Il Regno della Paura
di Simone Piccinni

Ho iniziato a scrivere questo pezzo a febbraio, ben prima che il Covid-19 diventasse l’argomento pubblico numero uno. Il pezzo parla di paura, e ne parla partendo da basi che ora sembrano lontane e astratte, essendo state soppiantate da un’altra fonte ben più basilare e immediata (maledetta indole procrastinatrice, mi fotte sempre…). Ma ho deciso di riportarvelo così com’era, almeno fino al punto in cui mi sono fermato, perché alla fin fine è proprio lì che voglio arrivare: la paura assume migliaia di forme ma condiziona il nostro vivere sempre alla stessa maniera. Maniera che però, a sua volta, assume migliaia di sfumature diverse. Questa che stiamo vivendo è solamente una di esse, sebbene sembri più forte e presente. Quindi niente, ci rivediamo in fondo alla pagina per le conclusioni…
Nel bel mezzo della mia disordinatissima libreria c’è un piccola pila di libri non letti. Non che i libri non letti e parcheggiati in quel casino siano pochi, ma questa specifica pila conta solo qualche volume. Se ne sta lì come un totem. È sempre stata lì, nel suo preciso ordine, indifferente alle frequenti consultazioni e agli sporadici riordini. L’ultimo titolo, quello che chiude la pila, protegge col suo peso i sottostanti sigillando il piccolo parallelepipedo di carta come la merlatura di una torre.
Questa specie di orpello architettonico non è un libro come gli altri, almeno per me. Mi guarda da più o meno tredici anni. E io osservo lui, incrociando lo sguardo con le orbite vuote del teschietto punk stampato sulla costola, con un misto di fascino e senso di colpa. Il libro è Kingdom of Fear di Hunter S. Thompson, uno dei miei miti assoluti, e temo sia destinato a rimanere lì ancora a lungo (N.d.A: in realtà è stato inglobato dalle file retrostanti due giorni or sono. La smania da attività di questo periodo ha colpito alla fine anche la libreria, che ora appare fottutamente ordinata e asettica. Sigh).
Sebbene non lo abbia mai letto lo ritengo una enorme fonte d’ispirazione. “Com’è possibile?” chiederete voi. Perché ormai, intimamente, racchiude un pensiero. E ‘sticazzi se questo pensiero è nato da una serie di coincidenze invece che dalle parole e dai concetti scritti lì dentro.
In estrema e brutale sintesi, eccovelo: “Tutto ruota attorno alla Paura”.

Ma vediamo di spiegare meglio. La riflessione nasce non dall’elemento più palese – l’evocativo titolo “Il Regno della Paura” – bensì dal motivo per cui non l’ho mai letto. Lo comprai in una libreria di Sydney nel lontano 2007 insieme a Fear and loathing in Las Vegas, sempre di Thompson, e a Trainspotting di Welsh, tutti e tre in lingua originale. Gli ultimi due li conoscevo praticamente a memoria, avendoli letti svariate volte in italiano. Kingdom of fear no, non essendo mai stato pubblicato in Italia.
Ma lì per lì ero convinto di padroneggiare l’inglese alla perfezione, dopo tre mesi di permanenza in Australia e altri tre a Londra. Mi sbagliavo tremendamente: dopo aver affrontato a fatica i due testi già conosciuti fui preso dallo sconforto. Decisi di rimandare la lettura del terzo a data da destinarsi per la paura di non cogliere al meglio l’opera di Thompson. Sarebbe stata una mancanza di rispetto imperdonabile nei suoi confronti. Non me la sentii…
Una volta tornato in Italia, buttai il libro da qualche parte e me ne dimenticai. Col tempo e l‘inutilizzo, poi, le mie capacità linguistiche si sono gradualmente impoverite, peggiorando la situazione e rendendo la sfida quasi impossibile. E lui ora sta lì, da tredici anni, a fissarmi e a ricordarmi quel momento di pavidità. Per la paura di non capirlo approfonditamente mi sono privato del tutto della possibilità di leggerlo.
Questo aneddoto può sembrarvi una cazzata insulsa, lo so. Nulla mi vieta di prendere un vocabolario d’inglese e riprovarci. Ma non lo farò, almeno per ora. Perché al momento, per me, ha più importanza come promemoria che come sfida.
La paura è un istinto innato, comune a tutti gli esseri viventi e fondamentale per la sopravvivenza. È normale che ci sia. Il problema è che noi umani, nel corso della storia, gli abbiamo dato una sfilza di sfumature e significati tutt’altro che naturali, trasformandola nell’elemento che, a mio modo di vedere, ci condiziona maggiormente. E lo fa costantemente, sia nella sfera privata che in quella sociale.
Ci condiziona personalmente nelle piccole cose, come nel caso che vi ho appena raccontato. Ma non solo: la paura influisce ogni volta che facciamo qualcosa o che prendiamo una scelta, modificando la nostra vita e il nostro futuro.
Ci condiziona da piccoli quando seguiamo il branco anche in ciò che non ci piace per la paura di essere emarginati e rimanere soli. O quando da adolescenti ci impedisce di approcciare una ragazza per il timore del rifiuto o della figura di merda con gli amici. Ci condiziona quando scegliamo un percorso di studi che non sentiamo nostro perché magari quello preferito non garantisce la certezza di trovare un lavoro. O quando ci fossilizziamo in un ambiente lavorativo di merda o in una professione che non ci piace perché “almeno questo c’è”.
Ci condiziona nelle relazioni con gli altri, facendoci smussare opinioni e pensieri per non creare contrasti oppure rendendoci diffidenti e sospettosi. Ci condiziona quando giriamo la testa di fronte a un torto o un’ingiustizia perché opporsi potrebbe causare delle conseguenze. Quando rispettiamo una regola che non reputiamo giusta per non subire punizioni. Influenza il nostro modo di comunicare, le parole che diciamo o non diciamo, con chi parliamo con interesse e chi invece ignoriamo. Se tra A e B scegliamo A, frequentemente, è per esclusione di B: questo perché entrambe suscitano una sottile paura, ma B magari ne fa di più.
La paura profonda e istintiva, quella per la sopravvivenza e il pericolo reale, in noi umani ha perso di centralità, rimpiazzata da quella verso il giudizio degli altri o verso la perdita dei propri privilegi, comodità o situazione. Ed è qui che nasce il problema vero: la nostra manovrabilità.
L’umanità è composta da tante piccole società, composte a loro volta di diverse etnie, culture e gruppi di persone. Ognuna ulteriormente composta di tante singole personalità. Queste personalità sono ulteriormente suddivise in insiemi diversi in base a convinzioni, credi, ecc.ecc. Insomma, siamo un casino incredibile. Ma dobbiamo convivere, quindi ci organizziamo. E nella maggior parte dei sistemi scegliamo dei rappresentanti, che sono persone come noi, nel bene e nel male. Sono persone, se prese singolarmente, ma il ruolo e la posizione le trasforma in istituzioni, ponendole su un altro livello, in una posizione di controllo e supremazia.

Ora, mettiamo caso per assurdo che una di queste istituzioni ci prenda gusto e voglia mantenere la posizione ottenuta, avendone magari tratto qualche beneficio nel mentre che non vuole perdere. Per assurdo, eh… Bene, come fare? Ma con la paura, ça va sans dir.
Quando abbiamo paura cerchiamo protezione, è naturale. E in un contesto socialmente avanzato a chi ci rivolgiamo quando abbiamo paura? Alle istituzioni. Quindi se io, istituzione, voglio rafforzare la mia posizione e, putacaso, ho accesso o influenza sui mezzi di comunicazione e sulla divulgazione delle informazioni… beh, ho un jolly incredibile: mi basterà creare un’emergenza, un nemico o un pericolo e tutti invocheranno il mio intervento e la mia difesa. Logico no? Magari suona pure familiare, qui in Italia…
Nulla unisce e compatta di più una comunità di un nemico comune, di qualcuno o qualcosa che minaccia i nostri orticelli e i nostri interessi. Nulla fortifica di più la nostra posizione dell’essere percepito come necessario, tanto più se vengo percepito come difensore nei confronti di qualcosa di alieno. E se io, istituzione, capisco e padroneggio questo meccanismo, ho vinto. Ho lo strumento chiave: posso accendere o spegnere il terrore nella gente. E chi è terrorizzato, nella maggior parte dei casi, non ragiona: cerca un rifugio e dimentica tutto.
Quindi anche se faccio il resto del mio lavoro di rappresentante mediocremente o dolosamente, preoccupandomi più dei miei interessi personali che di quelli di chi devo rappresentare, e la gente inizia a lamentarsi e a chieder conto delle mie mancanze mi basterà girare la chiave del terrore e questi magicamente correranno a nascondersi dietro la mia sottana, sorvolando su tutto in cambio di un’illusoria impressione di sicurezza.
Bene, qui mi sono fermato. L’intenzione originaria, a questo punto, era quella di fare un excursus storico sull’evoluzione dell’influenza della paura nel nostro sviluppo. Credo però che questo perda un po’ d’interesse rispetto alla situazione attuale. Ora come ora il giochino è sotto gli occhi di tutti, sebbene complicato dalle varie campane che orientano questo sentimento. Abbiamo un nemico comune, il virus, e da quello dobbiamo proteggerci.
Quindi ben vengano, nel senso comune, le misure restrittive: rimaniamo tutti tranquilli in casa (almeno, chi una casa ce l’ha… sennò resti fuori dai giochi e vieni pure multato, che è uno schifo totale, ma è un altro discorso troppo lungo per essere affrontato qui), stringiamoci virtualmente e incrociamo le dita. Avreste mai pensato di poter arrivare a questo? Avreste accettato qualcosa di simile senza la paura del virus? Non credo. Ma in questo specifico contesto è normale, ci sta. La paura del nemico invisibile è un qualcosa di ancestrale e fortissimo, che spinge a un’unità quasi impareggiabile nella nostra specie.
Ora però, grazie a questa inedita unione, si sta verificando un altro fenomeno interessante (che si rifà a uno degli ultimi spunti lanciati nella bozza): la caccia all’untore, al diverso. Ci si accanisce contro chi non segue le regole come noi, mettendoci a rischio. Non dico che non ci siano delle piccole sacche di irresponsabili, ma forse non sono quelle realmente determinanti. Sono facili da individuare e ci tranquillizzano, danno un volto al nemico. Ma questo è fuorviante, e potrebbe tranquillamente essere uno specchietto per le allodole piazzato ad hoc (o casuale, il succo non cambia). Mi spiego: la gente reclusa si annoia. In questi frangenti c’è chi guarda film, chi impara a fare la pasta a mano, chi fa corsi online di origami… ma tanti sono lì a fissare le pareti e a meditare.
E da queste elucubrazioni potrebbero venir fuori domande profonde, non superficiali. Domande che potrebbero mettere in crisi il nostro sistema produttivo capitalistico (probabilmente vi sovviene a questo punto la questione del mantenere aperte o meno le attività produttive per limitare la diffusione del virus e le resistenze di Confindustria. Bene. Cosa spinge Confindustria a mettersi di traverso in una situazione del genere? La paura che le fabbriche non riaprano. Paura, siamo sempre lì…). Cosa sta succedendo quindi? Negli ambienti decisionali si discute, cercando di far collimare tutti i vari interessi con l’ovvia paura della popolazione. Ma in questo caso gli attori in ballo sono tantissimi, quindi il dibattito può andare avanti a vita, se mantenuto su questo piano.

Cosa fare quindi? Distogliere, distrarre, appoggiandoci nel mentre a soluzioni raffazzonate e di facciata. E tutti a puntare il dito contro chi esce, contro chi va a correre per non impazzire nella reclusione, contro chi agisce in proprio (e non parlo di chi fa feste condominiali, ma di chi va a correre da solo rispettando tutte le varie norme sanitarie). Magicamente la paura generale si sposta da un argomento sensibile socio-politicamente, come la produzione e il conseguente transito di persone e merci, per focalizzarsi su qualcosa più alla portata come, ad esempio, un nostro pari che non segue le regole.
Questo a cosa porta? Che la potenzialità intellettiva delle gran maggior parte di noi viene distolta dall’analisi della nostra precedente condizione (e dalla possibilità di ideare alternative) per essere incanalata in un’insulsa guerra tra poveri che lascia tutto esattamente così com’è. E il sistema vince un’altra volta. Per la paura. Paura del vicino, potenziale untore; paura per il fallimento delle aziende, quindi della disoccupazione; paura del futuro in generale, immutabile simulacro del nostro ieri invece che potenziale nuovo e differente inizio. Questo è: paura. Sempre e solo paura. Ma di che tipo è? È una paura che ti spinge a trovare soluzioni? Oppure ti induce a cercare colpevoli e difensori?
Non è una domanda banale, ora come ora, anche se lo sembra. Abbiamo delle impellenze molto più forti in questo momento storico: abbiamo avvelenato e distrutto il nostro pianeta, portandolo quasi al collasso, mettendo in discussione la nostra stessa presenza futura. Questa paura ci sta pian piano arrivando, sebbene calmierata dalle allucinanti dichiarazioni di alcuni criminali (Trump e Bolsonaro, giusto per citarne un paio come esempio, li considero criminali a tutti gli effetti) che lavorano solo per gli interessi dei pochi che su questa distruzione traggono profitto. Quella è la paura ‘sana’. La nostra casa è in fiamme, e quando il fuoco ci raggiungerà nemmeno le istituzioni potranno salvarci se non ci attiviamo prima e iniziamo a fare le giuste richieste.
Per cui ok, rimaniamo in casa e confidiamo nel comparto scientifico e nelle soluzioni che ci presenterà per uscire da questa situazione. Ma al contempo iniziamo a sfruttare questo periodo di reclusione per analizzare la nostra realtà e a immaginare alternative, invece di invocare la militarizzazione contro le cazzate di pochi. Pensiamo a cosa non va, cercando di non farci condizionare troppo dai nostri consueti schemi. Cerchiamo di immaginare il mondo per come lo vorremo alla fine di questa emergenza. Se riusciamo a farlo questi giorni non saranno sprecati e, soprattutto, non dovremo pagarne le conseguenze per altri decenni, continuando a sguazzare in una società ingiusta e fallata, oltre che nell’insoddisfazione personale. Quella che abbiamo di fronte è un’occasione enorme per cambiare il nostro modo di stare al mondo: spero solo la paura di abbandonare il vecchio modello non blocchi la ricerca di uno nuovo e migliore futuro.