#INSORGIAMO
Intervista al Collettivo di Fabbrica – Lavoratori (Ex) Gkn Firenze
Parte 1
di Andrea Biagioni e Andrea Polverosi
Sopra le nostre teste, in un soleggiato pomeriggio di febbraio, si staglia uno striscione con un invito molto chiaro: #INSORGIAMO. Quello striscione si trova in alto, all’ingresso dell’ormai ex stabilimento GKN Driveline Firenze (a sua volta ex stabilimento Fiat) di Campi Bisenzio, lo stesso che lo scorso luglio è stato chiuso da un giorno all’altro per una mera questione di speculazione finanziaria1, lasciando letteralmente per strada 422 tra lavoratori e lavoratrici, che però della strada hanno fatto buon uso. Da lì infatti, in quel momento, è iniziata la loro lotta, quella del Collettivo di Fabbrica – Lavoratori Gkn Firenze, che nel corso dei mesi però si è allargata a dismisura su più settori, diventando la lotta di tutti coloro che ogni giorno vedono prevaricato il proprio diritto a condizioni di lavoro dignitose in un mercato senza scrupoli e finalizzato al solo profitto. Le loro vicende le avrete certamente seguite in tv e sulle varie testate giornalistiche (finché han fatto notizia), ma soprattutto grazie al grande lavoro di comunicazione che il Collettivo porta avanti quotidianamente sui social. Ora leggerete alcune loro riflessioni su queste pagine grazie al tempo che Dario Salvetti, portavoce del Collettivo di Fabbrica, ci ha dedicato nonostante i molti impegni e le molte iniziative che stanno organizzando. E di questo, ma non solo di questo, li ringraziamo di cuore.
P.S. Questa intervista è stata realizzata lo scorso 1° febbraio, quando molti importanti aggiornamenti non erano ancora emersi sia sull’#Insorgiamo tour, sia sulla manifestazione generale del 26 marzo, sia sulla situazione che i lavoratori e le lavoratrici del Collettivo di Fabbrica stanno continuando a vivere. Per questo, una versione “allargata” dell’intervista verrà pubblicata nei prossimi mesi come secondo volume della nostra nuova collana KÁTHARSI.
Andrea Biagioni: Innanzitutto, ci teniamo a sottolineare quanto vi siamo grati per averci concesso un po’ del vostro tempo, nonostante il periodo caldissimo che state vivendo, sia per le questioni note sia per le tante iniziative che state portando avanti. Lascerei però la parola al mio collega, perché credo abbia “in canna” un paio di domande su dei temi che ritengo siano l’ideale per rompere il ghiaccio di questa intervista.
Andrea Polverosi: Sì, io volevo partire da una considerazione riguardante una delle prime cose che mi ha colpito e stupito di voi, ovvero la vostra capacità di comunicare, di parlare. Comunicate e parlate molto bene, nel senso che è raro, nelle interviste in TV per esempio, vedere un lavoratore, un operaio che si esprime nel modo in cui vi esprimete voi. E ciò che mi ha stupito in particolare, oltre allo spirito che alimenta il Collettivo, è questa conoscenza molto approfondita a livello legale, ma anche a livello economico-finanziario del vostro settore e in generale del mercato sia italiano che internazionale. Quindi, la mia domanda era proprio legata a questo: vorrei capire il percorso che porta voi lavoratori (ex) GKN ad avere questa preparazione, questa capacità comunicativa – che è anche la scusa per fare un po’ di storia vostra, insomma.
Collettivo di Fabbrica: Che parliamo bene, che comunichiamo bene ne prendo atto, nel senso che lo dici tu e quindi non possiamo fare altro che prenderne atto, appunto. Mi spiego meglio. Noi chiaramente parliamo sempre allo stesso modo, quindi dall’interno non siamo in grado di valutare se bene o male. Diciamo però che la tua domanda può essere divisa in una risposta che ha tre piani. Da un lato, io credo che chi pensa bene, lotta bene, quindi parla bene, perché ha la chiarezza di quello che vuole e quando la lotta nasce effettivamente da esigenze immediate, dirette, chiare che si basano sulla concretezza di una vertenza, di una lotta, è evidente che poi trovi anche il modo di pensare bene e parlare bene. Noi, in generale, abbiamo condotto questa lotta – e tutte le lotte che abbiamo fatto – banalmente per la volontà di vivere in maniera dignitosa, con diritti e con un salario decente in un luogo di lavoro che vogliamo sia altrettanto decente; non abbiamo mai avuto altri fini e questo ha sempre fatto sì che qualsiasi gesto facessimo, qualsiasi mobilitazione intraprendessimo, non avesse nient’altro che la sporcasse. Quindi, già questo secondo me emerge. Gli altri due aspetti che mi sento di sottolineare sono i seguenti: qua è sopravvissuto e poi è stato rivitalizzato – perché è stato anche rivitalizzato – un modello sindacale che viene dagli anni ’70 e che è un modello fondamentalmente basato sulla democrazia assembleare a tutti i livelli. Noi siamo un’azienda che, come tutte le aziende, ha un monte ore sindacale di 10 ore di assemblea all’anno. Per accordo, lo avevamo esteso a 13 ore e quasi sempre arrivavamo a settembre che l’avevamo già terminato. Oltre alle assemblee generali, c’erano la riunione dei delegati di raccordo, dei collettivi di fabbrica; difficilmente passava una settimana senza che ci riunissimo tra di noi, come consiglio di fabbrica, o con qualche lavoratore o con qualche reparto o con qualche delegato. Quindi, tutto quello che noi facciamo passa da una palestra democratica dove uno impara ad argomentare, impara a pensare, impara a valutare, impara a ragionare.
L’altro aspetto che invece tu poni – e che è più relativo alla conoscenza proprio del mercato della nostra azienda – anche questo deriva fondamentalmente dalla lotta, nel senso che noi abbiamo spinto molto avanti la lotta per i nostri diritti, cercando di resistere un po’ allo spirito della conservazione e del tempo, quindi alle nuove idee che avanzano e che in realtà son vecchie idee, soprattutto quella di attaccare i diritti dei lavoratori. Per resistere a questo, abbiamo innanzitutto rilevato che la controparte usa ogni tipo di tecnica, compresa quella di disorganizzare il lavoro o di ‘non organizzarlo’. Questo significa che noi non siamo mai stati in un momento in cui potevamo semplicemente dire: “Ok, io chiedo salario, chiedo assunzioni e chiedo diritti. Punto. Perché questa è la mia funzione sindacale”. Dunque, per sostenere queste lotte, noi ogni volta dovevamo rispondere – mandando così nel caos l’azienda – contestando come funzionava l’organizzazione del lavoro, perché non facevano manutenzione, perché non avevano un piano manutenzione, perché perdevano ore… Su questo faccio un esempio; se tu facevi tre ore di sciopero all’anno, quelle tre ore di sciopero erano sotto la lente d’ingrandimento della multinazionale che diceva: “Ecco, vedi. In Italia non si può fare nulla perché siete sempre in sciopero”. Noi allora abbiam fatto un’analisi di ventiquattro ore sul ciclo produttivo di una cella di montaggio e abbiamo dimostrato che c’erano delle perdite di efficienza per turno, quindi ogni 8 ore, di 150 minuti. Ogni giorno che il cristo metteva in terra c’erano quindi, in tre turni di 8 ore, 450 minuti di perdite di efficienza. Però se tu facevi un’ora di sciopero all’anno o al mese, era uno scandalo perché bloccavi tutto. Quindi noi abbiamo dovuto imparare a rispondere al fatto che gli accordi che ci proponevano, i peggioramenti, le misure proposte erano non solo sbagliate dal punto di vista nostro, di interessi dei lavoratori, ma non c’entravano nemmeno nulla con le esigenze produttive, come se ormai il nostro, chiamiamolo avversario di classe, vivesse in una dimensione talmente eterea, che in realtà non aderiva più nemmeno alle esigenze della produzione in quanto tale.
AP: Rimanendo nell’ambito del percorso che avete portato avanti in questi mesi, ho notato che nelle vostre varie manifestazioni, c’è sempre stata tanta partecipazione e secondo me questo ha evidenziato come intorno alla vostra vertenza, si fosse riunito un numero di persone che andava al di là di familiari, amici e conoscenti, ma che coinvolgeva anche lavoratori di altri settori. Lì probabilmente s’è espressa una vicinanza e una somiglianza, diciamo una “vicinanza per affinità”, perché il vostro disagio è stato sentito anche dagli altri lavoratori. Noi per esempio veniamo da un mondo del lavoro diverso, quello della cultura, dove di solito si pensa allo stereotipo che tanto in quel mondo lì c’è chi ha studiato e quindi si crede sia un settore più “comodo” sotto certi aspetti, dove ci sono strumenti più solidi per difendersi, e non è vero perché in realtà c’è uno sfruttamento pazzesco: si sta tornando al lavoro a cottimo; le partite iva soffrono terribilmente; ci sono esternalizzazioni illegittime; adesso c’è la questione della regolamentazione seria del lavoro a distanza, dove si accusano i lavoratori di disorganizzazione per limitarne i diritti e via dicendo. Cosa pensate voi di questo avvicinamento da parte dei lavoratori di altri settori e c’è l’idea, la possibilità di poter fare in quei settori quello che avete fatto voi qui?
CdF: Innanzitutto, cerco un po’ di rivisitare il senso delle date di lotta che noi abbiamo portato avanti fin qui. Il 9 luglio ci chiudono; noi, domenica 11 luglio, facciamo qua davanti alla fabbrica un primo corteino, dove arrivano un migliaio di solidali, lo facciamo da rotonda a rotonda, togliamo lo striscione la ‘GKN non si tocca’ e per la prima volta mettiamo lo striscione ‘#INSORGIAMO’, perché il messaggio era che quello che stava accadendo a noi non poteva essere considerato come un punto singolo, ma come una condizione più generale del mondo del lavoro. Poi, il 19 luglio, c’è lo sciopero generale provinciale, che era dovuto perché era subito la risposta a caldo, ma anche lì noi ci tenevamo a specificare che non poteva essere, né la nostra lotta né tutto il processo, concluso in un solo atto. Tant’è che sentiamo subito il bisogno, con una scommessa tremenda, di lanciare il 24 luglio un corteo nazionale, il sabato mattina di luglio, sotto il solleone, qua davanti, ed eravamo circa ottomila: l’abbiam chiamato con un video, non l’abbiam chiamato con nient’altro. Ed è lì che c’è quello che poi tanti hanno ritenuto – ma noi non ce ne rendevamo conto – il celebre discorso del “Voi come state?”, che era rivolto soprattutto ai settori lavorativi che voi avete nominato. Nel senso che noi avevamo bisogno di toglierci di dosso l’idea del povero operaio che è già spacciato, l’idea che quella fosse la classica vertenza che tanto c’è da sempre, a un certo punto arriva la deindustrializzazione, si sa, il lavoro industriale è superato e vabbè. Tra l’altro, in quel caso, c’era da dire una verità, cioè che noi in realtà non ci sentivamo deboli o sfigati. Noi sentivamo di avere una forza e dei diritti che purtroppo venivano attaccati anche perché attorno a noi tutti gli altri non ce li avevano. Infatti, ci siamo via via resi conto di una cosa. Eravamo a luglio, noi avevamo lo stipendio pieno fino al 22 settembre, perché secondo la procedura di licenziamento sei a stipendio pieno per 75 giorni, e quindi scoprivamo che in quella condizione comunque avevamo più certezze di quello che veniva a solidarizzare con noi e che c’aveva il contratto di una settimana o di quello che faceva il pezzo a cottimo, perfino del giornalista che ci faceva le domande. E quindi in realtà noi volevamo chiedere scusa a quel milione di posti di lavoro persi durante la pandemia, scusa a tutti quelli per cui non c’eravamo mobilitati prima, o meglio, noi ci siamo sempre mobilitati come azienda in solidarietà a tutti, ma chiaramente mai come se fosse una questione di vita o di morte e ci sembrava egoistico dire “ora che tocca a me, vi mobilitate tutti per me”. No. Ora che tocca a me, vi mobilitate per voi perché in realtà, purtroppo, io sono la punta avanzata di diritti che voi nemmeno più avete.
AB: Peraltro – ed è qui la cosa assurda nel vostro caso – in un’azienda che tutto sommato andava bene, che lavorava bene, che aveva una produzione di alto livello, sia dal punto di vista finanziario che tecnico-professionale.
CdF: Con 40 milioni di euro di investimenti negli anni precedenti. Quindi, hai proprio la sensazione che a quel punto, passata la questione GKN, già tu che non avevi diritti prima, non li puoi nemmeno più aspirare. Poi, tornando alle varie fasi della lotta, abbiamo fatto la manifestazione ad agosto, che invece era una manifestazione che si rifaceva più ai temi della Resistenza, per affermare un altro concetto importante, cioè che noi ritenevamo di avere alle spalle un periodo buio e che andava creato un moto di indignazione che la finisse con quel periodo buio. E poi c’è stato il corteo del 18 settembre, che invece era a pochi giorni dalle nostre lettere di licenziamento. Arriviamo quindi all’oggi, all’Insorgiamo Tour che ci porterà alla manifestazione del 26 marzo. Tutto questo per dire che noi in questi mesi abbiamo specificato che la nostra non era una vertenza solo per una fabbrica, e non era una vertenza della classe operaia industriale nel senso stretto del termine, ma era una vertenza che andava ben oltre e che anzi i primi settori a cui noi guardavamo erano proprio lavoratori e lavoratrici dell’arte, della cultura, dello spettacolo, dell’informazione che vedevamo come quei settori con i diritti più compressi. Abbiamo fatto un’assemblea anche con i giornalisti, intesa non come conferenza stampa, ma come assemblea con collaboratori e collaboratrici dell’informazione, e quello che purtroppo abbiamo notato è come questo settore, cioè tutto ciò che non è settore strettamente industriale, sia stato pervaso dall’idea che si tratta di un lavoro più leggero del nostro e quindi, in base al fatto che un lavoro più leggero è più appagante, sostanzialmente si sia utilizzato questo concetto per destrutturare questo tipo di lavoro, arrivando a non poter ragionare di orari, di salario, del fatto che devi fare una famiglia, del fatto che tu ti possa infortunare, del fatto che hai altri tipi di usura fisica e psicologica nel fare questo lavoro, altri tipi di costi. Per questo è un settore a cui, almeno noi, guardiamo con molto interesse e attenzione per creare una forma di unità.
AB: Come si dice in questi casi, poi ognuno ha il suo, inteso come percorso di lotte da affrontare, di diritti da ottenere. E l’aspetto preoccupante, come sottolineavi tu, è proprio legato alla percezione, all’esempio che può dare la situazione creata contro di voi, perché se toccano voi – ovvero operai che portano avanti una produzione di alta qualità, che generano fatturati importanti per questa specifica azienda, in uno stabilimento che oltrettutto dava segnali di ripresa nonostante le ovvie difficoltà che negli ultimi due anni, causa pandemia, hanno investito tante imprese – allora si può solo immaginare cosa possa accadere in altre aziende, in altri settori, contro altri lavoratori. Quindi, da parte vostra è stato semplicemente bello vedere il modo in cui avete cercato di immedesimarvi nelle situazioni altrui. Potevate lottare solo per voi stessi, concentrandovi sui vostri punti di forza e cioè quegli aspetti, quei fatti che ho citato poco fa e che non giustificavano in alcun modo la chiusura dello stabilimento. Eppure, avete comunque deciso di mettervi nei panni anche di altri, avete cercato di allargare questa lotta a tutti e questo forse ha contribuito a quella grande partecipazione che c’è stata alle varie manifestazioni. Non parlo solo dei sindacati, delle sigle, delle associazioni, delle istituzioni o anche di chi semplicemente è venuto a “mettere il cappello” e così via; parlo proprio dei tanti ragazzi e delle tante ragazze che, come noi, lavorano nell’informazione, nella cultura, nello spettacolo o anche solo di chi semplicemente credeva e crede sia giusto fare questo percorso insieme. Questo già ti dà la dimensione di quello che ha siginificato il Collettivo di Fabbrica. Tornando però alla vostra condizione, abbiamo riepilogato un attimo quello che è successo nei mesi scorsi e si arriva oggi (1° febbraio 2022, ndr), ovvero a quello che apparentemente è un punto di svolta. C’è una nuova società, la QF del Gruppo Borgomeo, che ha un nome molto sloganistico ma anche poca sostanza2. Qual è adesso la situazione?
CdF: Riallacciandomi un po’ a quello che hai detto, noi non abbiamo allargato il movimento solo per empatia, solo per solidarietà ma anche per una funzione strettamente pratica. Voglio dire che sin dall’inizio, sin da quando abbiamo visto quel cancello chiuso il 9 luglio, noi ci siamo resi conto che le possibilità di vittoria erano veramente risicate, che tutti prima di noi avevano perso e che noi non potevamo esorcizzare questo punto nascondendolo, facendo finta che non ci fosse. Quindi abbiamo detto banalmente la verità e cioè che per vincere una vertenza come questa, dovevi invertire così tanti processi sociali, che lo potevi fare solo con un movimento generale, perché dietro alla nostra chiusura c’è la finanziarizzazione dell’economia, c’è la mancanza di una politica industriale, c’è l’automotive che va a pezzi, c’è una strumentalizzazione da parte di Confindustria, del Sole24ore, di settori dell’economia, della transizione climatica. Ci sono così tante cose che per tenere aperta la fabbrica avresti dovuto imporre a Stellantis di non disimpegnare dall’Italia e quindi fare una cosa che lo Stato italiano non ha mai fatto, cioè dire a Fiat3 cosa deve fare, definire la sua politica industriale. Forse avresti dovuto addirittura nazionalizzare, rendere pubblica l’azienda in caso non fosse arrivato un compratore, cioè avresti dovuto veramente fare un rivoluzione.
AB: Ribaltare il tavolo.
CdF: Sì. Ad oggi comunque, il bilancio è questo: siamo riusciti, come dire, attraverso i rapporti di forza che abbiam sviluppato, ad ottenere l’accordo sindacale migliore possibile, che tanti non sono mai riusciti a ottenere. Purtroppo però, questi sei sette mesi non si sono rivelati ancora sufficienti a ribaltare completamente questi rapporti. E quindi cos’è successo? A un certo punto hanno visto che non riuscivano né a portare via i macchinari né a licenziarci, perché era troppo forte la resistenza, ed è arrivato un privato che ha acquistato le quote dell’azienda. Questo vuol dire che a me non è cambiato apparentemente nulla, perché io sono sempre lo stesso libro matricola Inps, ho sempre le stesse ferite, lo stesso Tfr e gli stessi “diritti”. Il mio posto di lavoro è lì. Al contempo hanno ritirato i licenziamenti, ma hanno anche portato via questa azienda dalla filiera produttiva dell’automotive e questo significa che questo stabilimento, questa “azienda” attualmente non produce nulla. Noi abbiamo macchinari nuovi che non servono più a nulla, probabilmente andranno venduti, non si sa dove, forse alla stessa Melrose Industries, quindi verranno delocalizzati dolcemente, portati via, lontano.
AB: Con un guadagno loro magari.
CdF: Eh, chi ci guadagna non è molto chiaro in tutta questa operazione, ma qualcuno ci guadagnerà. Di certo troveranno il modo di guadagnarci. In tutto questo, noi siamo riusciti semplicemente a fare un accordo che comunque è rivoluzionario – anche se in un’ambito sindacale e non socialeeconomico diciamo – dove si stabiliscono dei tempi certi; la continuità occupazionale dei diritti, quindi chiunque verrà ad acquistarci per reindustrializzare dovrà sempre garantire gli stessi posti di lavoro, gli stessi diritti; e qualora entro agosto questo nuovo compratore – perché QF è solo intermediario per vendere a un nuovo compratore – non dovesse arrivare, QF deve reindustrializzarci chiedendo l’intervento del capitale pubblico. E noi abbiamo creato una commissione di proposte di verifica territoriale, quindi un organismo di politica industriale che non esiste da nessuna parte, dove noi abbiamo diritto di proposta e di verifica. Quindi, se un domani questi processi di reindustrializzazione non arrivassero, noi abbiamo diritto di convocare questa commissione di fronte alle istituzioni e alla proprietà e di proporre i nostri piani industriali. Detto questo, c’è un però: noi staremo mesi e mesi in ammortizzatore sociale, quindi con un taglio sul nostro salario, e nell’incertezza, perché comunque verremo tutti ricollocati in un’azienda che ancora non esiste. Capite bene che questo meccanismo, fatto apposta secondo noi – comunque anche se non è fatto a posta quello è l’effetto – di determinare licenziamenti che noi chiamiamo “spintanei”: cioè sono spontanei, perché la gente sta dando le dimissioni volontariamente, perché ovviamente se tra due anni e dopo due anni di cassa integrazione verrai ricollocato in un’azienda che forse ancora non esiste, qualsiasi cosa trovi oggi, è preferibile a questo.
AB: Allo stipendio decurtato.
CdF: Esatto. Quindi, quello che sta succedendo è che qua, piano piano, da 422 tra lavoratori e lavoratrici, siamo passati per esempio a 350 e questo meccanismo apparentemente è deresponsabilizzante, perché l’imprenditore è buono, non licenzia nessuno; noi organizzazioni sindacali non s’è firmato i licenziamenti e chi se ne va, lo fa con dimissioni volontarie. Però a questa cosa noi non ci stiamo. Tant’è che nell’accordo abbiam fatto mettere che qua, in ogni caso, si dovranno ricreare 370 posti lavoro. Vuol dire che se anche tutti i lavoratori di GKN, me compreso, trovassero il lavoro della vita, il posto di lavoro rimane comunque un concetto territoriale e non individuale: qua c’erano 370 posti di lavoro, o meglio 422 che poi sono diventati in realtà 370 al momento dell’entrata di QF prima che Melrose li distruggesse, e 370 ci dovranno essere. Che siano nostri o che siano di qualcun altro non importa, devono essere del territorio. Ma proprio perché siamo riusciti ad arrivare solo fino a un certo punto, sindacalmente parlando, ed è il contesto sociale e politico che va cambiato, noi rilanciamo la lotta. Per questo, faremo una mobilitazione a marzo, che questa volta non è giustificata da un’emergenza, perché non ci sono licenziamenti sul tavolo, ma c’è comunque un Paese da cambiare. Saremmo ipocriti, egoistici se ci mobilitissimo solo quando ci sono i licenziamenti e l’emergenza e non ci mobilititiamo più ora che non c’è l’emergenza. Alla fine, quando loro ci hanno preso alla sprovvista il 9 luglio, abbiam detto: ” È un mondo che ha determinato i nostri licenziamenti. I nostri licenziamenti sono una delle tappe di questo mondo” e questo continua. Anzi… Ecco, vi ho riassunto a che cosa servivano le varie manifestazioni, per dirvi che quella di marzo serve a uscire dall’emergenza. Serve a dire: “Noi oggi ci mobilitiamo perché ci sono delle cose da cambiare, non perché c’ho il licenziamento sul groppone”.
1 GKN Driveline (oggi GKN Automotive) è una divisione della multinazionale britannica GKN, leader globale nella realizzazione di componenti per il settore automobilistico. Nel 2018, il fondo di investimento finanziario Melrose Industries PLC ha acquisito il gruppo GKN e, di conseguenza, furono assorbiti anche GKN Driveline e relativi stabilimenti, compresi i due italiani: quello di Brunico in Alto Adige e quello di Firenze, trasferito dal 1996 a Campi Bisenzio con il passaggio da Fiat a GKN. In sostanza, l’obiettivo di Melrose Industries è una ristrutturazione finanziaria, che prevede il taglio delle spese ritenute “inutili” per aumentare il valore dell’azienda e vendere al prezzo più alto possibile. Ciò significa anche chiudere gli stabilimenti ritenuti meno redditizi e delocalizzare la produzione dove le condizioni di tassazione, manodopera, ecc. sono più vantaggiose. Questo è avvenuto non solo per lo stabilimento di Firenze, ma anche per quello storico di Erdington, nei sobborghi di Birmingham, dopo 70 anni di attività produttiva.
2 QF starebbe infatti per Quattro F – Fiducia nel Futuro della Fabbrica di Firenze. Il gruppo è guidato dall’imprenditore Francesco Borgomeo, esperto – almeno così pare – in salvataggi aziendali e riconversioni industriali, puntando sull’economia circolare. Era stato scelto proprio da Melrose Industries come advisor per cercare soggetti interessati a rivelare lo stabilimento di Campi Bisenzio ed impegnato nel progetto del cosiddetto “ecodistretto ceramico” del Lazio Sud che coinvolge la Saxa Gres.
3 Stellantis N.V. infatti è la holding nata il 16 gennaio 2021 dalla fusione dei gruppi PSA (Peugeot S.A.) e FCA (Fiat Chrysler Automobiles). Quest’ultima comprende al suo interno Fiat, Chrysler, Abarth, Ram Trucks, Jeep, Lancia, Alfa Romeo e Maserati. Circa l’80% della produzione di GKN Driveline Firenze – composta principalmente da semiassi e giunti omocinetici – era destinata a questi marchi, mentre il restante 20% era destinato a Mercedes, Bmv, Audi, Land Rover e Ferrari, la quale ha lo stesso presidente di Stellantis, ovvero John Elkann.