Three Faces

La terza faccia della medaglia

Karibu Tanzania! Pt. 2 di M. V. Genovesi || Viaggio || THREEvial Pursuit


 

Karibu Tanzania! Pt. 2

Attraverso gli occhi di una mzungu

di Maria Vittoria Genovesi

 

tanzania evidenza

[Per leggere Karibu Tanzania! Pt. 1 clicca qui!]

Moshi è una città di a malapena 145 mila abitanti, situata poco sotto il Kilimangiaro che si staglia incappucciato di neve e maestoso sopra di noi quando l’aria non è troppo rarefatta dallo smog cittadino.

Alla stazione degli autobus sciami di persone su tuk tuk e daladala ci vorticano intorno: è una vivacissima giostra di colori inarrestabile. Mentre il tuk tuk africano è una scopiazzatura del Bajaj asiatico, il dala dala è il più popolare mezzo di trasporto pubblico prettamente tanzanese: un minivan adibito a taxi collettivo dove è comunissimo che viaggino insieme persone e animali (capre, cani e galline). Il conducente carica quante più persone possibili ad un prezzo irrisorio e si parte solo se stracolmo; noi non-Mafrika abbiamo un prezzario speciale in Africa, la nostra pelle parla per noi: se sei bianco sei necessariamente un polletto da spennare, perciò contratti su qualsiasi cosa ed ovunque (anche al supermercato), chiedendo che ti venga fatto un rafiki price (un prezzo da amici) e non da mzungu. A Moshi, Arusha, Dar e Tanga, le maggiori città dove sono stata, i daladala spesso vengono decorati con vistosi slogan religiosi colorati: Jesus is your friend; God is the power; God or blood; e pacchianissime icone religiose. Nonostante la moltitudine delle religioni presenti in Tanzania, le quali coesistono e convivono a mio avviso piuttosto pacificamente, ho notato un’esilarante fascinazione verso il cattolicesimo, perciò oltre ai pittoreschi slogan sui daladala non è difficile trovare un Deo gratias, una Purity e via dicendo.

Scesi dal GT, saliamo su un taxi e si riparte.

tanzania ridotta 6Qua a Moshi alloggio alla Green Home, uno degli ostelli convenzionati con l’associazione con cui collaboriamo per il progetto, in una camera quadrupla di cui definirei l’arredamento essenziale. Green Home è un piccolo ostello a conduzione familiare, con una grande corte interna piena di piante tropicali e solo qualche zanzara (con nostro sommo gaudio) e per i pochi week end in cui vi ho alloggiato posso dire essere stato il mio posto davvero felice, specialmente grazie alle persone che lo gestiscono: una dolce coppia di anziani (i miei genitori tanzanesi), con l’aiuto dei loro due figli e un terzo ragazzo, studente di informatica che arrotondava grazie al lavoro stagionale presso questa struttura. A lui ho insegnato a cucinare le uova strapazzate e all’occhio di bue, ne è rimasto entusiasta.

In questo ostello ho alloggiato solo nei weekend perché ogni lunedì mattina il nostro Magic Bus ci accompagnava al villaggio di Maji Moto, un villaggio masai (dicono), sorto poco più di una settantina di anni fa: solo nell’ultimo secolo, infatti, questo popolo nomade di pastori-guerrieri è stato costretto a stanziarsi stabilmente in terre concessegli dal governo tanzanese, il quale senza troppi problemi né “inutili” diplomatisti se ne (ri)appropria a sua necessità e piacimento spesso facendosi forte di mezzi non convenzionali.

Il progetto a cui ho partecipato prevedeva la progettazione, poi realizzazione, di un ambulatorio e parallelamente di una casa per il medico che avrebbe lavorato nel villaggio, dove al tempo non si disponeva di strutture simili: chi necessitava di cure mediche doveva infatti spostarsi a più di 60 km dal villaggio, a piedi o con un pikipiki.

Maji Moto (“Acqua calda”, ed è buffo che sia proprio l’acqua a mancare) è un villaggio di due mila anime fantasma, cristallizzatosi in uno spazio ed un tempo anacronistico. Ha tutte le sembianze di un paesino western (o forse dovrei dire eastern), eppure ricorda molto uno scenario martoriato da un conflitto di quelli che si vedono nei film o al TG. Nessuno qui li ha mai bombardati perché a malapena qualcuno si è mai interessato di loro, ecco perché fantasmi. I Maji Motiani sono persone reali, non spiritelli fluttuanti incolore, ma per il governo Tanzanese sono poco più che trasparenti. “Questo grande giaciglio, questo immenso grembo, avido di tutti i suoi figli assonnati, si trascina al ritmo di “pole pole”. I bambini a Maji Moto, sorridenti pastori selvaggi, non hanno paura di niente, glielo leggi negli occhi, forse solo di crescere e non poter più giocare a fare gli indiani. Gli adulti restano assopiti, ciondolano di qua e di là oppure seduti a bere caffè. Forse riflettono, forse no. Le tante Mama del villaggio si riuniscono ogni giorno, avvolte nei loro colorati e fantasiosi tessuti. Discutono e mi chiedo di cosa, mi chiedo anche cosa pensino la sera prima di andare a dormire”.

Sabato 30 luglio, ore 7.00 del mattino.

Due giorni dopo essere arrivati a Moshi, partiamo per Maji Moto stipati come galline dentro il nostro Magic Bus, un toyota coaster rosso del ’98. Colazione al sacco: un succo, una banana e tre mandasi molto unti e poco saporiti. Il viaggio dura poco più di due ore, si susseguono a ripetizione villaggi brulicanti di persone, coloratissimi shop e laboratori di meccanica: riparare veicoli e motociclette sembra il business più redditizio qua in Tanzania, secondi soltanto i rivenditori di letti e materassi. Negli ultimi 45 minuti di viaggio percorriamo un tratto sterrato e dissestato dove circolano principalmente pastori e bestiame, il nostro vecchio coaster arranca un po’, così scendiamo e dopo qualche dolce spintarella si riparte.

La vegetazione piano piano si fa meno ricca e lussureggiante lasciando il posto ad arbusti rinsecchiti, alberi spogli e campi di granturco. La terra dapprima rossa come quella dei campi da tennis adesso è bianca e polverosa: ci stiamo addentrando nella steppa ai piedi del Kilimanjaro.

tanzania ridotta 5Arriviamo a Maji Moto, il Magic Bus imbocca una piccola strada alberata, scarica noi e i nostri zaini davanti ad una abitazione e subito veniamo smistati nei nostri alloggi.
Insieme ad altri dieci ragazzi/e dormiamo nella casa dei volontari, solo poi ribattezzata “bombardata”. Il mobilio è semplicemente “meno dell’indispensabile”: qualche materasso gettato per terra e due orrendi divani animalier. Elettricità ma nessuna acqua corrente: il villaggio, come del resto nella maggioranza dei casi, non ne disponeva. Di scaldarci l’acqua al ritorno dal cantiere se ne occupava infatti la nostra vicina di casa, MamaMsafiri, un’anziana donna masai (MamaMsafiri, kwa neema maji moto?): ogni casa mzungu al villaggio aveva una Mama che si occupasse di queste piccole faccende. MamaMsafiri (il cui primo nome è Teresa) è stata per noi una dolcissima nonna, molto probabilmente per l’età avanzata, eppure non ci siamo mai scambiate più di tre parole, per lo più sbagliate. Data l’impossibilità di comunicare in una lingua comune ad entrambe, le conversazioni finivano in gesti e sorrisi accondiscendenti.

Qualche tempo – e un paio di giro in moto – dopo, ho realizzato quanto quella di Maji Moto fosse una delle realtà contadine più povere nel raggio di chilometri.

A MM, dove non ci sono cartelli che ne segnalino l’entrata nè l’uscita, nessun recinto o muro in pietra che ne delimitino il confine, le abitazione costruite in mattoni sono ambienti scuri, male illuminati e piuttosto stretti. In pochi dispongono dell’elettricità, nessuno di acqua corrente; i tetti spioventi in lamiera servono a schermarsi dalla stagione della piogge eppure ancora non hanno un sistema per la raccolta dell’acqua piovana né un pozzo da cui attingerla; le principali attività commerciali – un negozio che vende di tutto, dallo spazzolino da denti monouso ai sacchetti di pesce essiccato, un piccolo grocery di generi confezionati, un barbiere, un bar e una baracca dove mangiare per meno di 2000 scellini (goody goody freshy foody) – sorgono lungo una strada sterrata e polverosa, eppure non si capisce né come né perché dal momento che i Maji Motiani sono gli unici a percorrerla. L’ambiente intorno è arido, scarno, inospitale, costellato di carcasse di edifici in mattoni rossi lasciati incompiuti. Poco oltre quest’area, oltre i campi di granturco, si scorgono piccoli cortili sui quali spesso si affaccia più di un’abitazione. Qui, al contrario del centro, ciò che maggiormente colpisce è la cura per l’esterno: decorati di piante equatoriali, di bouganville rampicanti, di vasi ricavati da vecchi secchi in plastica, di siepi e di aiuole curate, questi cortili ricordano molto quelli delle nostre case occidentali; sempre all’esterno si trovano anche la latrina e gli animali, mucche, capre, galline in gran quantità, qualche gatto e sorridenti cani gialli.

Maji Moto sembra quindi essere sorto un po’ per sbaglio, chissà come in quest’arida steppa africana, con la tenacia di una spinosa pianta grassa dura a morire. Un nomade villaggio in mattoni. I suoi abitanti in effetti sembrano non concepire il valore della costruzione nè il suo perdurare nel tempo e nella storia, quasi fossero personaggi a cui non interessa lasciare nessuna impronta del proprio passaggio, sembrano non curarsi degli aspetti e delle necessità di una vita sedentaria alla quale si sono affacciati solo di recente ed involontariamente.

Probabilmente ai nostri occhi occidentali la loro appare più come un’inconsapevolezza dello spazio e del tempo in cui vivono: un tempo inconsistente, fatto di qui ed ora perché domani chissà, e uno spazio che appare come una dimensione non modellabile. Forse arrendevoli ad una condizione che è data per assoluta ed immutabile, una forza inamovibile, perciò “perché darsi tanta pena? Pole pole”. Non saprei, forse dopotutto non li ho capiti nemmeno un po’. Anche per questo posso dire che Maji Moto è stato per me quello che simboleggiavano le colonne d’Ercole un tempo, i confini di un mondo che cessava di essere conosciuto.

[continua…]

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