Il Giardino delle parole
Non so più camminare
Un racconto ispirato da Makoto Shinkai
di Chiara Francioni

Le strade di Tokyo brulicano di passanti protetti da ombrelli lucidi e grondanti. Il cielo è per lo più grigio ma, di tanto in tanto, sbucano timidi raggi di sole facendo risplendere le pozzanghere. È giugno ed è appena iniziata la stagione delle piogge o, come la chiamiamo in Giappone, tsuyu[1]. Il nome è curioso, ma non senza ragione, infatti le piogge si abbattono sul paese fino a luglio, dando il benvenuto all’estate e accompagnando la fase di maturazione delle prugne (anche se in realtà si tratta di una variante di albicocche).
L’aria è umida, ma non fa freddo e non è raro imbattersi in fugaci arcobaleni e bambole teru teru bōzu[2] appese alla grondaia da qualche bambino speranzoso, nel vano tentativo di scacciare il maltempo. Ci sono giorni, come oggi, in cui l’acqua cade ininterrottamente, inzuppa le scarpe, leviga le strade e scivola silenziosa tra i pensieri degli abitanti di questa città.
Lo ammetto, non è il periodo dell’anno più indicato per trascorrere il tempo all’aperto oziando nei parchi puliti e curati della capitale. Eppure sono seduta qui, su una panchina del giardino di Shinjuku Gyoen riparata da questo enorme gazebo all’ombra di un pino imponente, e mi guardo intorno, cercando di capire che effetto abbia tutta questa pioggia su di me. A pochi metri si estende un laghetto che cattura nel suo riflesso i colori del mondo. Le fronde dei sempreverdi, appesantite dall’acqua piovana, ne accarezzano la superficie, mentre cerchi concentrici si formano allo stesso ritmo con cui cadono le gocce dal cielo.

Una volta amavo i giorni di pioggia, al punto da dimenticarmi l’ombrello ovunque andassi: a casa, a scuola, sui mezzi. L’idea di bagnarmi non mi preoccupava, perché avevo la convinzione che per quanta acqua potesse scivolarmi addosso, non avrei mai mostrato più di quello che tutti potevano già vedere. Erano gli anni in cui camminavo a testa alta, sorretta dalla forza dei sogni.
Fin da ragazza non ho desiderato altro che diventare insegnante. Mi sembrava la professione giusta per chi, come me, amava la letteratura e la poesia. Il desiderio di trasmettere ai giovani il senso di appagamento che provavo nel perdermi tra parole forgiate dal sacro fuoco dell’arte era un impulso irresistibile. Per questo sono venuta fino a Tokyo, per questo ho studiato senza distrazioni.
Quando ho cominciato la carriera di docente i ciliegi erano in fiore[3] e il cortile dell’istituto, dove insegno tuttora, sembrava ai miei occhi ancora inesperti un passaggio fatato verso il regno della realizzazione. La brezza primaverile accarezzava i petali sgargianti e scompigliava gentilmente i miei capelli: mi sentivo leggera e carica di aspettative. Quel giorno decisi di cominciare la lezione, la mia prima lezione, leggendo i versi di un tanka[4] a me molto caro fin dai tempi in cui io stessa ero una liceale e studiavo sullo libro di testo che i miei studenti avevano, adesso, appoggiato sui loro banchi.
“Rombi di tuono
echeggiano tra le nuvole
chissà, forse pioverà.
Tu resterai con me?”
Quella volta ho volutamente omesso l’epilogo del componimento, perché volevo che ognuno dei miei studenti avesse un’impressione personale della poesia e sviluppasse un’idea propria di quella che poteva esserne la conclusione. Tuttavia, nessuno di loro prese l’iniziativa, nessuno alzò la mano, nessuno dimostrò interesse per quelle parole che mi avevano, anni prima, trasformato in una adolescente sognante. Loro, i miei studenti, rimasero immobili e in silenzio.
È alquanto strano starsene seduta qui senza sentire il cinguettio degli uccelli. Nei giorni di sole, il loro canto è incessante. Anche quando Hiroshi, che aveva sempre vissuti a Tokyo, mi portò al parco per la prima volta, quella melodia era lì a fare da sottofondo alle nostre effusioni impacciate. “Shinjuku Gyoen è un luogo magico” aveva detto lui, probabilmente per fare colpo, “qui la natura si riprende i suoi spazi e si trova la pace”. Però aveva ragione e suppongo sia questo il motivo per cui oggi sono venuta qui, anche se piove e gli uccelli se ne stanno zitti. Per cercare la pace.
Non saprei dire quando ho iniziato ad avere paura. Semplicemente è successo. Quando ho realizzato quello che mi stava accadendo, ormai il processo era già cominciato da tempo: ogni nuovo giorno era peggio di quello precedente e la tendenza sembrava irreversibile. Avevo smesso di dimenticare l’ombrello perché la pioggia era diventata mia nemica: poteva smascherarmi, lavare via il trucco e mettere a nudo le mie ansie. Anche il rapporto con Hiroshi ne risentì: non ci siamo lasciati male, abbiamo semplicemente preso atto che non c’era più un futuro per noi. Tanto che siamo rimasti, se così si può dire, amici.

A dire il vero, visto che in questa metropoli non conosco molte persone e siamo entrambi docenti nello stesso liceo, continuo a rivolgermi a lui quando ne ho bisogno, quando mi serve che qualcuno mi sproni, anche se finora non lo avevo ammesso neanche a me stessa. E stranamente a lui va bene. Dovrei chiedermi perché, ma non so se mi interessa davvero conoscere la risposta. Sono certa che avrà già provato a chiamarmi con l’intenzione di sgridarmi perché alla fine, anche oggi, non sono andata a lavoro e avrà dovuto fare i conti con la segreteria del mio cellulare. Non troverà nessuno nemmeno a casa visto che, a differenza dei giorni precedenti, invece di restarmene a letto in compagnia di vestiti non piegati da settimane, sono venuta qui al parco, portando con me un paio di birre e qualche barretta di cioccolata per non restare a stomaco vuoto.
La verità, ma la sappiamo solo io e il filo dei miei pensieri, è che quando mi sono svegliata, ho pensato che se mi fossi vestita di tutto punto e fossi uscita di casa, forse sarei davvero riuscita ad arrivare al liceo, a fingere che non mi costasse alcuna fatica entrare e salutare i colleghi e gli studenti. La solita ingenua! Così, adesso mi ritrovo qui, da sola, su questa panchina con indosso il tailleur e ai piedi un paio di tacchi. Mi sento stupida. Chissà cosa penserebbero i miei studenti se potessero vedermi? Probabilmente mi compatirebbero. Del resto non è che abbiano una buona idea della sottoscritta: ai loro occhi sono solo una poco di buono e una fallita.
Ora che ci rifletto, mentre bevo il primo sorso di alcol della mattina, sarebbe facile dire che tutto è cominciato in quel momento, quando Ichisake, del terzo anno, ha detto in classe di avere una cotta per me. Il gruppo delle ragazze si è molto risentito e le voci che hanno messo in giro sul mio conto sono terribili. Sarebbe facile, appunto, dare la colpa al cinismo degli adolescenti, ma niente in questa vita è facile e di certo non è affatto facile trovare il bandolo della matassa infeltrita della mia decadenza.
Quando i corridoi si sono riempiti di pettegolezzi amari, ero già corrotta. Non ho saputo reagire e ho lasciato che gli eventi mi sopraffacessero. È stata colpa della mia debolezza che attendeva, nascosta nell’ombra, da anni, forse da sempre. E così, giorno dopo giorno, le mie gambe si sono fatte più pesanti, i piedi più incerti, i muscoli più rigidi e la testa più vuota, finché mi sono scordata come si fa a camminare e sono rimasta bloccata, immobile, paralizzata in una stasi di timori e di confusione che non ho più alcuna voglia di combattere.
Non sono venuta a Shinjuku Gyoen per cercare la pace, dopo tutto. Sono venuta qui per nascondermi.
La pioggia non accenna a smettere, resterò seduta su questa panchina finché non cesserà, poi, forse qualcosa accadrà. Tu resterai con me?

Il Giardino delle Parole (Kotonoha no niwa) è un mediometraggio animato del 2013, prodotto da CoMix Wave Films e diretto da Makoto Shinkai, cineasta noto non solo in Giappone, ma anche in occidente, soprattutto grazie al successo mondiale ottenuto con Kimi No Wa (Your name). Lo stile di Shinkai è caratterizzato da un forte iperrealismo grafico che regala allo spettatore scorci carichi di dettagli e paesaggi mozzafiato, sormontati da cieli infiniti e variopinti. Sebbene l’elemento fantastico sia una costante nelle sue pellicole, ne Il Giardino delle Parole, Shinkai ci propone, al contrario, una storia tanto realistica quanto intima, fatta di speranze, timori ed epifanie.
Questa storia vede protagonista, da un lato, Takao, uno studente al primo anno di liceo, maturo e determinato, il quale sogna di diventare un calzolaio per disegnare e creare scarpe che possano aiutare gli altri a camminare meglio e, dall’altro, Yukari, giovane docente di letteratura classica che si trova, invece, ad aver perso l’abilità di avanzare, arrancando sempre più nel baratro vischioso delle sue angosce.
I due si incontrano per caso in un giorno di pioggia, sotto a un gazebo nel parco di Shinjuku Gyoen (un gazebo che esiste realmente, io ci sono stata, n.d.r.), dove Yukari si è rifugiata per sottrarsi alla minaccia della propria realtà e dove Takao si è recato per disegnare, indisturbato, sul proprio taccuino. Le vite di Yukari e Takao, grazie a questo fortuito incontro, finiranno con l’intrecciarsi per il breve, ma intenso, periodo di tempo che sarà loro necessario a capire cosa fare delle rispettive esistenze. Un film poetico e toccante, che si consuma nel tempo di un lungo sospiro.
[1] Pioggia di prugne
[2] Si tratta di bambole di stoffa o carta bianca che ricordano, nella forma, dei piccoli fantasmi e sono tradizionalmente considerati talismani per allontanare la pioggia. Sono sicura che ricorderete di averle viste in qualche anime, se non altro da bambini.
[3] In Giappone l’anno scolastico inizia ad aprile quando i numerosi ciliegi di Tokyo sono ancora coperti di sakura, i celebri fiori rosa che sono ormai diventati uno dei simboli del paese.
[4] Breve componimento in versi