Islanda: isola di fuoco e ghiaccio (pt. 3), un articolo di G. Levantini || THREEvial Pursuit


Islanda: isola di fuoco e ghiaccio

Reykjavík e l’Ovest

di Gabriele Levantini

Reykjavík (Islanda 2016)

Lasciata la bella Akureyri, la Capitale del Nord, proseguiamo l’esplorazione dei fiordi settentrionali e muoviamo verso ovest. Superiamo il vecchio porto commerciale di Hofsós, dal quale partivano per l’America gli emigranti islandesi all’inizio del secolo scorso, e poi la chiesa di torba di Grafarkirkia, la più antica d’Islanda. Ovviamente ricostruita. Giungiamo a Hólar, sito storico dove un tempo sorgeva un’antichissima cattedrale di cui purtroppo non resta molto. Al suo posto sorge un luogo di culto relativamente moderno, con delle belle decorazioni lignee. Un’interessante anomalia è che le chiese islandesi, quasi tutte di confessione luterana, presentino spesso delle decorazioni tipicamente cattoliche.: testimonianze sopravvissute all’iconoclastia della Riforma, diversamente da quanto avvenuto negli altri paesi protestanti.

Proseguiamo attraverso il villaggio di Varmahlíð, in mezzo a un’area rurale di campi e serre, vicino al quale si è conservata l’antica fattoria di torba di Glaumbær, e la vecchia chiesa di torba di Viðimýrarkirkja. Ci rechiamo in seguito nel villaggio di Blönduós, dove ci fermiamo a mangiare. È un paese piuttosto anonimo al cui centro campeggia una fotogenica chiesa moderna. In un locale decorato con foto di foche pucciose dai grandi occhioni neri che giocano sugli scogli, troviamo nel menù “bistecca di foca”. Un po’ increduli rileggiamo: “grilluð selsteik – grilled seal”: ok, è proprio “bistecca di foca”. Sappiamo che la foca comune non corre alcun rischio di estinzione e che viene cacciata e consumata in vari paesi, sebbene sia un piatto un po’ inconsueto. Tuttavia, le foto sul muro ci mettono un po’ a disagio. Il vecchio tabù culturale per cui certi animali sono carini e vanno rispettati, mentre altri si meritano di finire in forno inevitabilmente è radicato anche in noi. Alla fine però la nostra curiosità ha la meglio e cediamo: la fredda razionalità trionfa sulle emozioni. Mentre ordiniamo, ci sembra che gli occhioni che ci osservano diventino più tristi. Ci sentiamo in colpa, ma il piatto è buono. Un forte gusto di selvaggina, complesso e deciso, ma gradevole.

Vicino al paese troviamo Þingeyrakirkja, la prima chiesa in pietra d’Islanda. Da qui proseguiamo per la località di Hvammstangi, da dove cerchiamo di avvistare le foche. Purtroppo, forse a causa di quello che avevamo appena fatto, non si sono fatte vedere da noi.

Ci aspetta a questo punto una lunga strada fino a Borgarnes, villaggio alle porte del Parco Nazionale di Snæfellsnes e finalmente un po’ di meritato riposo all’hotel Rjúkandi.

Il sole sorge presto e va a dormire molto tardi, un po’ come noi. Ormai rimangono solo due giorni e cominciamo a sentire il tempo stringerci addosso: vorremmo restare di più, vedere di più, continuare ad attraversare questi paesaggi inviolati, ma purtroppo non è possibile.

Chiesa con suonatore di alphorn (Islanda, 2016)

Cominciamo la giornata da Staðarstaður, piccolo insediamento disperso nel niente, ed entriamo nella Riserva Naturale di Búðahraun. A Snæfellsbær nei pressi di Búðir, un borgo stretto tra il mare e i campi di lava, troviamo una chiesetta di legno nero davvero cinematografica. Il tutto è reso ancor più surreale da un tizio, forse il prete, che suona un grande alphorn nel prato davanti al luogo di culto.

Poco dopo, nei pressi di Arnarstapi, ci imbattiamo in una colossale statua di pietre sovrapposte che raffigura Bárður Snæfellsás, leggendaria figura mezzo uomo e mezzo troll che avrebbe vissuto da queste parti. Ci facciamo una passeggiata sulla scogliera di basalto colonnare e poi proseguiamo verso Hellnar. Ogni tanto in mezzo ai prati compare qualche fattoria o qualche chiesetta, come la malmessa Hellnakjrkia. Oltrepassiamo Laugarbrekka, luogo dove nacque Guðríðr Þorbjarnardóttir, la più grande esploratrice vichinga e la prima donna europea a far nascere un figlio in America, nell’odierno Canada, che allora si chiamava Vinland

Visitiamo la bella spiaggia di Djúpalónssandur e l’adiacente cala di Dritvík composta da ciottoli lavici perfettamente sferici. Difficile immaginare che questi luoghi desolati furono un tempo, non troppo lontano, la base di una grande flotta peschereccia e di un villaggio di pescatori. Più avanti ci aspetta un’altra spiaggia di sabbia dorata attraversata da mille rigoli d’acqua: Skarðsvík.

Passiamo l’insediamento rurale di Hellissandur, con una piccola chiesa bianca dal tetto rosso davanti alla quale hanno posto due grandi rocce molto scenografiche, poi il villaggio costiero di Rif dove incontriamo un altro giardino di ossa di balena, e il piccolo porto di Ólafsvík sul quale svetta una pretenziosa chiesa moderna.

Da qua si comincia a vedere l’indistinguibile sagoma piramidale del monte Kirkjufell, uno dei monumenti naturali più fotografati d’Islanda. Ci dirigiamo alle sue pendici, dove si trova la cascata Kirkjufellsfoss, per scattare una foto di rito da bravi turisti. La bellezza del luogo è indiscutibile, ma c’è un po’ troppo affollamento, così non ci fermiamo molto e attraversiamo il villaggio di Grundarfjörður per andare alla scogliera di Gerðuberg, che con le sue ordinate colonne di basalto cinge il fianco occidentale della valle di Hnappadalur.

La chiesa di torba di Grafarkirkia (Islanda, 2016)

Ritorniamo sulla costa e ci imbattiamo in un’altra chiesa moderna altrettanto pretenziosa della precedente, che guarda dall’alto il minuscolo borgo di pescatori di Stykkishólmur. Al nostro arrivo troviamo la bassa marea, che ci offre lo spettacolo delle barche in secca su un improbabile prato di alghe.

La nostra giornata volge ormai al termine. Sorpassiamo l’antico insediamento di Borg á Mýrum, che ci lascia in testimonianza una solitaria chiesetta di campagna, e siamo di nuovo a Borgarnes. Purtroppo, qui abbiamo la pessima idea di visitare il Museo della Colonizzazione, che è in realtà un percorso didattico per bambini. Comunque, impariamo un sacco di cose sulle saghe islandesi grazie a pupazzetti di legno e diorami, e alla caffetteria proviamo la mysa, siero di latte acido che piaceva ai vichinghi. Anche questa volta tratteniamo a stento l’istinto di rigettare.

Decidiamo di fare una mezza follia e allungare la strada e andare a mangiare a Reykjavík.

Alla fine – pensiamo – grazie alla galleria di Hvalfjörðu, è solo un’altra ora di viaggio. Arriviamo invece distrutti, e non riusciamo a goderci la città quanto vorremmo, però capiamo subito come sia una città piena di vita, con una movida che non ci saremmo aspettati e che ci godremo il giorno seguente. Premiamo comunque la nostra determinazione mangiando in un ristorante di livello, il Sjavargrillid, specializzato in cucina new nordic. Anche qui proviamo un piatto insolito: il marangone, un uccello marino simile al cormorano dal sapore deciso. Il nostro cameriere è molto felice di incontrarci perché, ci racconta, il suo italiano –imparato durante la sua lunga permanenza a Roma – è un po’ arrugginito.

L’ultimo giorno siamo davvero tristi di dover abbandonare questo paese che ci ha rapito il cuore. Siamo determinati a non sprecare neanche un momento e visitiamo ancora alcune cose nell’area del Cerchio d’Oro, dalla quale siamo partiti quasi due settimana fa.

Visitiamo il villaggio Reykholt, dove si trova anche il famoso laghetto termale Snorralaug, e proseguiamo per la piccola ma potente cascata di Barnafoss, che significa Cascata dei Bambini, a causa della storia popolare che racconta di due bambini caduti nel fiume. Poco più a valle visitiamo la cascata di Hraunfossar, generata da acque termali che escono dal sottosuolo gettandosi nel vertiginoso canyon del fiume Hvítá.

Poco dopo arriviamo a Húsafell, dove percorriamo un sentiero storico che incrocia, tra le varie cose, un ovile in pietre a secco dove Snorri, antico poeta islandese, ha rinchiuso diciotto fantasmi.

La cascata di Hraunfossar (Islanda, 2016)

Il nostro viaggio continua con la visita di Surtshellir, grotta lavica sul cui fondo abbiamo trovato il ghiaccio, e infine il villaggio di Akranes alle porte della capitale. Qua, con nostro sommo sbigottimento, vediamo persone fare il bagno sulla spiaggia di Langisandur, contrassegnata dalla bandiera blu. Scopriamo poi che in prossimità della spiaggia, un piccolo corso d’acqua termale mitiga leggermente la temperatura del mare, che comunque difficilmente supera gli undici gradi.

Il resto della giornata è dedicato all’esplorazione e alla scoperta della capitale Reykjavík, unica vera e propria città in Islanda. Dopo tanto vagare per lande desolate, non ci dispiace entrare in un centro abitato con strade a più corsie e alti palazzi in cemento, sebbene anche qui – come nel resto del paese – la maggior parte delle case siano di lamiera d’acciaio colorata.

L’unico museo islandese degno di questo titolo, perlomeno per gli standard italiani, si trova qui: il Þjóðminjasafn Íslands, il Museo Nazionale d’Islanda. Visitiamo quindi i monumenti della capitale, a partire dalla splendida Hallgrímskirkja, l’iconica chiesa in cemento alta oltre settanta metri che domina il centro cittadino da ogni angolazione. Poi le vivaci strade Laugavegur, Austurstraeti, Lækjargata e Skólavörðustígur che brulicano di gente e di negozi. Vanno per la maggiore quelli di abbigliamento tecnico, con eccellenti marche locali quali 66° North o Ice Wear che purtroppo non possiamo permetterci, ma anche quelli che vendono lopapeysa, gli splendidi maglioni tradizionali di lana islandese, o ancora – da bravi nordici – quelli di design. Ciò che accomuna tutti questi negozi è la presenza di animali impagliati, pelli, pellicce e corna, sia in esposizione che in vendita. Evidentemente qui vanno ancora di moda.

Ci sorprende il persistente odore d’erba che si respira in prossimità di molti locali frequentati. Non è legale, ma molti islandesi sono soliti passare week end di shopping nel vicino e tollerante Canada, e forse non acquistano solo vestiti. 

Strada centrale a Reykjavík (Islanda, 2016)

La vecchia Reykjavik si sviluppa tra edifici pittoreschi e giardini intorno al laghetto Tjörnin sul quale si riflette il Ráðhús Reykjavíkur, il bel municipio moderno. Poco lontano si trova la vecchia cattedrale luterana Dómkirkjan e, a dimostrazione del cosmopolitismo della città, quella cattolica di Dómkirkjan Krists Konungs, la Cattedrale di Cristo Re, dal gusto vagamente inglese.

Il lungomare e l’area del porto lasciano senza parole: l’ampia e fumosa baia è dominata da Sólfar, il Viaggiatore del Sole, una scultura in acciaio che rappresenta una nave vichinga stilizzata, e dalle moderne forme di vetro dell’Harpa Concert Hall.

Ci rendiamo conto però che la sua bellezza non è data tanto da essi, quanto dall’atmosfera che qui si respira. La sensazione di relax che dà il sapere di trovarsi ai confini del mondo.

Tra i palazzi moderni coperti di graffiti che si alternano agli edifici del vecchio porto, ci fermiamo a mangiare un pylsur, un hot dog di pecora al famosissimo chiosco Bæjarins Beztu Pylsur, pretenzioso nome che significa “Il miglior hot dog della città”.

E pensare che ci avevano detto che Reykjavík non meritava una visita: niente di più falso. Però ci rendiamo conto che la bellezza di questa città non è dovuta ai suoi scorci e monumenti, quanto all’atmosfera che si respira qui. La rilassante sensazione di trovarsi lontano da tutto, ai confini del mondo.

Ormai il viaggio è finito, domani prenderemo l’aereo che ci riporterà in Italia. Avremo solo il tempo di fermarci lungo la strada a vedere – e vedere soltanto – la Blaa lónið, cioè la Laguna Blu, il più famoso impianto termale d’Islanda che si trova vicinissimo all’aeroporto.

Non vogliamo che domani arrivi, e questo sole che non vuol tramontare sembra capirci. Ci piace la sensazione di trovarci sospesi, in bilico su un’isola di fuoco e ghiaccio, a un passo dal Polo nord, con la terra che ribolle sotto i nostri piedi. In un luogo in cui l’uomo è sempre ospite, e non ancora padrone.

All photos by Gabriele Levantini (Islanda, 2016)

Islanda: isola di fuoco e ghiaccio (pt. 3), un articolo di G. Levantini || THREEvial Pursuit

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