolo Klub Taiga di Industria Indipendente per Contemporanea 2020. In verità, non ci vedevamo da almeno dieci anni. Ci siamo lasciati cogliere da una lontana nostalgia e abbiamo pensato fosse l’occasione giusta per qualche ricordo di fronte a un buon whiskey, Jameson, Gold Special Reserve, tripla distillazione.

Ovviamente, ci siamo chiesti che avevamo fatto in questa decade, quali speranze avevamo realizzato e quali deluso e infine è venuto spontaneo domandarsi che diavolo ci facessimo lì. Domanda a cui è stato meno semplice rispondere di quanto possiate immaginare. Abbiamo risolto l’imbarazzo limitandoci a parlare di Klub Taiga. Lui era lì per lavoro, io per passione. Già questo segna la distanza tra le strade che abbiamo deciso di percorrere.
Scoprimmo inoltre, e con un certo stupore, che avevamo assistito praticamente ai medesimi spettacoli del Contemporanea Festival di quest’anno. Sei spettacoli e non ci eravamo mai veduti. Ne ridemmo e poi iniziammo a discutere su ciò che avevamo visto in quei giorni: due pollici su di entrambi per La Reprise di Milo Rau; pollice su per la realizzazione ma riserva sulla coesione della rappresentazione per The Mountain di Agrupación Señor Serrano; apprezzamenti sulla scenografia e sull’interpretazione per Varietà di Greta Francolini; rimandato Un/Dress di Masako Matsushita perché, ci dicemmo tutti e due quasi all’unisono, “mi aspettavo qualcosa di più pittorico”, ma decidemmo infine che le performance mal fatte sono ben altre e quella era semplicemente una “bella fase di evoluzione artistica, come accade per i bruchi”. Chiudemmo la rassegna sulle grosse aspettative per Memento Mori di Sergio Blanco il giorno successivo: non rimanemmo delusi.
E Klub Taiga? «Mai vista una roba del genere. Delle folli, delle incoscienti. Straordinario, geniale. Anche se non sono ancora sicuro di sapere cosa ho visto davvero. L’unica certezza è che in Contemporanea c’è sempre qualcosa che riesce a lasciarmi a bocca aperta. Quest’anno è Klub Taiga».
Fremeva, ma il suo tono sembrava turbato. Ne discutemmo ancora a lungo e alla fine mi disse: «Dovresti scriverlo tu il pezzo su Contemporanea. E dovresti scriverlo su questa performance». Gli dissi quello che ho detto a voi e cioè che io scrivo poco, principalmente per me, e che non amo pubblicare. «E sbagli, te l’ho sempre detto. Sei una delle migliori penne che conosca, anche se capisco perché non vuoi pubblicare. Ma non è questo il caso. Questo articolo lo devi fare tu, lo devi fare per me. Tu lo racconterai di certo meglio di quanto mai potrei fare io. E poi io non posso». Gli chiesi perché. «Perché è come si sente dire in Klub Taiga. Io non voglio più scrivere».

Avrei voluto insistere e capire il perché di quella frase, di quell’imposizione, ma sapevo per esperienza che non ne avrei tratto niente quella sera e che non era una buotade del momento. Glielo leggevo negli occhi che ben conoscevo, lo spleen. E non mi sentii di dirgli di no.
Ora immagino vogliate sapere che cos’è il Klub Taiga, ma io questo non posso dirvelo, non ho quella verità. Posso darvi la mia di verità, quello che a me è (ap)parso.
Ebbene, Klub Taiga è la fine, o meglio lo stadio finale della decadenza. Klub Taiga è un non luogo o, se preferite, il luogo dell’eterno non-ritorno, uno spazio indefinito che travolge il lato più primordiale dell’animo con immagini frammentate di ombre e luci, mentre nelle vene pulsa un rave electro-industrial mediorientaleggiante che sembra volerti esplodere in petto. La musica è stordente, le luci asfissianti, le ombre sempre pronte ad accoglierti in un vortice sul cui fondo puoi scorgere il centro esatto di quel buco nero a cui siamo ineluttabilmente destinati, e che sembra risucchiare ogni cosa intorno con un’ultima, intollerabile implosione di raggi e suoni. È il momento esatto in cui comprendi come deve essersi sentito David Bowman oltrepassato Giove, attraverso l’infinito. Solo.
Le persone intorno a te non esistono più e se a volte le percepisci, quasi ti arrecano insofferenza. Quelle sul palco invece non sono persone, sono fantasmi, proiezioni di movimenti e solo a tratti voci per parole che non sembrano avere più nessun senso. Discorsi da ubriachi, discorsi “tossici” e forse per questo così puntuali, ma in fondo nient’altro che bei versi in cui il tutto e il niente si amalgamano nuovamente nella loro essenza embrionale, che è l’insignificanza intesa – per assurdo – nel suo significato più profondo: l’assenza di segno.

“There was a word inside a stone
I tried to pry it clear
Mallet and chisel, pick and gad
Until the stone was dropping blood
But still I could not hear
The word the stone had said.
I threw it down beside the road
Among a thousand stones
And as I turned away it cried
The word aloud within my ear
And the marrow of my bones
Heard, and replied
O let there be no signs!
Let all the evil we have done be done
and minds lie still as sunlit meadows lie”.
Ora comprendo cosa può aver fatto scattare Klub Taiga dentro una persona che sente di aver perso la sua unica forma di espressione. Industria Indipendente ha messo a nudo l’attuale inutilità della parola, è riuscita a ridurla in tutto tranne che nella quantità. E infatti verso la fine le parole si accavallano come fossero pronunciate da centinaia di voci. In realtà si uniscono, ingrossano come un fiume in piena, perché è una sola la voce che le contiene, e poi ti travolgono.
Non posso far a meno di pensare, mentre guardo, che in fondo quello non è altro che il nostro mondo; è questa società in cui sentiamo il dovere di essere sempre, comunque e ad ogni costo al centro dell’attenzione ma senza agire mai, perché agire significherebbe rischiare di fallire e il fallimento non può essere contemplato. Di conseguenza non ci resta che riversare raffiche di parole vuote sugli altri, solo per imporci, per sentirci dire che siamo bravi, che siamo intelligenti, e quindi solo per allontanare la nostra inettitudine, la nostra insignificanza.
E allora è comprensibile che arrivi il punto in cui qualcuno dice basta. Basta parole, basta segni, basta voci. Mi ha stancato il vostro blaterare inconsistente. Ho bisogno di altro, io ho bisogno di contemplare. Io voglio danzare sull’orlo di questo buco nero, voglio lasciare andare ogni inibizione e lasciarmi esplodere di luce, prima di farmi inghiottire come il suono, la voce e l’ombra nel freddo e inospitale buio del nostro non-luogo. Io voglio il silenzio, perché è forse il silenzio l’unica via per riuscire a dare nuovamente un senso ai segni, qualunque sia la loro forma.
In conclusione, vi avevo promesso che avrei cercato di non risultare pesante e non credo di aver centrato l’obbiettivo. Che il provare a orientarmi nell’ineffabilità di Klub Taiga vi abbia però trasmesso qualcosa, perlomeno la curiosità, questo sì, me lo auguro. E mi auguro che dopo la Biennale e Contemporanea, vi siano altre date, che anche voi abbiate la possibilità di vedere cosa può partorire il folle, ordinato caos di Industria Indipendente, perché c’è bisogno di stimoli e di menti come loro.
KLUB TAIGA
(Dear Darkness)
di Industria Indipendente
con Annamaria Ajmone, Erika Z. Galli, Steve Pepe, Martina Ruggeri, Federica Santoro, Yva&The Toy George e con Luca Brinchi
immagini / visioni / segni Dario Carratta, Timo Performativo, Floating Beauty costumi TEIN clothing
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale con il sostegno di Angelo Mai