4 Ristoranti Iran, un articolo di G. Bindi || Three Faces


4 Ristoranti Iran

di Gianluca Bindi

Photo by Daniele Lombardi
Photo by Daniele Lombardi

Lo scorso 7 agosto non è stata soltanto la data in cui ho assistito al concerto degli OM, esperienza che mi ha permesso di dare un filo illogico ai miei ancora più illogici pensieri sulla religione. Ma è stata anche la sera, proprio allo stesso baracchino del fritto di pesce preconcerto, in cui io e il mio amico Daniele abbiamo deciso che da lì a qualche settimana saremmo andati in Iran. E non poteva che essere il cibo la chiave narrativa per raccontare, in parte, cosa ho vissuto in quelle due magnifiche settimane. Non i due libri di Kapuściński letti nell’ultimo anno, non la possibilità svanita nel 2018 di entrare in Iran via terra dalla Turchia; ma quel vassoio di totani, acciughe, gamberi, paranza impastellati e buttati in un olio bollente che minimo aveva fatto più chilometri di quello della mia macchina. Perciò ho deciso di usare un format televisivo molto popolare per raccontarvi il mio viaggio in Iran, visto che il cibo è uno dei modi migliori di conoscere la cultura di un popolo e che, comunque sia, ogni occasione non sfruttata di buttarla in caciara è un’occasione persa. Al di là di tutto, l’Iran rimane quel magnifico Paese dove cucina mediterranea, araba e indiana si incontrano, bilanciandosi a vicenda.

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Isfahan (Photo by Daniele Lombardi – Iran 2019)

Visto che siamo partiti con un bagaglio di raccomandazioni non indifferente (tanto che a volte mi è sembrato di dover partire per la Siria), ci siamo addentrati per la prima volta all’interno dell’Iran quantomeno con gli occhi aperti. Lasciare la moderna e open-minded Teheran voleva dire iniziare a misurare la reale temperatura sociale del Paese. È bastato mettere piede nella piazza Naqsh-e jahàn per innamorarci di Isfahan: una delle più grandi del mondo, con piscine, alberi e tre complessi (due moschee e un palazzo), alla vista della quale mi è risultato davvero difficile dare credito ai miei occhi. L’imponenza e le decorazioni della moschea dello scià è un’esperienza che mi porterò sempre dentro finché campo. Ma oltre alle bellezze architettoniche, Isfahan ci ha sorpreso anche nell’accoglienza. Dormivamo da una famiglia, assieme ad altri viaggiatori. Davamo una cifra simbolica per notte con colazione inclusa, che includeva ingredienti interessanti: dalla marmellata di carote alle esfoliazioni di pasta di sesamo dolce (assieme all’immancabile tè). Il giovedì sera (che per i musulmani è come il nostro sabato) Masoud e la sua famiglia ci hanno pure invitato ad un picnic in riva al fiume, con tutti gli altri ospiti che avevano una provenienza mista dalla Francia alla Cina. Ci hanno offerto samosa e tè, noi abbiamo portato il dolce (era il compleanno del mio amico). Abbiamo voluto molto bene a Masoud; certo non parlava l’inglese come le figlie ma sapeva dividere la vita e tutto ciò che la concerne in due, chiare e semplici categorie: NO-GOOD e VERY-GOOD. E piano piano faceva diventare immanente una divisione della realtà con frasi minime che tutti potevano capire: «Tè verigud», «Inglesi e americani (in riferimento al passato coloniale) nogud». Con un messaggio di fondo che quasi intercettavo nella sua assoluta semplicità, e cioè di non fare entrare nulla nella tua vita a meno che non sia qualcosa di molto buono, positivo; il resto meglio lasciarlo perdere (similitudine ottima anche per il cibo che entra nello stomaco). Il ponte Khaju rifletteva sulle acque, illuminandole a giorno. Attorno a noi, una moltitudine di altre persone felici e spensierate che banchettavano o fumavano narghilè sull’erba. Beh, diciamo che se avremmo dovuto sentirci minacciati, avevamo decisamente sbagliato luogo. Voto loghescion: Verigud.

Menù

 

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La Roulette Kabab di Yazd (Photo by Daniele Lombardi – Iran 2019)

Per la grevata del viaggio (dicesi grevata un’esagerazione non raffinata), abbiamo dovuto aspettarne quasi la fine. Eravamo a Yazd, città in mezzo al deserto che ha fatto del trovare e gestire l’acqua una vera e propria arte (da vedere il relativo museo). Oltre a quello e alle splendide architetture, penso di aver mangiato la roulette-kabab più impervia della mia vita. Già in mattinata, passando sotto il grande complesso museale Chakhmaq ora riadibito a mercato, li avevamo notati. Erano molti, erano diversi e, soprattutto, erano impilati l’uno sull’altro. Ho provato a fare finta di niente, ma proprio non me li sono riusciti a togliere dalla testa per tutto il tempo. Così, qualche ora dopo, convinco il mio compagno di viaggio a fare sosta obbligatoria a quel baracchino marcio e, con sguardo assatanato, faccio capire le mie bellicose intenzioni al grigliatore, che da quel momento ho iniziato a chiamare serial griller. Perché? Semplice: non capita tutti i giorni di mangiare pezzi di pollo, agnello, cuore, reni e grasso di vacca infilati in spade di ferro (sì esatto fanno anche il kabab di grasso, come fai a non amare questo popolo?). E penso che con la quantità di mosche che svolazzavano sul nostro cibo ci è mancato poco che mangiafuoco non si mettesse a grigliare pure quelle. Seduti a gambe incrociate su un rialzo di legno rivestito di un tappeto scarlatto, abbiamo combattuto gli spiedini come dei leoni. Finito il vassoio abbiamo ordinato il bis, ottenendo uno sguardo misto fra timore e rispetto dal serial-griller. Mentre continuavo a masticare la callosità del rene, annaffiando tutto con una bevanda allo yoghurt fermentato chiamata doogh, mi chiedevo se quello fosse il paradiso, nel senso che non sapevo se effettivamente fossi già morto di ostruzione di vasi sanguigni. Voto menù: chi di spade ferisce, di spade perisce.

Servizio

 

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Azari Traditional Tea House (Photo by Daniele Lombardi – Iran 2019)

Atterrati all’aeroporto internazionale di Teheran nel cuore della notte, abbiamo sfruttato la prima sera disponibile scegliendo con cura dove andare mangiare. Era l’inizio del viaggio e avevamo una voglia matta di tuffarci nella cucina tipica iraniana. Con l’aiuto un po’ della Lonely Planet e un po’ di chi lavorava in ostello abbiamo portato i nostri talenti masticatòri (semicitazione lebroniana) da Azari, in un altro sobborgo della città. Eravamo intenzionati ad assaggiare il dizi, un piatto simbolo della tradizione persiana. Ci accomodiamo al tavolo, in una sala molto accogliente e guarnita di stoffe, piante e profumi deliziosi. Qualche minuto dopo avere ordinato ci raggiunge un giovane cameriere con un vassoio enorme e pieno di ciottoli e utensili. Appoggiato il kit sul tavolo, il ragazzo ci inizia a illustrare il procedimento. Innanzitutto prende con un forcipe un pentolino che sembrava fatto di piombo o del materiale in cui si rivestono i nuclei delle centrali nucleari. All’interno c’era lo stufato di agnello, ingrediente principale del piatto, che a occhio e croce doveva raggiungere temperature laviche dei tremila gradi Fahrenheit fantozziani. Con molta cura, il cameriere versa parte del contenuto in un mortaio e inizia a pestarlo, illustrandoci il procedimento passo per passo e in maniera talmente minuziosa che quasi mi son sentito in colpa a non avere con me un blocco per gli appunti. Alla fine strappa un pezzo di lavash (tipico pane-piada iraniano), prende una cucchiaiata della cremina ipercalorica e ce la spalma sopra, con l’aggiunta di erbe e salsa allo yoghurt con aglio. Dopo dieci minuti di tutorial finalmente iniziamo a mangiare, e già al primo boccone la diffidenza svanisce completamente. I quarantasette sapori diversi si bilanciano perfettamente ed esplodono in bocca come una festa di carnevale. A fine pasto, con lo stomaco rigonfio, veniamo spostati in un’altra sala per fare una fumata digestiva al narghilè. Voto servizio: galateo unto.

 

Conto

 

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Riyal o Toman? (Photo by Daniele Lombardi – Iran 2019)

Inutile dire che per tutta la durata del viaggio abbiamo mangiato molto e speso molto poco. A parte la sensazione di panico quando ti portavano il conto: diciamo che quando vedi scritto un milione e mezzo di rial e non sei ancora rodato col cambio ti caghi un po’ addosso, ma appena scopri che sono meno di cinque euro a testa ti fai una risata per il pericolo scongiurato. Acclimatarsi con la moneta locale non è stato affatto facile e i prezzi oscillavano a seconda delle occasioni. Basti pensare che i riyal a volte erano considerati tali, a volte erano considerati toman, ossia rial con uno o quattro zeri in meno (anche qui molto arbitrariamente da caso a caso). Trattandosi di cifre per noi abbastanza irrisorie per quanto riguarda il cibo, in questa categoria parlerò delle pietanze che si sono distinte per miglior rapporto qualità/quantità/prezzo e che per certi versi sono state la sorpresa culinaria del viaggio, ossia le zuppe. Siamo reduci da una notte sul pullman che da Shiraz ci ha portato a Bandar Abbas, nell’estremo sud dell’Iran. Non abbiamo chiuso occhio perché l’autista si era incaponito a tenere l’aria condizionata a 8 gradi, non si sa per quale motivo. Quando scendiamo alla stazione, la situazione è tragicomica: il mio collega viene rapito da varia gente che rispettivamente vuole vendergli tè, corse in taxi, denaro e tappeti; io con gli occhiali appannati che non mi sono ancora ripreso dallo shock termico dei 35 gradi alle 6 di mattina (eppure cinque minuti fa tremavo dal freddo); in più siamo senza soldi e dobbiamo cercare un cambio prima di prendere il traghetto che ci porterà all’isola di Hormuz nel Golfo Persico (in Iran non è possibile usare carte straniere). Dopo passaggi in macchina, prenotazioni, uffici chiusi e cambio soldi in un albergo (ve la faccio breve), alle 8.30 con una temperatura già proibitiva troviamo un dispensatore di zuppe da asporto, con alcuni tavolini all’interno. Entriamo avvolti nell’aria condizionata (stavolta necessaria) e ordiniamo le scelte del giorno: ash (zuppa di legumi, erbe e noodle), halim (zuppa di grano, latte, agnello e cannella) e, per pulirsi la bocca, un bel mirza ghasemi (pappetta di melanzane stufate, uova e pomodoro). Eravamo così contenti che la sera dopo, ritornati in città dall’isola, prima di ripartire per l’ennesima nottata in pullman, ci siamo rifermati dallo stesso zuppaio: minima spesa, massima resa. Voto conto: colazione da campioni.

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Bonus Iran
Gianluca Bindi “Borghese” (Photo by Daniele Lombardi – Iran 2019)

Difficile dirlo. Ci sarebbero tanti piatti outsider con dietro altrettante storie particolari da raccontare. Posso citare i gamberi al curry sull’isola di Hormuz, il fesenjan ossia il pollo ricoperto di stufato di noci e salsa di melograno, o come dimenticare il khoresht mast un dolce fatto con zafferano, yoghurt, zucchero e carne di collo di agnello (non è un errore). La sensazione, quando lasci l’Iran, è di meraviglioso incompiuto; sei ripartito e avresti ancora molto da conoscere (e da assaggiare) in questo Paese incredibile. Un Paese che consiglio vivamente a tutti, nei modi e nei tempi che permetteranno ai suoi meravigliosi abitanti di vivere una vita dignitosa, al di fuori di qualsiasi dittatura. Le proteste e gli scontri di questi mesi (oltre a rendermi conto di quanto sia stato fortunato ad andarmene via per tempo) sono durissimi da accettare da chi come me ha trovato un popolo con orgoglio, cultura e grande cuore rivolto verso visitatori stranieri. E forse, il vero valore aggiunto, il cibo che ho sentito più nell’anima che nello stomaco sono state proprio le persone, che, per quanto valga questo stupido articolo rispetto alle sofferenze che stanno passando, meritano un bel diesci.

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Iran 2019 (Photo by Daniele Lombardi)

 

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