Jugoslavia ovvero la morte del sogno (Pt. 1)
Risoluzione 757
di Cartavelina

“San è ora di andare a letto”, disse Majka con un po’ di apprensione.
Sarajevo era assediata ormai da circa un mese.
“Sì mamma ora vado”, rispose assorto il piccoletto, senza alcuna apprensione, lui.
A sei anni tutto è roseo, gli bastava poter ancora andare, dopo scuola, a inseguire un pallone. La felicità era tutta lì, una sfera di cuoio e il sogno di emulare i suoi idoli. Un giorno provava a essere svogliato e celestiale come Savićević, un altro a calciare saette infuocate come Mihajilović, certi giorni si sentiva, con scarsi risultati, letale come Darko Pančev o Davor Šuker, il suo preferito però era Boban, guerriero dalla classe cristallina.
Stava sfogliando una rivista che gli aveva regalato il nonno, con le foto dei giocatori che avrebbero partecipato, un mese dopo, al Campionato Europeo di Svezia 1992. Nel girone di qualificazione la Jugoslavia, il Brasile d’Europa, era arrivata prima davanti alla Danimarca. Quindi slavi a giocare la coppa e danesi liberi di andare in vacanza al mare o dove avrebbero preferito. Una mano gli tolse, con dolce risolutezza, la rivista da sotto gli occhi. L’ultima immagine che vide fu la faccia guascona di Savićević che sorrideva. La mano arrotolò il cartiglio su cui stava fantasticando e lo calò, seguendo una ritualità da investitura cavalleresca, sulla sua spalla. San alzò lo sguardo e vide la madre sopra di lui che lo guardava, fintamente adirata. Corse in bagno, si lavò con celerità i pochi denti che non avevano ceduto alla forza di gravità e tornò, sempre correndo, in camera dove l’aspettava Majka. Si infilò nel letto, si prese un bel bacio sulla fronte e con lo spegnimento della luce fu sopraffatto da un sonno profondo.
Era seduto davanti alla televisione, 11 giugno 1992, pronto per vedere i ragazzi slavi che in terra svedese provavano a essere, oltre che belli, vincenti.
Malmö Stadion, Jugoslavia – Inghilterra.
Risuonavano le note di “Ehj, Slaveni”, il petto gli si riempì d’orgoglio. La telecamera fece un rapido passaggio su suoi eroi schierati davanti alla tribuna, aveva buone sensazioni. Gli occhi di Pančev erano quelli di una tigre sorniona pronta ad azzannare; Savićević aveva quel mezzo sorriso da contrabbandiere di sigarette stampato in faccia, buon segno; Prosinečki si guardava intorno fintamente spaesato; Mihajilović aveva l’aria di chi era pronto ad andare in guerra per la patria, la famiglia, un grande amore o qualsiasi altra causa avesse l’onore di essere da lui difesa; e Boban era Boban, biondo, fiero.
Poi fu la volta di “God save the queen”.
“God save our gracious Queen! Long live our noble Queen, God save the Queen! Send her victorious, happy and glorious, long to reign over us, God save the Queen!
O Lord, our God, arise, scatter her enemies, and make them fall, Confound their politics, frustrate their knavish tricks, on Thee our hopes we fix, God save us all.
Thy choicest gifts in store on her be pleased to pour, long may she reign!
May she defend our laws, and ever give us cause to sing with hearth and voice, God save the Queen!”
La partita iniziò e fu un dominio slavo, le maglie blu erano ovunque. Savićević era in quelle serate in cui sembrava capace di controllare non solo i movimenti del pallone, come se avesse intorno al piede una propria forza di gravità, ma anche maree, venti e battiti di cuore. I sudditi di sua maestà erano impotenti. Ma il gol non arrivava. Ci provarono in ordine sparso Boban, Pančev, Jugović e Prosinečki.
All’ultimo minuto punizione per i moschettieri slavi due metri fuori dall’area di rigore dei sudditi di sua maestà. Tutti guardarono Mihajilović, Mihajilović guardò il portiere, il portiere inglese guardò il cielo. Sembrava la sceneggiatura perfetta per permettere a San di liberare l’urlo di gioia che troppe volte, in quei novanta minuti, aveva dovuto trattenere. Mihajilović prese una lunga rincorsa, mentre correva studiava il portiere, il portiere, occhi spalancati e braccia larghe, aspettava l’inevitabile epilogo. Il pallone colpito di mezzo collo esterno prese a librarsi in aria curvando all’improvviso, era palese che il portiere non ci sarebbe mai potuto arrivare. La sfera di cuoio, seguendo le istruzioni del piede di Mihajilović, si dirigeva sicura verso l’incrocio dei pali.
La gola di San si contrasse, i polmoni presero aria pronti a esplodere in un fragoroso urlo ma accadde l’imponderabile, la palla si stampò sui legni che segnavano il limitare della porta inglese e tornò quasi a centrocampo. San incredulo cercò subito l’arbitro e vide che metteva il fischietto in bocca e arrivarono quei tre maledetti fischi.
La partita finì 0 a 0.
Se fosse stato pugilato, la Jugoslavia avrebbe vinto ai punti, ma il calcio prevede che si gonfi la rete, sennò si prende un punto a testa e si va a casa a recriminare sulle occasioni perse.
Non si dette troppo affanno comunque, c’erano ancora due partite da giocare, una con i padroni di casa della Svezia e l’altra con gli spocchiosi francesi. I suoi eroi avrebbero fatto quattro punti e si sarebbero qualificati alle fasi successive.
14 giugno 1992, Stadio Råsunda di Solna, arbitrava il tedesco Schmidhuber, il nonno gli aveva detto che non c’era da fidarsi dei tedeschi.
Il nonno c’era quando erano passati da quelle parti, si sentiva di dare credito alle sue parole. Svezia e Jugoslavia erano schierate da rito e ascoltavano i rispettivi inni nazionali. Dopo cinquanta minuti il Brasile d’Europa aveva creato, deliziato, si era crogiolato nella sua bellezza e nel piccolo San stava crescendo la paura. Gli venne in mente cosa gli diceva sempre suo nonno quando lui chiedeva spiegazioni sul perché, se le nazionali jugoslave erano state sempre così forti, non avessero mai vinto niente.
“Umrijeti u ljepoti”, morire nella bellezza.
Era sempre sopraffatto da una sensazione di smarrimento quando sentiva quelle parole. Come poteva essere associato il concetto di morte con quello di bellezza, la cosa lo turbava. All’improvviso Brolin, un biondone con una discreta tecnica, segnò il gol dell’uno a zero per gli scandinavi.
I suoi eroi non si scomposero più di tanto per il gol subito, consci della loro superiorità. Continuarono a fare quello che sapevano fare meglio, deliziare e assecondare i sensi propri e altrui.
Ennesimo dominio slavo, come contro gli inglesi nella partita precedente. Anche stavolta non servì per vincere e anche stavolta San non poté urlare al cielo la sua gioia. Il tutto si concluse con gli avversari, nello specifico ragazzoni svedesi, con le braccia al cielo. San Pokvaren, anche se aveva solo sei anni, sapeva che dovevano vincere l’ultima partita del girone per sperare che il sogno proseguisse.

Di nuovo Malmö Stadion, risuonava la Marsigliese con tutta la sua storia, la sua boria, la sua infinita bellezza. San, per un secondo avrebbe voluto essere francese, per poter cantare a squarciagola,
“Allons enfants de la patrie, le jour de gloire est arrivé!
Contre nous de la tyrannie, l’étendard sanglant est levé!
L’étendard sanglat est levé! L’étendard sanglat est levé!
Entendez-vous dans les campagnes, Mugir ces féroces soldats? Ils viennent jusque dans nos bras,
Egorger nos fils et nos compagnes! Aux armes, citoyens! Formez vos bataillons! Marchons! Marchons! Qu’un sang impur, Abreuve nos sillons! Que veut cette horde d’esclaves, De traîtres, de rois conjurés?
Pour qui ces ingobles entraves, Ces fers dès longtemps préparés? Ces fers dès longtemps préparés?
Français, pour nous, ah! Quel outrage! Quels transports il doit exciter! C’est nous qu’on ose méditer,
De rendre à l’antique esclavage! Quoi! Ces cohortes étrangères, Feraient la loi dans nos foyers!
Quoi! Ces phalanges mercenaires, Terrasseraient nos fiers guerriers! Terrasseraient nos fiers guerriers!
Grand Dieu! Par des mains enchaînées, Nos fronts sous le joug se ploieraient! De vils despotes deviendraient, Les maîtres de nos destinées! Tremblez, tyrans et vous perfides, L’opprobre de tous les partis, Tremblez! Vos projets parricides, Vont enfin recevoir leurs prix! Vont enfin recevoir leurs prix!
Tout est soldat pour vous combattre, S’ils tombent, nos jeunes héros, La terre en produit de nouveaux, Contre vous tout prêts à se battre! Français, en guerriers magnanimes, Portez ou retenez vos coups!
Epargnez ces tristes victimes, A regret s’armant contre nous. A regret s’armant contre nous.
Mais ces despotes sanguinaires, Mais ces complices de Bouillé, Tous ces tigres qui, sans pitié,
Déchirent le sein de leur mère! Amour sacré de la Patrie, Conduis, soutiens nos bras vengeurs!
Liberté, Liberté chérie, Combats avec tes défenseurs! Combats avec tes défenseurs!
Sous nos drapeaux, que la victoire, Accoure à tes mâles accents! Que tes ennemis expirants
Voient ton triomphe et notre gloire!
Nous entrerons dans la carrière, Quand nos aînés n’y seront plus; Nous y trouverons leur poussière,
Et la trace de leurs vertus. Et la trace de leurs vertus. Bien moins jaloux de leur survivre
Que de partager leur cercueil, Nous aurons le sublime orgueil, De les venger ou de les suivre!”
Poi iniziarono le note di “Ehj, Slaveni”,
“O slavi, dei nostri avi la parola viva è ancora, mentre nei loro figli per il popolo batte il cuor. Viva, viva l’anima slava: vivrai nei secoli! Niente è il fuoco della saetta, niente l’abisso dell’inferno. E persino se adesso sopra di noi tutto sconvolge la bufera, che spacca le pietre e rompe gli alberi e fa tremare la terra, noi rimaniamo in piedi, fermi come le altre gole del fiume. Che sian dannati, della propria patria, i traditori!”
Due infantili e orgogliose lacrime rigarono le guance, troppo soffici perché potessero coglierne davvero il significato. Però si ricordava il brillare degli occhi del nonno quando ascoltava quelle parole, quegli occhi non mentivano, gli occhi non mentono mai.
E le urlò, però nella sua lingua,
“Hej, Sloveni, jošte živi, reč naših dedova, dok za narod srce bije njihovih sinova. Živi, živi, duh slovenski. Živećeš vekorma. Zalud preti ponor pakla, zalud vatra groma. Nek se sada i nad nama, burom sve raznese, stena puca, dub se lama, zemlja nek se trese. Mi stojimo postojano, kano klisurine. Proklet bio izdajica svoje domovine!”
La partita poi cominciò e il Brasile d’Europa fece il Brasile d’Europa: rabone, tunnel, tacchi. Tutto quello che il panorama calcistico prevedeva fu palesato su quel campo di calcio. In Svezia non avevano mai visto niente di simile dal 1958, quando Pelé e Garrincha, insieme a Vavá-Didi-Zagallo, avevano mostrato al mondo che si può giocare e danzare allo stesso tempo. Ora il testimone dello stupore era passato nei piedi di Savićević, Boban, Prosinečki e compagnia. Non ci poteva essere passaggio migliore.
Andarono in vantaggio con un pallonetto di Savićević che, imbucato da Boban, scartò il primo transalpino che gli si parò davanti e come vide il portiere farsi sotto lo umiliò con un tocco beffardo, la palla sfiorata quanto bastava perché entrasse in porta. Anche il pallone, quando veniva toccato da Dejan, sembrava svogliato di rotolare tra i ciuffi d’erba, come se fosse in ritardo per un appuntamento e volesse sbrigare il suo compito controvoglia. Poi gli jugoslavi continuarono a muoversi per il campo e a divertirsi come se fossero al campetto dell’oratorio e non a giocare una sfida decisiva, di quelle da dentro o fuori. La Francia, molto più pratica, pareggiò con Papin al sessantesimo minuto.
San sprofondò in una tristezza inspiegabile, gli era salita su alla destra del cuore, spintonando e prevaricando ogni tessuto che aveva trovato per arrivare al cervello. Si sentiva mancare, non era possibile. Un’altra volta belli e dannatamente perdenti. Poi quando mancavano, circa, dieci minuti alla fine, Prosinečki fece Prosinečki.
Saltò il primo francese, saltò il secondo francese, saltò il terzo francese e anche il quarto e quando non trovò più francesi da frastornare nel suo errante cammino vide con il terzo occhio, quello degli eletti, Darko Pančev, il macedone, che bighellonava in area di rigore. I difensori lo controllavano con non troppa apprensione, Darko aveva l’aria di chi beve molto, fuma tanto e ama tutti i vizi che sono stati inventati, qualcuno l’avrà di sicuro inventato lui, per aumentare il proprio repertorio. Prosinečki mise in area una palla tagliata, una palla slava, indecifrabile ma non per Darko che si fece trovare sul secondo palo e di piatto, mai sforzarsi troppo, la regalò alla porta difesa dall’estremo difensore francese e al cuore di tutti i San che seguivano con apprensione quella che sembrava l’ennesima “morte nella bellezza”.
Francia uno, Jugoslavia due.
Gli ultimi dieci minuti passarono senza altri sussulti. Secondo posto nel girone e sfida in semifinale contro l’Olanda di Van Basten, Koeman, Gullit, Rijkaard e Bergkamp. Che questa fosse la volta buona? La Jugoslavia sarebbe riuscita a posizionarsi sulla mappa del calcio? San credeva di meritarselo, credeva che se lo meritavano. Per un personale senso di giustizia calcistica e per quell’infantile non accettazione della fine del sogno.
Continua…