Luoghi, edifici, architetture
Il mondo attraverso gli scatti di Roberto Conte
di Giorgio Silvestrelli
Sin dalla notte dei tempi, appena uscito dalle caverne, il genere umano si è cimentato nel rendere il luogo in cui vive più sicuro, funzionale e, perché no, piacevole alla vista. L’architettura degli edifici ha segnato le epoche storiche ed è sempre protesa verso il futuro. Roberto Conte è un fotografo giramondo molto conosciuto nell’ambito della architecture photography. I suoi scatti ritraggono spesso palazzi, luoghi abbandonati o i suggestivi interni degli edifici. Attraverso l’obbiettivo della sua macchina fotografica, Conte è capace di raccontare una realtà concreta e materiale ma, allo stesso tempo, di regalare tante emozioni. Così, questo fotografo italiano ci prende per mano e ci fa fare un giro per il mondo accompagnandoci a visitare luoghi conosciuti, vitali o abbandonati e decadenti. Di ritorno da uno dei suoi tanti viaggi lo abbiamo intercettato e gli abbiamo proposto l’intervista che state per leggere. O meglio, un’istantanea sul lavoro di Roberto Conte.
Giorgio Silvestrelli: Ciao Roberto e grazie per avermi concesso un po’ del tuo tempo. Che ne dici di partire raccontandoci chi sei o cosa fai?
Roberto Conte: Ciao Giorgio, grazie a voi per l’interesse. Mi occupo di fotografia di architettura da una quindicina d’anni. Ho fotografato in Italia e all’estero centinaia di luoghi abbandonati e un numero ancora più grande di architetture in generale, dalle strutture razionaliste alle avanguardie, dal brutalismo al modernismo sovietico. Collaboro con studi di architettura e design, artisti e accademie. Insieme al mio collega Stefano Perego ho pubblicato nel 2019 il libro Soviet Asia, dedicato alle architetture moderniste sovietiche in Asia Centrale.
GS: Come e quando hai iniziato a fare foto?
RC: Ho iniziato esplorando luoghi abbandonati attorno al 2006, inizialmente nelle aree industriali dismesse attorno a Milano per poi ampliare progressivamente e in modo sempre maggiore l’ambito geografico e tipologico delle mie incursioni. In un certo senso sono cresciuto circondato da fabbriche in abbandono o in procinto di esserlo ed è stato quindi abbastanza naturale sentire la necessità di entrarci a un certo punto.
GS: Che rapporto hai con la macchina fotografica?
RC: Con il mezzo fisico ho un rapporto squisitamente strumentale, lo vedo davvero come un puro mezzo/strumento e mi interessano in genere molto di più le fotografie che le macchine fotografiche in generale, infatti trovo noiosissime le fiere di settore. Dato che tra macchina fotografica e attrezzatura il peso poi non è indifferente, sono tra coloro a cui ogni tanto piace staccare.
GS: Che tipo (o tipi) di macchina fotografica usi?
RC: Reflex digitale.
GS: Analogico vs. digitale. Tu cosa preferisci? Perché?
RC: Come fotografo “impegnato” sono nativo digitale e mi sono sempre trovato a mio agio con questo tipo di strumenti. Ho fotografato per un certo periodo a pellicola sviluppando i negativi, ma ero diventato fin troppo maniaco nello scattare solo in determinate condizioni e alla fine mi sono annoiato, posto che come “fruitore” di immagini naturalmente apprezzo molto anche quel tipo di estetica.
GS: Puoi raccontarci brevemente la tua giornata tipo?
RC: Fortunatamente non ho una giornata tipo, anche perché viaggio molto! Diciamo che faccio davvero di tutto per non averla affatto una giornata tipo.
GS: Partiamo dall’inizio del tuo percorso artistico. Cosa ti ha spinto ad andare alla ricerca e a fotografare luoghi abbandonati?
RC: Molto è dovuto sicuramente alla mia curiosità, a tratti furiosa, oltre al puro desiderio di provare le emozioni legate a questo tipo di esplorazione. All’inizio sono stato condizionato molto anche da un genere musicale, noto come dark ambient, che prediligeva immagini di luoghi abbandonati nell’artwork degli album e anche perché seguivo già alcuni fotografi (decisamente pochi all’epoca rispetto ad oggi) che creavano immagini di questo tipo. In particolare ascoltavo molto il progetto musicale svedese Raison d’être che ha poi utilizzato alcune delle mie immagini per copertine di alcuni suoi album (con mio grande piacere, naturalmente).
GS: Che sensazioni si provano ad entrare in un edificio rimasto chiuso per molto tempo?
RC: Penso che le sensazioni cambino molto in base alla persona che le vive e in base al posto stesso che stai visitando, ad esempio alcuni luoghi provocano una certa ansia (tipo gli ospedali psichiatrici). Nei casi in cui c’è la possibilità di essere scoperti dai servizi di sicurezza invece è l’adrenalina a essere al primo posto. In generale per quanto mi riguarda, direi che nei luoghi abbandonati l’emozione prevalente è la serenità anche se non è semplice in poche righe spiegare perché. In parte per il silenzio di questi luoghi, in parte per la bellezza che li contraddistingue, ma anche la consapevolezza che la natura e il tempo metabolizzano tutto.
GS: Ci sono differenze nel fotografare un luogo abbandonato e uno ancora utilizzato? E se sì, quali?
RC: Per alcuni aspetti senz’altro, per altri meno. Diciamo che nel primo caso c’è l’intervento del tempo sulle strutture, quindi a volte un punto di vista anche piuttosto banale diventa più interessante proprio in funzione del decadimento materiale (ad esempio un muro scrostato o un elemento naturale che emerge da un muro). Per altri versi invece la composizione, la gestione della luce, la necessità di dare un senso visivo in un formato bidimensionale a una struttura tridimensionale eccetera, restano i medesimi.
GS: La maggior parte della tua produzione artistica è incentrata sull’architettura. Cosa vuoi trasmettere attraverso i tuoi scatti?
RC: Riassumendo al massimo direi che mi fa piacere far conoscere l’esistenza determinati luoghi o strutture e proporre punti di vista magari nuovi di architetture già note. Non cerco cose belle o brutte, ma cose che in qualche modo considero interessanti e mi fa piacere scoprirle.
GS: Fare foto è il tuo lavoro. Trovi delle differenze nel fare scatti su commissione e quelli che invece fai per tuo piacere personale?
RG: Senz’altro. Nelle foto su commissione c’è naturalmente un confronto/dialogo con il committente rispetto al risultato finale, mentre nei miei percorsi di ricerca personale sono del tutto autonomo.
GS: Il tuo lavoro ti permette di viaggiare molto. C’è un luogo che non hai ancora visto e ti piacerebbe visitare?
RC: L’Iran, senza dubbio. Sto preparando un viaggio discretamente articolato da tempo, ma per un motivo o per l’altro lo rimando continuamente.
GS: Ti piacerebbe vivere all’estero? E se sì, dove?
RC: Tempo fa ho vissuto per due anni a Berlino ed è stata un’esperienza molto importante per me. Sto benissimo in Italia ora, ma se tornassi indietro nel tempo probabilmente vorrei provare a vivere anche a Mosca per un anno.
GS: Per te cos’è lo “scatto perfetto”?
RC: Per me è la fotografia in grado di mostrare un oggetto o un progetto in modo chiaro ma che allo stesso tempo riesce a provocare un certo tipo di emozione.
GS: C’è una foto nella storia della fotografia che avresti voluto scattare tu?
RC: Le foto scattate da Gabriele Basilico a Beirut nel 1991, ma non sono affatto Gabriele Basilico, quindi va bene così!
GS: Vorrei che mi dicessi se c’è un edificio che avresti voluto fotografare, ma che ora non esiste più.
RC: Ce ne sono molti, ma il primo che mi viene in mente è il Prentice Women Hospital di Bertrand Goldberg a Chicago, capolavoro barbaricamente demolito nel 2014.
GS: C’è uno scatto, tra quelli che i nostri lettori possono vedere in questa intervista, uno scatto che è legato a un momento particolare della tua vita e/o a un evento che resterà indissolubilmente nella tua memoria?
RC: Certo, la foto dello stabilimento SAVA di Porto Marghera, vicino a Venezia. Fu costruita nel 1964 ed era uno dei centri di produzione di alluminio più importanti in Italia, prima di essere abbandonata nel 1993. Io l’ho esplorata in una giornata piovosissima del 2010, tre anni prima che fosse completamente demolita. Si tratta di un buon esempio di esplorazione di cui ho un ricordo personale molto bello di un luogo che di fatto non esiste più, cosa che conferisce alle foto un valore diverso.
GS: Cosa puoi suggerire a chi vuole intraprendere la carriera di fotografo professionista?
RC: Non ho ricette particolari, credo – magari in modo un po‘ banale ma sincero – che sia necessaria molta passione, molta pratica e parecchio ragionamento rispetto a quello che si vuole raccontare, come farlo e al modo di comunicare il proprio lavoro. L’improvvisazione e la mancanza di dedizione non pagano, secondo me.
GS: Grazie alla tecnologia, oggi tutti possono scattare foto in qualsiasi momento. E naturalmente condividerle. Che valore ha oggi la figura del fotografo rispetto al passato?
RC: Tutti possono scattare foto in qualsiasi momento, vero, ma non tutti possono fare foto curate e ragionate in qualsiasi momento. Questa cosa vale tuttora, anzi forse in questo periodo a maggior ragione.
Sito: http://www.robertoconte.net
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