Che cos’è questo golpe?
Io so
di Pier Paolo Pasolini
Una breve (spero per voi) ma doverosa premessa a questo particolare THREEvial Pursuit. Come ben sapete ormai, a Pier Paolo Pasolini abbiamo dedicato un intero numero di StreetBook Magazine. Le motivazioni di quella scelta le abbiamo puntualmente spiegate nell’editoriale che quel numero apre e che – ma anche questo lo sapete – non solo fisicamente ma anche online, accedendo direttamente alla home page di questo sito. Non voglio quindi mettermi qui a ripetere quanto già impresso su carta, mi limiterò a sintetizzare quanto sottinteso in quell’editoriale e cioè che il nostro intento era quello di fornire un accesso a chi ci legge, che conducesse alla effettiva riscoperta di uno degli intellettuali fondamentali del nostro Novecento: ripeto, una riscoperta che fosse effettiva e non di pura facciata, per il solo gusto snob di dimostrare che il Pasolini lo si sa maneggiare.
Spesso, infatti, dietro all’invito a leggere Pasolini, a guardare i suoi film e a riflettere sui suoi scritti, non c’è altro che una spinta narcisistica: si scrive di Pasolini sui giornali o sui siti, si parla di Pasolini in tv o sui social, solo perché si vuole che gli altri ci leggano, ci ascoltino e ci dicano quanto siamo stati bravi ad analizzarlo, a capirlo, ad attualizzarlo; e quindi, in realtà, quello che molti fanno è un mero atto di masturbazione intellettuale. Per questo, ci siamo tenuti il più lontano possibile dall’atto di “parlare di Pasolini” oltre lo stesso necessario per il citato numero di StreetBook e ci siamo “limitati” semplicemente a reinterpretare artisticamente la sua opera (nel caso specifico, quella cinematografica). E laddove non era possibile per la natura stessa delle rubriche di StreetBook (si vedano l’Indubbiamente o l’intervista a Marco Boba), si è cercato non di parlare di Pasolini, ma del nostro tempo e quindi dell’attualità ma attraverso l’opera e la biografia di Pier Paolo, che è cosa ben diversa dall’attualizzare Pasolini stesso, poiché la sua attualizzazione rivela nella gran parte dei casi una forzatura ideologica di fondo che ne snatura i significati.
Quindi, anche in questo 2 novembre, a 47 anni esatti dalla sua morte, non vi proponiamo una nostra riflessione su di lui, ma la lettura di uno dei suoi articoli più celebri, uscito il 14 novembre 1974 sul Corriere della Sera e intitolato appunto “Che cos’è il golpe? Io so“, apparso poi nella raccolta Scritti corsari. Anche qui, la scelta non è casuale e risponde a una specifica esigenza, una battaglia se vogliamo necessaria in un Paese nel quale la memoria storica è funzionale solo se non è “divisiva”, un termine come un altro per definire le ferite “scomode” della nostra storia repubblicana. Del resto, lo stesso Pasolini viene tutt’oggi considerato “divisivo” e se in questo anno lo si celebra in nome della sua nascita, lo si fa solo perché non si può farne a meno: tutto sommato basta iconicizzarlo e istituzionalizzarlo, che sarebbe a dire “annacquarlo” per “conformarlo”, per renderlo il più inoffensivo possibile nell’attesa che questo maledetto centenario finisca e si possa tornare a dimenticarlo, tirandolo fuori per opportunità di citazionismo e qui si torna alla masturbazione intellettuale.
Atto di ben altra natura sarebbe rendere veramente Pasolini parte della nostra storia culturale, magari inserendolo nei programmi scolastici e facendolo scoprire almeno agli studenti delle superiori, ma figuriamoci… gli studenti “devono ignorarlo”, come devono ignorare quegli stessi spinosi argomenti che Pasolini affronta nell’articolo che leggerete – e che fanno parte anche della sua opera e della sua vicenda personale, motivo in più per affrontarlo nella maniera più superficiale e indolore possibile nelle aule. Non a caso, fatti ormai storici come le stragi, la strategia della tensione (e oltre) sono ancora ferite scomode, perché strettamente legate ai giorni nostri e quindi, nel dubbio, meglio relegarle nei libri di storia scolastici a una cinquantina di righe su un totale di 500 pagine (prendete un libro di storia delle superiori e verificate se dico il falso). Nell’ignoranza, si vota con il cuore più leggero e, dal momento che questo metodo didattico ha ben dato i suoi frutti in passato con le generazioni precedenti, perché cambiarlo. E infatti, non è cambiato.
Ma sarebbe un discorso troppo corposo da affrontare adesso e credo di essermi io stesso dilungato oltre il necessario. Anche per questo, verrà il suo momento. Se però, nell’attesa, vi interessa verificare ulteriormente la natura delle mie affermazioni, provate a chiedere a uno studente di quarta o quinta superiore se hanno sentito parlare di piazza Fontana e del 2 agosto 1980; chiedetegli anche se si ricordano o sanno chi sono gli autori e chi i mandanti veri o presunti di quelle stragi: rimarreste stupiti di quanto poco le nostre ragazze e i nostri ragazzi sappiano di quegli eventi. E di certo, la colpa non è loro.
Andrea Biagioni
Direttore di StreetBook Magazine
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”.
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo”, sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ’68 non è poi così difficile.
Tale verità – lo si sente con assoluta precisione – sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all’editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre 1974.
Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi – proprio per il modo in cui è fatto – dalla possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi. Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All’intellettuale – profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana – si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici. Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al “tradimento dei chierici” è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere. Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.
È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all’opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.
Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario – in un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti – e il resto dell’Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un “Paese separato”, un’isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel “compromesso”, realistico, che forse salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe però in realtà una “alleanza” tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell’altro.
Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.
La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l’altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività.
Inoltre, concepita così come io l’ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch’essi come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch’essi hanno deferito all’intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l’intellettuale viene meno a questo mandato – puramente morale e ideologico – ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno – come probabilmente hanno – prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono – a differenza di quanto farebbe un intellettuale – verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch’essi mettono al corrente di prove e indizi l’intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com’è del resto normale, data l’oggettiva situazione di fatto.
L’intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso – in questo particolare momento della storia italiana – di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l’intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che – quando può e come può – l’impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l’intera classe politica italiana. E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi “formali” della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico – non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento – deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi. Probabilmente – se il potere americano lo consentirà – magari decidendo “diplomaticamente” di concedere a un’altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon – questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.
14 novembre 1974