Three Faces

La terza faccia della medaglia

#INSORGIAMO || Intervista al Collettivo di Fabbrica – Lavoratori (Ex) Gkn Firenze (Part 2) || THREEvial Pursuit


#INSORGIAMO

Intervista al Collettivo di Fabbrica – Lavoratori (Ex) Gkn Firenze

Parte 2

di Andrea Biagioni e Andrea Polverosi

insorgiamo
#INSORGIAMO – Foto di Andrea Biagioni

(Prima Parte)

AP: Mi aggancio a una frase che hai detto – e in un certo senso, alle altre domande che ti avevo fatto – ovvero: “Questi posti di lavoro devono essere del territorio”. Personalmente, anche rispetto alla manifestazione del 26 marzo, credo ci sia solo da ringraziarvi ancora una volta, perché l’idea di continuare a portare avanti una lotta che non sia solo strettamente legata alla vostra azienda, ma anche in una chiave sociale e territoriale è fondamentale, oggi come oggi. E questo mi sembra sia stato recepito, perché in tanti hanno risposto al vostro appello per una sorta di esigenza, diciamo pure per un sentimento di mancanza rispetto a questi argomenti; nel senso che quando siete “arrivati” voi, le persone hanno riconosciuto che qualcuno quei temi li voleva affrontare davvero. Credo sia questo il motivo di una risposta e una partecipazione così sentite. Infatti, la mia domanda riguarda proprio il contesto sociale e territoriale. Tutta la vostra vertenza nasce dal processo di delocalizzazione che è tipico della globalizzazione e quindi tipico dei nostri anni, nello specifico degli ultimi trent’anni più o meno. Quello che avete proposto, a livello nazionale, era una riforma. Non voglio entrare io nei dettagli, lascio che sia tu magari a farlo, però sostanzialmente si può dire che l’idea alla base della proposta era di ostacolare questo fenomeno e andare a ostacolare un processo come quello della delocalizzazione, socialmente parlando, è veramente una roba grossa: che la si voglia chiamare riforma o rivoluzione, si parla di un cambiamento enorme per questa società. Nell’orizzonte quindi di una possibile riforma1, qual è nel dettaglio la visione del Collettivo, a livello appunto sociale e territoriale? Si parte dall’ostacolare la delocalizzazione per arrivare dove?

CdF: Domandona. Allora, innanzitutto, mi sembra giusto precisare che noi usiamo con tranquillità nel gergo comune la parola delocalizzazione, ma è un termine che non ha nessuna definizione precisa, né nella terminologia aziendale, né in quella economica e nemmeno in quella legislativa; e questo ti spiega già tutto. Voglio dire che mentre c’è un Paese che sa cosa sono le delocalizzazioni, che le ha vissute e può discutere se fermarle o non fermarle e come fermarle, addirittura nel mondo “ufficiale” non è nemmeno riconosciuto il termine delocalizzazione. Per esempio, Gkn/Melrose afferma di non aver fatto una delocalizzazione: cioè a un certo punto, puff , un’azienda sparisce e secondo loro non è neppure delocalizzata. Quindi, dal momento che neanche nelle diciture di legge esiste questo termine, noi abbiamo dovuto ribaltare il discorso e dire: “Ok, il tema non è se un’azienda decide di scappare, il tema è quali sono gli strumenti che tu hai per salvaguardare ciò che è la materialità di quello che stai facendo sul tuo territorio”. Ciò significa che, per noi, l’azienda – intesa come proprietà, intesa come azioni, intesa anche come “click di mouse” che oggi le consente di muoversi rapidamente ovunque – si può pure spostare, nel senso che noi non contestiamo più nemmeno quel livello di astrazione totale che è diventata l’economia. Il punto è: di fronte a uno stabilimento che rappresenta circa 80 anni di storia industriale come il nostro2, che è un’eccellenza, dove ci sono delle persone che lavorano e dove non c’è nessun ostacolo alla continuazione materiale della produzione, può lo Stato intervenire e, anche se l’azienda scappa, decidere di mantenere e dare continuità produttiva, aziendale e progettuale a quello stabilimento? Secondo noi sì, per mille ragioni. Il problema però è che anche laddove questo Stato avesse mai la volontà politica di dire, “ok, va via un’azienda, ma io garantisco la continuità produttiva”, questo stesso Stato non solo non ha la volontà, ma non è neppure strutturato, non ha le capacità, non ha le competenze, non si è proprio formato nel personale burocratico-politico per fare questa cosa, perché è uno Stato, è un apparato decisionale che è formato quasi esclusivamente nella riscossione delle tasse, nelle multe, nell’approccio burocratico alla società.

Per arrivare alla tua domanda, noi ci immaginiamo che un’azienda come la nostra la potevi, e forse la puoi ancora salvare, solo se si creano reti territoriali di competenze e intelligenze collettive. E questo, per esempio, rimette in discussione anche che cos’è il mondo dello studio e il mondo accademico, quindi il suo mettersi a disposizione in maniera pubblica nell’ambito della brevettazione e dello sviluppo, per uno sviluppo diciamo così a ‘Km 0’, dove effettivamente una fabbrica diventa un punto considerato socialmente rilevante e socialmente integrato, sia nella progettazione sia nella produzione, sia nei diritti e, perché no, un domani anche nella struttura. Noi qua abbiamo una valanga di spazi che potrebbero essere usati per creare degli sportelli; su ci sono interi uffici che noi abbiamo suggerito potessero diventare competence center per le startup. Noi qua avremmo potuto aprire uno sportello di psicologia del lavoro. Noi qua, in questi sei mesi, abbiamo aperto al territorio, facendogli conoscere che cos’è la fabbrica, cosa rappresenta. Abbiamo accolto l’Anpi, l’Arci e altre realtà simili. Voglio dire che non c’è nessuna ragione per cui la fabbrica debba avere un confine rispetto alla e alle realtà territoriali. Ho detto la fabbrica ma, allargando il dicosrso avrei potuto dire, che so, gli uffici, i grossi centri amministrativi e così via, insomma.

#INSORGIAMO – Manifestazione 18 settembre 2021Foto di Rosanna De Benedictis

AP: Solitamente, quando si parla di tessuto sociale e della sua disgregazione si fa più che altro riferimento a valorizzare e salvare il piccolo negozio, la libreria di quartiere, il cinema locale. Invece qui, la stessa idea viene applicata proprio alla fabbrica come stabilimento che non è solo lavoro e produzione, ma è proprio tessuto sociale appunto. 

CdF: Sì, perché poi è quello che siamo, quello che siamo stati. Noi comunque lo sapevamo già prima, ma dal 9 luglio questo aspetto qui è proprio esploso. Chiaramente quando poi il territorio si mobilita con te, riscopri un po’ tutti i legami che avevi, che ti sembravano invisibili e che sono legami di natura politica, sociale, sindacale ma banalmente anche comunitaria. Io mi son ritrovato qui la Misericordia, la parrocchia, una squadra di calcio. E me li trovavo qui perché i lavoratori GKN erano attivi sul territorio in tutti gli ambiti. Tra l’altro, erano attivi in questi contesti anche perché quando una fabbrica è provvista di diritti, di contratti a tempo indeterminato, di limiti allo straordinario, di limiti alla precarietà, ti permette di organizzarti la vita, e organizzarti la vita vuol dire avere il tempo poi di fare altro, di non essere soltanto quelle otto ore di salariato, perché uscito da quello puoi occuparti di quello che vuoi. C’è chi ha deciso di fare militanza, c’è chi ha fatto arte, c’è chi invece banalmente ha portato le pizze come volontario all’Arci, c’è chi fa i turni alla Misericordia, c’è chi allena la squadra di calcio appunto. Questa è “la fabbrica” che noi siamo stati e credo sia venuto fuori in questa lotta, insomma. È stata un po’ anche una chiave per difenderci, alla fine.

Per chiudere però, sulla delocalizzazione volevo dire un’altra cosa. Uno degli argomenti che loro tirano fuori sempre – e questo mi manda veramente fuori di testa – sul perché non si possono fermare le delocalizzazioni, è che noi porremmo troppi vincoli alle aziende. C’è questo concetto del vincolo che è davvero fastidioso, perché in realtà sì, tutti noi siamo vincolati: tipo siamo vincolati a portare la mascherina, siamo vincolati a delle leggi, a delle norme e la società può discutere se e come quel vincolo può essere imposto. E anche le aziende hanno dei vincoli, perché le aziende sono vincolate da un Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, da un Testo unico salute e sicurezza e così via. Guarda un po’ però, e non a caso, quando dicono che non vogliono essere vincolate, poi non è che vanno a rimettere solo in discussione il concetto di delocalizzazione, pian piano vanno a mettere in discussione tutto, perché le aziende che investono su questi territori, soprattutto nel pratese, per investire pretendono di togliere quello come altri vincoli. E così accade che qua, magari, c’è la lotta contro la delocalizzazione; qualche chilometro più in là, ci sono lotte banalmente per chiedere il rispetto del Contratto Nazionale, che impedisca a operai e operaie di lavorare 12 ore al giorno per 7 giorni alla settimana3. Nel senso che, quando tu mi inizi a dire che non vuoi vincoli, parti dall’idea che limitare la delocalizzazione è un vincolo e arrivi a considerare vincolo il Contratto Nazionale. Cioè, a quel punto tutto è vincolo…

AB: Si percepisce da questo tuo ragionamento come si sia ancora fermi a un rapporto gerarchico padrone-dipendente, che oggi dovrebbe essere piuttosto obsoleto, dove il secondo non ha diritto di parola e dove la richiesta di certi diritti e certe garanzie viene percepita come una volontà di limitare la crescita dell’azienda. Eppure, è lo stesso operaio a sapere che meglio l’azienda funziona, più garanzie ci sono di un lavoro assicurato. Nel senso, non è che io, operaio, voglio mettere dei vincoli alla proprietà, voglio solo un confronto su questioni importanti che mi riguardano, che mi coinvolgono. E proprio perché so che una fabbrica funziona meglio se si rispettano certe norme, quindi se si rispettano i dipendenti, in realtà io sto partecipando in un certo modo al futuro dell’azienda. Invece, questo coinvolgimento spesso manca, anche quando di fronte trovi qualcuno che ribalta un certo tipo di narrazione sulla classe operaia, dimostrando che chi la compone sa anche pensare, sa anche parlare e conosce molto bene le dinamiche del proprio settore aziendale. Solo che le proprietà non percepiscono questo aspetto come un valore aggiunto, ma come un pericolo…

CdF: Sì, in un certo senso è così.

#INSORGIAMO – (Ex) Stabilimento GKN Driveline Firenze a Campi Bisenzio Foto di Andrea Biagioni

AB: Ecco, rispetto a quanto hai detto fin qui, parlando di delocalizzazioni, hai sfiorato due questioni che sono centrali quando si parla di lavoro, ovvero contrasto allo sfruttamento e sicurezza. Ho due domande che mi frullano in testa su questi argomenti. La prima in realtà è legata anche alla scuola, perché un altro tema molto caldo in questo momento, soprattutto per i giovani, è quello riguardante la cosiddetta ‘Alternanza Scuola-Lavoro’, la quale a sua volta ha molto a che fare con la “formazione sul lavoro”, coinvolgendo quindi tutti i lavoratori e le lavoratrici. Recentemente c’è stato il caso di Lorenzo Parellistudente morto a 18 anni a causa di un incidente avvenuto all’ultimo giorno di stage per l’alternanza scuola-lavoro appunto – che ha portato molti a protestare, in particolare gli studenti, su questa forma di “inserimento professionale”, diciamo. Se ne sentono tante di voci, da chi chiede di abolirla a chi invece è ancora convinto sia giusto mantenerla così e che quella di Lorenzo sia stata semplicemente fatalità, passando per chi chiede di ribaltarla completamente. Noi abbiamo molti giovani tra coloro che ci leggono, ragazzi che vanno alle superiori e che stanno affrontando proprio l’alternanza scuola-lavoro. Quindi ci interessa molto sapere su questo il vostro punto di vista. C’è da cambiare qualcosa, cosa c’è da cambiare, come si può evitare quello che è successo in quella situazione? Perché quello è il fatto “eclatante” – passami il termine – a livello mediatico, ma poi c’è anche tutto un sottobosco dove i ragazzi non muoiono per fortuna, però vengono praticamente sfruttati per mesi senza che gli sia rimasto niente di quello che gli dovrebbe servire per il futuro. Cosa avete carpito voi sull’argomento?

CdF: Ovviamente io, in quanto operaio e padre, però padre di una bambina di 9 anni, non sono per forza il più titolato a rispondere a questa domanda. Penso che chi si trova in questo momento negli studi, sappia molto meglio di me quali sono i suoi interessi, quindi la mia opinione va presa con le pinze. Non pretendo di dire nessuna verità. L’alternanza scuola-lavoro si basa su un’idea che apparentemente è forte, cioè quella che fondamentalmente, vista la scarsa qualità della scuola, invece di stare nel parcheggio-scuola, tanto vale provare ad andare un po’ a farsi formare in azienda, almeno apprendi cose concrete. Questa è un’idea che può avere un appeal, soprattutto quando viene agitata di fronte a ragazzi che magari in questo momento stanno vivendo la scuola veramente come un parcheggio per lo stato scadente in cui versano tante strutture scolastiche. Ma purtroppo è una falsa illusione, una falsa seduzione. Punto primo perché noi, quello sì, lo sappiamo bene che cos’è la formazione nelle aziende. Nelle aziende non si fa formazione. Almeno non in tutte. Ovviamente non posso generalizzare, ma posso fare questo esempio: il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro dei metalmeccanici, nel 2016, impose alle aziende di fare almeno otto ore all’anno di formazione a tutti i lavoratori; quasi mai sono state fatte, nonostante ci sia un dovere contrattuale. Quindi l’idea che la scuola perda la propria funzione educativa e che l’azienda invece sia lì pronta a darla e ad accogliere spazi per formare, è profondamente sbagliata. Non posso dire con certezza che non ci siano aziende virtuose su questo, ma fondamentalmente chiunque abbia lavorato un po’ in qualsiasi azienda del Paese, sa che avere momenti di formazione significa essere quasi sempre “buttato” nella tua funzione, bere o annegare, devi imparare sul campo. Quindi ripeto, l’idea che a un certo punto queste aziende si fermino e ritaglino spazi e tempi per insegnare a chi fa l’alternanza, a noi fa abbastanza rabbrividire. Poi posso dire che nel mio modello ideale, in azienda esiste solo un tipo di formazione: retribuita. Perché comunque, quando sei dentro un’azienda, l’azienda deve fare formazione, ma quella formazione è finalizzata a ricavare un profitto dal tuo futuro lavoro. Se quindi l’azienda vuole cavare un profitto dal tuo futuro lavoro, la formazione è un investimento e come tutti gli investimenti lo paghi. Altrimenti è troppo facile perché, in realtà, tu stai usando la mia formazione per altro. Tra l’altro le aziende non lo dicono, ma hanno una valanga di fondi pubblici che gli permettono di fare ogni tipo di corso di formazione; è che non li usano nemmeno tante volte, perché non hanno interessi, li lasciano lì. Poi posso anche dire che nel mio modello ideale, io ho sempre pensato che nella vita ci sia tanto tempo per andare a lavorare, per pagare, per morire e che gli studi devono essere uno dei momenti più belli nella vita di una persona. Quando uno studia non se ne rende conto, poi lo capisce negli anni, e quindi io non vedrei niente di male ad avere un modello di obbligo scolastico a 18 anni, dove integralmente tutto quello che fai, lo fai a scuola, perché poi c’è tutto il tempo per fare percorsi professionalizzanti. Oltretutto, in un mondo dove la disoccupazione giovanile è alle stelle e quindi non c’è nessuna fretta di immettere nel mondo del lavoro persone che vadano a ingrossare la disoccupazione giovanile. Se noi potessimo scegliere, saremmo per percorsi più universali, più generalizzanti possibile, almeno fino a 18 anni, e dopo c’è tutto il tempo di specializzarsi e formarsi, chi in percorsi interni al mondo del lavoro, chi esterni, eccetera eccetera. Mi rendo conto che questa, con la scuola ridotta com’è, possa sembrare un’utopia, perché le scuole non hanno spesso laboratori, hanno classi pollaio e così via, però non è con l’alternanza scuola-lavoro che si risolve il problema insomma.

#INSORGIAMO – Manifestazione 18 settembre 2021Foto di Rosanna De Benedictis

AB: L’altra domanda invece, che è anche l’ultima, è un po’ più personale, diciamo, nel senso che riguarda qualcosa su cui ancora oggi non riesco a darmi una spiegazione precisa, definitiva. Mi spiego, io vengo da una famiglia che non ha mai svolto lavori intellettuali, ma sempre lavori manuali, quindi contadini, artigiani, operai e così via. Come diceva Guccini, “son della razza mia, per quanto grande sia oh, il primo che ha studiato“, però mentre facevo l’università e anche dopo, inframezzando quella di giornalista, ho svolto altre professioni. Ho lavorato in magazzino per una multinazionale, ho lavorato in bar, ristoranti e pub o in aeroporto sempre per una multinazionale. Questo per dire che ne ho viste di tutti tipi in ambienti anche diversificati tra loro. E quello che ho sempre notato è appunto una scarsa attenzione sulla sicurezza, non solo da parte dell’azienda stessa e di chi dovrebbe supervisionare per suo conto, ma a volte anche da parte di alcuni di noi, ovvero dipendenti – mi si perdoni lo scevro termine. Faccio un esempio: mi è capitato di assistere a una discussione tra operai che lavoravano insieme a me su chi aveva fatto più turni di fila senza mai staccare. Roba che aggirava intorno alle quaranta ore quasi ininterrotte. Facevano a gara e sembrava loro normale. Questa per dirne una, ma ce ne sarebbero decine da raccontare. C’è anche da sottolineare che spesso erano lavoratori provenienti da paesi dove le condizioni di lavoro erano pessime, i diritti quasi nulli e lo sfruttamento galoppante ma scarsamente percepito dal lavoratore stesso, che infatti vedeva normale lavorare per quaranta ore filate. Ora, c’è oggettivamente una responsabilità enorme da parte delle aziende e questo è evidente. Però, mi viene anche da pensare che in alcuni ambienti, non in tutti certo, ma in molti ci sia anche un problema proprio di cultura rispetto alla sicurezza sul lavoro, forse a causa proprio di una scarsa formazione. Nel mio caso è chiaro che, avendo fatto tanti lavori, ho fatto anche corsi sulla sicurezza molto diversificati tra loro, veramente di ogni tipo, compresi quelli per professioni da ufficio. Ecco, se ci ripenso, nessuno di questi mi è sembrato servisse a un cazzo fondamentalmente, nel senso che in generale potevano pure avere un significato, ma molto spesso non tenevano in considerazione tanti aspetti specifici di quella determinata azienda, o semplicemente erano proprio vecchi, sorpassati. Quindi, come detto, da un lato c’è una responsabilità anche da parte di chi deve fare e sorvegliare certe norme di sicurezza; allo stesso tempo, però, c’è proprio una mancanza di cultura da parte di molti lavoratori riguardo la sicurezza sul lavoro, e spesso è come se percepissi una specie di rassegnazione, come a dire: “Tanto è così, è sempre stato così e sempre sarà così, pazienza”. Ed è quello che mi preoccupa.

CdF: Allora non è una domanda facile, o meglio, io in realtà potrei entrare nei dettagli di tutta una serie di mancanze del Testo unico salute e sicurezza, che comunque permetterebbero di migliorare la sicurezza sul lavoro, soprattutto laddove c’è chi vuole davvero farla, perché per esempio noi abbiamo sempre avuto qua una grossa attenzione per la sicurezza, ma ci scontravamo contro alcuni limiti. Però, come dire, per vari motivi rimandiamola a future discussioni questa qui, perché sarebbe davvero lunga e complessa affrontarla adesso. Mi limito a dire che anche la legislazione ha dei punti da migliorare e allo stesso tempo è vero quello che dici tu. Purtroppo, attualmente per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro, ci sono tre grossi freni. Uno, il più banale: le aziende – e quello succede da sempre – possono dire quello che vogliono ma alla fine spingono sui ritmi, spingono sui ritmi, spingono sui ritmi; e quindi puoi fare tutti i corsi sulla sicurezza che vuoi, ma alla fine diventano un specie di messaggio prettamente formale rispetto al vero messaggio sostanziale, ovvero c’è un sottotesto che ti dice “tu i pezzi li devi fare e devi correre”. Basterebbe considerare una cosa. Io non so in quanti luoghi di lavoro ormai essere sotto personale è normale. Tu trovami un posto di lavoro dove, chi ci lavora, non si ritenga sotto personale. Probabilmente è così ovunque; non c’è un posto di lavoro dove non sei sotto personale ed esser sotto personale già ti mette a rischio di sicurezza, banalmente perché non puoi pensare a quello che stai facendo. Tra l’altro, è stata introiettata l’idea che se tu sei, che ne so, in quattro in ufficio e capita il giorno in cui hai un po’ meno da fare, ti devi sentire in colpa. Invece il lavoro è fatto anche di momenti in cui, come dire, hai dei vuoti, perché poi ci sono i picchi e quindi tu devi strutturare il lavoro sui picchi, che chiaramente non è un giorno all’anno, ma sicuramente non puoi essere sempre in picco. Se poi prendiamo i lavori più impiegatizi o intellettuali, si esprime un problema d’iperconnettività, che secondo me è una cosa devastante. Le persone ormai danno per scontato rispondere al telefono a tutte le ore, tutte le sere. Questo vuol dire che sviluppano malattie professionali ormai molto più difficili da riconoscere. Per esempio, la grande stagione delle lotte operaie ha portato alla luce cose tremende, come l’amianto; oggi, per fortuna, questo tipo di cose sono molto più ridotte, però allo stesso tempo c’è un’epidemia di malattie depressive, di patologie legate al lavoro di usura e non riconosciute, che possono andare semplicemente dai problemi legati alle posture a malattie psicologiche; e mancando allora una lotta strutturata dentro queste nuove/vecchie identità di lavoro, la situazione può diventare devastante, perché tu magari non tornerai a casa col braccio staccato, come uno che lavora in acciaieria, o non cadrai da un ponteggio…

#INSORGIAMO – (Ex) Stabilimento GKN Driveline Firenze a Campi Bisenzio Foto di Andrea Biagioni

AB: Ma passare dodici ore filate, o anche più, su una poltroncina con un computer o uno schermo davanti, chiuso in una stanza, non è di certo una bellezza.

CdF: Esatto. E tra l’altro non riuscirai nemmeno a fartela riconoscere come malattia professionale. Il secondo tema invece è la transitorietà del lavoro, perché non c’è niente da fare: ci sono 3 milioni di lavoratori precari, 500 mila occupati nella gig economy, 2 milioni che lavorano in nero; insomma hai già milioni di persone che non si pongono nemmeno il problema della sicurezza, non ci si mettono nemmeno, perché tanto sanno che lì staranno un mese, due mesi, un anno al massimo, poi boh si vedrà. Quindi, tutte quelle cose che non ti tornano sulla sicurezza le rimandi al futuro. Infine – e forse questa è la cosa ancora più profonda e triste – il mondo del lavoro è contaminato da un’idea ormai individualista e cinica che attraversa tutti gli aspetti della vita. Io ricordo che in un’azienda dove lavoravo, c’erano le trance che servivano a tranciare delle minuterie metalliche per l’alta moda. Lì il padrone veniva chiamato per nome e la cosa a me non tornava, perché ero arrivato da poco ed ero abituato a chiamarlo per cognome. Questa lavoratrice che lavorava con me, di fronte a certe critiche che si muovevano all’azienda e che non sto ora a elencare, una volta mi disse: “A me”, uso un nome di fantasia, “Fulvio, non mi ha mai fatto nulla”. Mentre lo diceva, ho notato che le mancavano le dita della mano, perché anni prima per metterci meno a tranciare, invece che schiacciare i due pulsanti con le due mani, siccome i pulsanti erano laterali – infatti poi son stati cambiati – li schiacciava con le ginocchia e intanto, col pezzo, passavano anche le mani. Puoi immaginare come è andata la cosa. Io allora mi son chiesto: “Cioè non hai più le dita e a te, Fulvio, non ti ha mai fatto del male”. Poi ho pensato: “Ma a che cosa le serviranno quelle dita?”

Perché io, per esempio, mi diletto un pochino a suonare ogni tanto il pianoforte, ogni tanto la chitarra, ma se alla fine tu la tua vita la vedi a quella trancia e per lavorare ti bastano i palmi delle mani, vuol dire che sei introiettato in un sistema, in cui il tuo essere è limitato all’essere presente esclusivamente lì, in quel momento e in quel contesto. Quindi, non ti concepisci più come un essere storico che avrà un futuro e non pensi più alla tua sicurezza. Tutti noi oggi viviamo nell’incapacità di proiettarci nel futuro, perché ad esempio non avremo una pensione ma il problema non ce lo poniamo, eppure un giorno faremo fatica a lavorare, perché l’età avanza. Facciamo lavori ripetitivi che ci stanno usurando, però magari in quel momento non ci pensiamo per i motivi che ho detto prima, tanto poi si ragionerà. Non abbiamo una prospettiva. Insomma, non ragionare in termini storici, non dire “cazzo, ma ti rendi conto che io per fare quella manovra stupida al lavoro, magari non vedrò più mio figlio, mia figlia”, è estremamente pericoloso. Si ragiona solo nel presente, in quella giornata, in quel momento: “Io devo chiudere il lotto, devo finire i pezzi”. Così, non ti rendi conto di che cosa stai rischiando, ovvero la vita, il tuo tempo futuro e non ne avrai un altro. Tutto per salire su una scala di corsa o compiere azioni di questo tipo. Ecco, temo che purtroppo, alla fine, nella mancanza di sicurezza, fondamentalmente c’è la mancanza di amore per sé stessi che deriva dal non vedersi come una persona a tutto tondo, che ha un presente, un futuro, un ruolo da giocare nella società.

#INSORGIAMO – Manifestazione 18 settembre 2021Foto di Rosanna De Benedictis

1 Al momento il Governo, nella seduta del 18 dicembre 2021 della Commissione Bilancio al Senato, ha insserito un’emendamento al disegno di legge di Bilancio 2022 contro le delocalizzazioni. Più precisamente, l’emendamento (il 77.0.2000), che inserisce l’art. 77-bis, detta disposizioni in materia di cessazione dell’attività produttiva.

2 L’ormai ex stabilimento GKN Driveline Firenze, nel distretto industriale di Capalle a Campi Bisenzio, è infatti l’erede dell’ex stabilimento Fiat di Novoli, realizzato tra il 1938 e il 1939 nell’area compresa tra viale della Toscana, via di Novoli, via Forlanini e viale Guidoni. Negli anni ’80, iniziò da parte di Fiat una progressiva dismissione dei propri immobili, che condurranno all’attuale conformazione dell’area con la realizzazione della sede della Regione Toscana, del Palazzo di Giustizia, del Polo di Scienze Sociali dell’Università di Firenze, del parco e del complesso residenziale-commerciale di San Donato. Contestualmente, parte il progetto di trasferimento della produzione nel distretto industriale di Campi Bisenzio. Lo stabilimento in costruzione venne acquisito nel 1994 da GKN, insieme alla produzione stessa di semiassi e giunti omocinetici che si spostò definitivamente a Capalle nel 1996.

3 Il riferimento è alla protesta dei lavoratori dell’azienda Texprint srl di Prato, appoggiata da Sì Cobas, che da più di un anno stanno portando avanti uno sciopero a oltranza contro la proprietà per rivendicare salari, trattamenti, orari di lavoro adeguati e, in seguito al licenziamento di alcuni di loro, anche il reintegro dei lavoratori. Nel corso di questi mesi e di alcune manifestazioni di protesta davanti alla fabbrica, si sono verificate inoltre numerose e gravi aggressioni fisiche nei confronti di questi lavoratori da parte dei proprietari. Solo lo scorso 17 marzo, la Texprint è stata ufficialmente indagata per sfruttamento di manodopera e dopo che nel marzo 2021 era stata colpita da un’interdittiva antimafia emessa dalla Prefettura di Prato, poi ritirata nella stessa estate, senza che per questo venissero fugati i dubbi sul ruolo di un “dipendente” dell’azienda, più volte indagato per concorso in associazione mafiosa e sempre assolto.

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