Jugoslavia ovvero la morte del sogno (Pt. 2)
Risoluzione 757
di Cartavelina
22 giugno, ore 20 e 15, Stadio di Ullevi, Göteborg.
Il momento degli inni nazionali, San non se lo godette come al solito. Fremeva per arrivare alla fine di quello strazio, in cuor suo sperava nella vittoria ma il cervello, dannato pompiere di emozioni, gli ricordò subito cosa diceva il nonno.
“Umrijeti u ljepoti”.
Fischio d’inizio. Il Brasile d’Europa sembrava un po’ meno spavaldo del solito. Savićević fece due o tre errori non da lui, Prosinečki non riusciva a togliersi di dosso Rijkaard e Van Basten là davanti stava creando più di un grattacapo alla retroguardia slava. L’unico che sembrava a suo agio era Boban, biondo, sicuro. San si aggrappò, idealmente, a lui e credette che lo stessero facendo tutti i tifosi jugoslavi perché al quinto minuto lasciò partire una bordata che si incastrò perfettamente nell’angolino alto alla sinistra di Hans van Breukelen. Ora si cominciava a ragionare, pensò.
San, sicuro che tutto ormai sarebbe andato per il verso giusto, si distrasse. Guardava il tramonto nella sua Sarajevo, il sole si perdeva dietro il Monte Trebević. Si pentì amaramente per quella disattenzione. Perché al ventitreesimo minuto Bergkamp segnò il gol del pareggio. Il Brasile d’Europa frastornato ma non domo si riversò nella metà campo avversaria in cerca del nuovo vantaggio. Avevano perso però la grazia e la leggerezza che li aveva sempre contraddistinti. Erano una furia, cieca, passionale ma pur sempre una furia e loro non sapevano giocare in quel modo.
Al trentatreesimo minuto un pallone mal rinviato dal centrale olandese Jan Wouters capitò nel posto giusto al momento giusto, cioè dove sostava con le mani sui fianchi Darko Pančev. Perché con Darko era sempre così, non dava l’idea di essere lui a cercare il pallone ma che il pallone casualmente si recasse dove si trovava il macedone. Come per un’attrazione non voluta ma inevitabile. E Darko fece quello che sapeva fare meglio, segnò.
Sentì dei colpi provenire dalla strada, si sparava per la gioia nelle vie della sua Sarajevo. I suoi eroi, riconquistato il meritato vantaggio, ritrovarono la leggiadria che li caratterizzava e tornarono a giocare ballando, con un pizzico di quella sfacciataggine slava che non guasta mai. Sprecarono plurime occasioni per chiudere definitivamente la partita. Una volta toccò a Savićević, arrivato davanti al portiere dopo una serpentina soave, sprecare tutto cercando di segnare di tacco.
Prosinečki era immarcabile, però non sembrava prestare attenzione al terzo occhio e cercava di entrare in porta con la palla. Mihajlović tirava saette da ogni dove che lambivano, come respinte da una forza ignota, la porta olandese. Solo Boban sembrava concentrato su quello che stava accadendo e solo lui sembrava ricordarsi che stavano vincendo solo di un gol. E all’ottantatreesimo minuto successe l’impensabile, Frank Rijkaard segnò per gli olandesi.
San cercò subito con lo sguardo Boban, primus inter pares, sperando di incrociare i suoi occhi fieri e invece lo trovò con le mani nei capelli e lo sguardo perso. Arrivare a un passo dalla gloria e non avere niente. Si andò ai supplementari ma le due squadre preferirono aspettare i calci di rigore, per stanchezza o per paura, questo San non lo poteva sapere. Lui sentiva solo il cuore accelerare i battiti e poi rallentarli bruscamente, se avesse avuto più di sessant’anni sarebbe stato un principio d’infarto ma il braccio non doleva. Era solo il centro emozionale del suo corpo che non era capace di gestire tutto quello. Quel mix di timore, ebbrezza, gioventù che strabordava impaziente da quel corpo ancora non cresciuto. Una vocina prese campo nel suo cervello, prima flebile e poi via via sempre più tonante, fino a diventare un urlo folle e disperato.
“Sarebbe stato un bel morire, perdere ai calci di rigore? Semmai con un errore del suo idolo Boban?” quello sarebbe stato troppo. “E se avesse sbagliato Savićević? Oppure se Prosinečki, troppo sicuro di sé, avesse sparato alto con il portiere già sdraiato a mangiar ciuffi d’erba sconditi?”
Non doveva far altro che aspettare. L’arbitro, lo spagnolo Soriano Aledrén, si avvicinò ai due portieri e fece le raccomandazioni di rito.
Il primo a parare sarebbe stato il portiere jugoslavo Ivković e a tirare, per gli Orange, il difensore, con vizio del gol, Koeman. Palla da una parte, Ivković dall’altra. Poi fu il turno di Hans van Breukelen, davanti a lui Pančev. Pančev affrontò quel rigore come noi affrontiamo una fila alla cassa del supermercato, con fastidio. Aveva l’aria di chi era in ritardo per qualcosa. Tirò e si voltò con le braccia al cielo, la palla non era ancora entrata. Lui sapeva già.
Olanda uno, Jugoslavia uno.
Ivković tornò tra i pali e gli si parò davanti Van Basten, il cigno di Utrecht. Un duello con Van Basten aveva uno sconfitto certo, il portiere. Ivković forse si ricordò delle plastiche parate del gatto Beara, portiere jugoslavo degli anni Cinquanta, talmente forte che Jašin, unico portiere nella storia a vincere il pallone d’oro, lo definì più forte perfino di lui, o forse le correnti ascensionali sprigionate da tutti i cuori in sospeso per quel rigore arrivarono fino a lì, perché Ivković si lanciò e rimase in aria per un tempo che a San parve eterno. Non scendeva, sempre orizzontale, e con la punta della mano destra pizzicò la palla quanto bastava per farle cambiare traiettoria. A San si strozzò un grido in gola, la bocca si aprì ma non uscì niente. Mihajilović si presentò sul dischetto. E tirò una delle sue saette.
Olanda uno, Jugoslavia due.
Fu il turno di Bergkamp e Ivković tornò a essere Ivković. Gol olandese. Tirò Prosinečki e segnò, perché troppo forte per sbagliare. Per gli olandesi fu il turno di Rijkaard e non sbagliò. La tensione iniziava a essere troppa per il piccolo San. Inscenò una danza propiziatoria davanti al televisore, erano più spasmi del corpo che lo portarono a creare un’ellisse imperfetta sul tappeto. Si ridestò quando apparve il volto serio e fiero di Boban, il suo eroe. E Boban segnò, facendo tirare un sospiro di sollievo a San. Per gli Orange fu il turno di Witschge: non l’aveva mai sentito nominare prima di quel giorno. Sperò nell’errore, sapendo che l’ultimo rigore l’avrebbe tirato Savićević e Dejan avrebbe potuto far sprofondare un intero paese nella più profonda tristezza. Ivković aveva perso la sapienza del volo e si accartocciò goffo dalla parte opposta alla palla.
San istintivamente si coprì gli occhi con le mani, non riusciva a toglierle, erano magneticamente attratte dal suo volto. Dopo due minuti, che furono interminabili, c’era qualcosa che non tornava.
Sentiva la voce del telecronista dire: “Dov’è Savićević? Non si trova Savićević! Ah, eccolo! Savićević sta serenamente bevendo da una bottiglietta vicino alla sua panchina, gambe incrociate, spalle alla porta. Sembra un capo pellerossa che riflette sulla migrazione dei bisonti, più che un giocatore che sta per tirare il rigore più importante della storia di un’intera nazione”.
Boban lo andò a richiamare e Dejan lo guardò come a voler dire: “Dimmi? Ah, il rigore! Sì sì, arrivo!”
Boban rise, lo conosceva, era buon segno. Savićević prese la palla dalle mani dell’arbitro, la sistemò sul dischetto. Intanto Van Breukelen, portierone olandese, faceva dei saltelli laterali, prima a destra poi a sinistra, per provare a distrarre lo slavo. Il destino però non può essere distratto. Savićević prese una breve rincorsa guardando sempre negli occhi l’olandese e quando notò lo spostamento del peso sulla gamba destra, accarezzò il pallone con disinvoltura. Ne nacque una palombella sbilenca che entrò in porta.
Olanda quattro, Jugoslavia cinque.
Ivković corse ad abbracciare Savićević e furono sommersi dagli altri compagni che arrivavano dal centrocampo, da dove avevano assistito al rigore tirato da Dejan.
C’era da aspettare il 26 giugno, giorno della finale. E il fatidico giorno arrivò.
Se volevano vivere, anche solo un momento, nella bellezza, i ragazzi in blu, il Brasile d’Europa, avrebbero dovuto battere la Germania, campione del mondo in carica.
Fischio d’inizio, ore 20 e 15.
Prima gli inni nazionali, dopo la commozione per “Ehj, Slaveni”, fu il turno di “Lied der Deutschen”. E gli stonarono subito le prime parole, “Deutschland, Deutschland, über alles, über alles in der Welt…”, “Germania, Germania, al di sopra di tutto, al di sopra di tutto nel mondo…”
Era sempre più convinto che il nonno avesse ragione, non c’era da scherzare con questi tedeschi.
Fu il momento del calcio, quello giocato. Dopo una decina di minuti di predominio tedesco, più fisico, in realtà, che tecnico, uscì fuori lo spirito slavo. Erano tutti con il fuoco agli occhi e la poesia nei piedi. E al diciottesimo minuto, il boato.
Boban aprì alla ceca per Prosinečki, questi superò lo spaesato “über alles” di turno e passò la palla in area a Savićević che le si fece incontro e all’ultimo istante stupì tutti allargando le gambe. La palla lo superò e si diresse, come sempre, da Pančev. San era già con le braccia tese verso le stelle, sapeva già cosa sarebbe accaduto. Quando abbassò lo sguardo il macedone aveva già tirato e Bodo Illgner, portiere tedesco, era già con il culo per terra. E ora chi era “…in der Welt…?”
Si calmò subito. C’era ancora tanto, troppo tempo per poter essere così ebbri. La Germania provò a riorganizzarsi, provò a mettere la sfida sulla fisicità per limitare le scorribande di Boban e soci. Però, come si usa dire in ambito calcistico, non c’era o forse il Brasile d’Europa era solamente troppo forte, finalmente.
Al settantottesimo minuto, contropiede micidiale dei ragazzi in blu. Mihajilović sradicò il pallone dal tedesco che si dirigeva verso di lui. Dopo due lunghe falcate lo cedette a Jugović, che era all’interno del cerchio di centrocampo. Jugović non si perse in inutili finte e allargò il gioco sulla fascia opposta. Sempre da Prosinečki andavano, era lui il giocoliere esperto in numeri d’alta scuola.
Fece scomparire e riapparire il pallone e arrivato al limite dell’area, lo cedette a Pančev. Stranamente Darko era uscito dalla sua zona di competenza, i dieci metri davanti alla linea di porta, ed era venuto a vedere che aria tirasse da altre parti, come un orso che si risveglia da un lungo letargo. Non sembrava per niente a disagio a dover gestire il pallone, pensò San. Questo lo fece sorridere, non era mancanza di destrezza pedatoria a tenerlo a ridosso del portiere avversario, era pigrizia. Pančev, con la sfera tra i piedi, si voltò per affrontare il centrale difensivo, poi, come richiamato da canti antichi, si fermò e cedette il pallone all’indietro, di tacco. La telecamera inquadrò una chioma selvaggia che arrivava a tutta velocità. Era Mihajilović che, fatta partire quell’azione selvaggia e perfetta, era sopraggiunto per concluderla. L’apoteosi.
Gli ultimi dodici minuti furono una passerella. I tedeschi non ci credevano e i suoi eroi si divertivano. Fischio finale.

Mucchio selvaggio su Mihajilović, che era stato il mattatore della partita. Nel momento della premiazione, San si trovò ebbro di gioia, che sfociava in lacrime e tornava gioia. Montagne russe emotive. La telecamera inquadrò Lennart Johansson, il Presidente dell’UEFA, con la coppa in mano, in attesa che arrivassero i giocatori jugoslavi e soprattutto Boban, per poterla cedere in più sicure mani. Ma Boban non si vedeva, la telecamera dopo una ricerca di qualche minuto lo scovò in disparte, prono sul terreno di gioco. I compagni corsero da lui e lo alzarono, gli occhi erano lucidi, il guerriero piangeva. San sentì le sue lacrime meno solitarie. Lennart riuscì finalmente a liberarsi della coppa e si dileguò, poco interessato ai festeggiamenti slavi. Stavolta non erano “Umrijeti u ljepoti”, morti nella bellezza, semmai avevano “Živeti u ljepoti”, vissuto nella bellezza.
Nella notte dalla collina alle porte di Sarajevo una batteria di artiglieria fece fuoco verso la città. Una bomba vigliacca colpì la casa di San Pokvaren. San rimase nel sogno e non poté vivere i quattro anni di assedio, il dover camminare con la paura dei cecchini. Però grazie a lui il Brasile d’Europa esisterà sempre, avrà vinto una coppa e non si sarà lasciato morire nella bellezza.
L’assedio di Sarajevo iniziò il 5 aprile 1992 e terminò il 29 febbraio 1996. Si stima che ci furono più di dodicimila morti e oltre cinquantamila feriti. Il 1° giugno 1992 un fax della Uefa comunicò a Belgrado che la Nazionale Jugoslava non avrebbe potuto partecipare agli Europei svedesi.
La comunicazione della Uefa seguiva la “risoluzione 757 del Consiglio di Sicurezza Onu” del giorno precedente. A onor del vero, i croati, già dal maggio dell’anno prima, non giocavano più nella nazionale jugoslava. Però questo è un sogno e il bello dei sogni è che le regole e i dogmi non hanno potere. I censori e i probiviri delle nostre emozioni non hanno le chiavi di accesso, semmai il trauma è sempre il risveglio.
Ci manca il paracadute per planare nell’ordinario.
Cartavelina