Islanda: isola di fuoco e ghiaccio
Il grande Nord
di Gabriele Levantini

Sono giorni che percorriamo centinaia di chilometri, approfittando di un sole che sembra non voler tramontare mai, ma ci alziamo comunque di buon’ora, mangiamo le solite aringhe, lo skyr e il pane nero. Beviamo un caffè lungo, anzi lunghissimo, e partiamo. La bellezza di ciò che ci circonda è un potente integratore vitaminico che corrobora le nostre forze: appena fuori dall’albergo ci sentiamo subito rigenerati.
Non amo guidare, ma in questi paesaggi così maestosi e solitari è diverso. La guida qui ha qualcosa di romantico ed epico, è per me una specie di conquista del Far West. Non mi pesa affatto, anzi.
Iniziamo dall’entroterra di Egilsstaðir, con le belle cascate gemelle di Hengifoss e Litlanesfoss. La prima salta giù da una parete di roccia a strati di diversi colori, che si alternano geometricamente come in una maglietta marinara. La seconda invece si tuffa da un trampolino di mille colonne di basalto, che sembrano una foresta pietrificata.
Superiamo la piccolissima chiesa di torba di Geirsstadir, ricostruzione di un’originale medievale posta all’interno di un’area rurale dove si allevano pecore, e ci dirigiamo a nord. La prima sosta è la penisola di Borgarfjarðarhöfn, santuario naturalistico nei pressi del villaggio di Bakkagerði sul fiordo Borgarfjörður eystri dove le pulcinelle di mare nidificano. Questo uccello, chiamato anche puffin, è a rischio di estinzione in buona parte del suo antico areale, che si estendeva fino alle coste scozzesi e irlandesi, ma è invece relativamente comune in Islanda, tanto che in alcune regioni viene cacciato ed è servito abitualmente nei ristoranti di tutto il paese. La sua carne è tra più buone che abbia mai assaggiato. La caccia a questo animale si faceva tradizionalmente usando dei lunghi retini per catturare gli uccelli quando si lanciano dalle scogliere, ma al giorno d’oggi i fucili hanno sostituito le reti.
Dopo un po’ di pazienza, riusciamo finalmente a vedere questi animali marini così buffi, col loro grande becco da pappagallo e il corpo da gabbiano, e – per quanto siano appetitosi – devo ammettere che osservarli è decisamente più emozionante che mangiarli.
Poco lontano dal fiordo, visitiamo Álfaborg, una sorprendente formazione geologica di rocce nere e affilate, che sembra un set cinematografico di un film fantasy più che un luogo reale. È la famosa Città degli Elfi, capitale del Popolo Nascosto. In tutto il paese, e specialmente nel nord, la fede islandese nell’esistenza di entità misteriose che vivono tra le rocce e negli sconfinati paesaggi artici è testimoniata dalla presenza in molti giardini di piccole casine, messe lì come segno d’amicizia per queste creature gentili.
Purtroppo nonostante i nostri sforzi, forse a causa della nostra poca fede, noi invece non siamo riusciti a scorgere neppure un elfo.

Ripartiamo facendo nuovamente rotta verso sud, per visitare una serie di fiordi e di incantevoli paesini marinari, dove pescherecci color arancio fluorescente sfidano un mare minaccioso nel quale si riflettono montagne impervie dalle cime bianche.
Prima tappa Fáskrúðsfjörður (chiamata anche Buðir), con le indicazioni stradali in doppia lingua a memoria dei tempi – non molto lontani – nei quali era una colonia di marinai francesi, che dall’adiacente porto di Skrúður partivano alla ricerca di aringhe e merluzzi.
Poi Eskifjörður e Neskaupstaður, dove ci fermiamo per una rigenerante passeggiata sulla scogliera e per visitare una grotta marina.
Col mare sotto di noi, camminiamo su un terreno di torba intriso d’acqua, che si abbassa ad ogni nostro passo. Di tanto in tanto profonde spaccature sul suolo ci ricordano che di questa terra è bene non fidarsi troppo. Tuttavia, c’è una grande pace tra le verdi piante subartiche che fioriscono rigogliose nella breve e fredda estate islandese. Respiriamo a fondo l’umida brezza marina che porta in volo puffin e cormorani, consapevoli che stiamo vivendo un’esperienza unica. Scendiamo con attenzione alla grotta, lambita dalle onde. Dalla volta davanti all’ingresso scende una specie di rada cascatella, che dobbiamo oltrepassare per visitarne l’interno. Gli unici rumori che sentiamo sono i respiri della natura: l’acqua che cade, il mare si schianta con rabbia sui sassi neri davanti alla grotta coperti da alghe incredibilmente grandi, il canto degli uccelli marini.
L’ultima tappa della giornata è il villaggio di Reyðarfjörður, sul cui lungomare si trova una mina oceanica inesplosa, testimonianza di come la follia della guerra si sia spinta fino ai confini del mondo.
Rincasiamo infine a Egilsstaðir. È stata una giornata infinita, come il numero dei luoghi che vorremmo visitare. Collassiamo felici in albergo, nel crepuscolo quasi interminabile della notte ormai tarda.

Il giorno seguente lasciamo definitivamente Egilsstaðir facendo rotta verso Dettifoss, la cascata più grande d’Europa, al cui cospetto ci sentiamo insignificanti. Non molto lontano si trova il canyon Ásbyrgi, che significa Rifugio degli Dei, il quale ha un’insolita struttura a ferro di cavallo. Questo non sorprendere, dal momento che è stato originato dal tocco di uno degli otto zoccoli di Sleipnir, il cavallo volante di Odino. All’interno di questo anfiteatro naturale troviamo una rara foresta di betulle e un lago verde che ricorda quelli delle nostre Alpi.
Dopo aver visitato il luogo in cui gli dèi si rifugiarono una volta cacciati via dai cristiani, andiamo a cercare il luogo dove si manifestano tuttora ai loro moderni seguaci neopagani: Raufarhöfn, il punto più a nord dell’Islanda continentale. Questo gelido villaggio si trova a soli tre chilometri dal Circolo Polare Artico: più su di così c’è solo l’isola di Grímsey e poi ghiaccio e mare fino al Polo. Il villaggio è totalmente deserto e ha un aspetto desolato, il che contribuisce ad ammantarlo di un’aura poetica. C’è un piccolo cortile dove grandi vertebre di balena sono sparse a mo’ di seggiole; casette di legno e lamiera colorate e un albergo malmesso con una rete da basket all’esterno. Vista la temperatura, anche ora che è agosto, ci stupiamo di come qualcuno abbia avuto tanto coraggio da aprire un albergo qui. Sulla collina chiamata Melrakkaás, che significa Colle delle Volpi, è invece stato costruito l’Heimskautsgerðið o Artic Henge, una sorta di tempio (un henge per l’appunto) che dovrebbe interagire con l’energia delle luci nordiche nei vari periodi dell’anno.
Facciamo una passeggiata sulla spiaggia poco fuori il villaggio, ma il vento che soffia implacabile dal Polo fino a qui non ci consente di resistere a lungo.
Ripartiamo per Húsavík, delizioso vecchio borgo baleniero totalmente convertito al whale watching e all’ecosostenibilità, tanto da essere uno dei pochi luoghi in Islanda dove al ristorante non si trova carne di balena. Qua e là sono pubblicizzati menù vegetariani e addirittura vegan. Visitiamo il Museo della Balena, molto didattico. Proviamo ammirazione per il coraggio eroico degli antichi balenieri e senso di colpa per il comportamento di quelli moderni. Nei pressi del porto ci danno pure un volantino che spiega in inglese perché non avremmo dovuto mangiare carne di balena in Islanda. Giusto, ma anche questo un po’ di parte, visto che qui per fare bei soldi hanno bisogno che le balene si sentano tanto tranquille e sicure de entrare nella baia Skjálfandi.
In ogni caso, oggi mangiamo degli ottimi pesce lupo e salmerino artico, pesci locali assai più “politicamente corretti” delle balene “sostenibili”.
Ci allontaniamo un po’ dal mare per visitare le antiche case di torba di Grenjaðarstaður e attraversiamo ampie campagne dove corrono i cavalli islandesi, fino ad arrivare a Narfastaðir Guesthouse dove dormiremo. Prima del nostro arrivo il cielo, in un tramonto arancione come mai prima d’ora, ci regala il raro spettacolo di un doppio arcobaleno.

Il giorno dopo lo dedichiamo all’area geotermica di Námafjall Hverir, e al lago Mývatn. Visitiamo il famoso sito di Grjótagjá, cavità lavica al cui interno una fonte termale forma un lago azzurrissimo, e poi attraversiamo un’ampia pianura fumante dove incrociamo fumarole, pozze calde, immensi impianti geotermici e doccia in mezzo al niente dalla quale esce acqua termale gratis.
Facciamo un breve trekking fino alla cresta del vulcano spento Hverfjall e poi proseguiamo per Dimmuborgir, il cui nome significa Fortezza Oscura: un labirinto di formazioni laviche posto sulla sponda orientale del lago. Questo luogo è una specie di portale, una connessione tra il nostro mondo e gli inferi. Superfluo specificare che, sebbene sfuggano alla vista dei più, è densamente popolato di elfi e troll.
Arriviamo infine al Lago Mývatn, che significa Lago dei Moscerini, a causa della fastidiosa presenza di questi animali, pressoché assenti nel resto del paese. Specchi d’acqua sono intervallati da pseudocrateri, particolarmente spettacolari a Skútustaðir. Sembrano il risultato di un pesante bombardamento a tappeto, ma sono in realtà il frutto del brusco raffreddamento di antiche colate laviche. Grazie al terreno vulcanico, le acque del lago sono estremamente ricche di nutrienti, perciò la vegetazione è piuttosto rigogliosa. L’intensa attività geotermica della zona ci consente di farci un bagnetto rilassante al Mývatn Nature Baths, uno degli stabilimenti termali più famosi d’Islanda. Interessante come qui sia obbligatorio fare una doccia integralmente nudi prima di poter accedere alle vasche, e come questo sia vissuto senza imbarazzo.
Giriamo intorno al lago e nelle sue vicinanze incontriamo Goðafoss, la Cascata degli Dei, così chiamata da quando gli islandesi, appena convertitosi dal paganesimo al cristianesimo, decisero di buttare qui tutte le statue delle loro ex divinità.

Torniamo nuovamente verso nord e attraversiamo il villaggio di Reykjahlid ed il minuscolo e anonimo paesino di Laugar, prima di fare il nostro ingresso ad Akureyri, seconda area urbana del paese, con ben trentamila abitanti e capoluogo della regione Norðurland eystra. In Italia sarebbe un paese, qua è una metropoli. L’ingresso in città è costituito da un ponte dal quale si gode un panorama incredibile del fiordo Eyjafjörður, uno dei più lunghi d’Islanda. La vista del mare che si insinua tra alte catene montuose, alla cui base dorme questa città piena di luci, è talmente bella che torniamo indietro per poter attraversare due volte il ponte.
L’atmosfera che si respira in centro è piacevole e vivace. Anche se la temperatura non si può definire mite, la gente mangia ai tavoli disseminati lungo le strade davanti ai locali, sotto i funghi riscaldanti e con i plaid addosso, ma all’aperto. Le stradine sono piene di negozi, immancabilmente addobbati con animali impagliati, che evidentemente trovano eleganti. Spesso questi oggetti sono anche in vendita, unitamente ai documenti necessari a esportarli legalmente fuori dal paese.
Per la prima volta dal nostro arrivo, vediamo anche qua i segni della globalizzazione, che si manifesta prima in un ristorante indiano realizzato in una piccola chiesetta sconsacrata e poi in una simpatica ragazza italiana che lavora al chiosco degli hot dog e che ha fatto di questo paese così remoto la sua nuova casa. Dopo una gradevole passeggiata sul lungofiordo, andiamo a mangiare e questa volta proviamo l’uria, un uccello marino locale il cui gusto ricorda vagamente il nostro piccione.
L’intera giornata successiva la spendiamo visitando questo grande fiordo: visitiamo i villaggi di Grenivík e Hauganes, che giacciono uno davanti all’altro sulle due sponde, e i resti del villaggio vichingo di Gásir, come al solito più da immaginare che da vedere. Ma il piatto forte del giorno è la visita all’isola di Hrísey, nel centro del fiordo.

Partiamo dal minuscolo porto di Árskógssandur su un traghetto che sembra più un peschereccio dismesso che un’imbarcazione di linea e in breve tempo ci accorgiamo che il mare sotto di noi, pur essendo scuro, è anche inaspettatamente trasparente e lascia intravedere distese di lunghissime alghe verde-marrone e un’infinità di meduse eteree che si muovono lente come nuvole d’estate.
Sull’isola vivono stabilmente pochissime persone, principalmente dedite al turismo, alla pesca e alla lavorazione del pescato, come suggerisce la stazione di essiccatura dell’hákarl – il tradizionale squalo fermentato – vicino al villaggio.
Questo antico piatto nacque dalla necessità dei vichinghi di mangiare lo squalo groenlandese, fonte proteica abbondante a queste latitudini, ma purtroppo per loro non commestibile. L’animale, infatti, è privo di apparato urinario, cosa che fa sì che nelle sue carni sia accumulano tossine, tra le quali la trimetilammina-N-ossido, velenosa per l’uomo. In qualche modo però si accorsero che se lo squalo veniva fatto fermentare e marcire sottoterra e poi affumicato ed essiccato, diventava commestibile.
Naturalmente non possiamo resistere al fascino di un piatto simile e decidiamo di provarlo anche noi: la carne bianca e gommosa non assomiglia a pesce, ma a qualcosa di sintetico. Ha l’odore di un secchio di piscio di cane lasciato al sole in agosto, mentre in bocca sembra di avere dell’ammoniaca. A un passo dal vomitare, decidiamo che un solo assaggio è sufficiente. D’altra parte, se anche il mitico Andrew Zimmern di Orrori da Gustare l’ha definito il cibo peggiore da lui provato, vorrà pur dire qualcosa.
Tradizionalmente piccole porzioni di questo piatto devono accompagnarsi a generose dosi di brennivín, la potente acquavite islandese nota anche come Morte Nera (e pensare che per ottant’anni, fino al 1989, l’alcol è stato completamente proibito in questo paese!) Ne capiamo perfettamente il motivo.
Ma l’hákarl non è l’unica attrattiva di quest’isola. Seguiamo il sentiero che dal porticciolo ci conduce sulla sommità della collina, dalla quale godiamo di un panorama unico. Una volta arrivati in vetta, dei cartelli ci avvertono che in questo luogo convergono i flussi di energia cosmica che attraversano il globo e che pertanto stare qui fa molto bene, e dona pace. Sul fatto che questo santuario naturale sia rilassante, mi sento di confermare, ma sulle sue presunte proprietà salutari temo che influisca negativamente il vento gelido che sferza la collina e che dopo un po’ ci costringe a scendere.
Ritorniamo sulla terraferma e concludiamo la giornata con una sosta all’antica fattoria di torba di Laufás e godendoci il resto della serata ad Akureyri, che domani dovremo salutare.
Akureyri Caratteristiche case islandesi in legno e lamiera Segnavia di pietre Centrale geotermica Dimmuborgir, la Fortezza Oscura Foresta di betulle ad Ásbyrgi Grjótagjá Il canyon Ásbyrgi Il chiosco di hot dog ad Akureyri Il luogo della fontana di energia sull’isola di Hrísey L’area geotermica di Námafjall Hverir Moderno arpione per balene al Museo di Húsavík Reparto gomitoli di lana in una stazione di servizio Strutture per essiccare il pesce a Hrísey Uno pseudocratere al lago Mývatn Hengifoss Puffin a Borgarfjarðarhöfn Litlanesfoss Doppio arcobaleno Vecchie case ad Akureyri