I nuovi mostri
(Quando l’horror è a casa nostra)
di Benedetta Bendinelli

Cosa ti spaventa di più, un virus mortale o uno sconosciuto in casa? Probabilmente una combinazione delle due cose, tradotta nella condivisione forzata di uno spazio che chiamiamo casa. Un virus mortale e uno spazio promiscuo in fondo hanno molto in comune. In entrambi i casi l’aria diventa pesante, portatrice di sconforto e di malattia. Lo spazio a disposizione che pian piano si riduce è un focolaio di paranoie e batteri. Tra un Corona Virus e un Corona Fabrizio in casa, probabilmente non sapremmo chi scegliere.
Del resto il contesto sociale e politico in cui navighiamo adesso è un chiaro esempio di come sia diventato insopportabile per l’uomo il dover mettere a disposizione degli altri il proprio nido, le proprie cose, il proprio porto sicuro. Quello che ci terrorizza oggi è qualcosa di invisibile, qualcosa di evanescente come un fantasma, spettrale come il più terrificante dei boogeyman; e la paura non è più paura ma è più simile al fastidio.
Volendo abbozzare una grossolana analogia si pensi che l’immigrazione (o la ‘migrazione’ se parliamo al presente) sia la sottocategoria cinematografica chiamata “home invasion”, dove il fenomeno storico è un film e il genere è l’horror. Siamo molto lontani dalla tradizionale espressione del terrore alla Lucio Fulci o da quella ancor più teatrale di Romero. Profondo Rosso ci fa sorridere, l’Esorcista sembra nato apposta per diventare un meme.

E così, seguendo il flusso sanguigno del genere, sono cambiate le paure, le ansie, le reazioni. Il caro vecchio zombie – o il più classico gatto nero – è stato sostituito prima da entità sconosciute e malefiche (penso ai primi duemila con The Blair Witch Project e Paranomal Activity) e poi da qualcosa di più tangibile, di più ‘disturbante’ (traducendo alla lettera un aggettivo caro alla critica inglese) come l’intrusione non gradita di sconosciuti (vedi The Strangers, You’re Next o la più recente versione di Funny Games).
In un certo senso la paura – quella cinematografica – ha smussato gli angoli, ha nascosto molto sangue e ha abbassato la voce. Non tanto per rendersi più presentabile quanto più per assecondare una tendenza generale a una psicosi silenziosa – perché se tutto è stato detto e tutto è stato fatto allora anche il linguaggio dell’horror dovrà trovare nuovi strumenti di comunicazione.
Possiamo dunque relegare una categoria alla sua sola espressione estetica? L’horror è soltanto sangue e violenza oppure può camuffarsi sotto altri panni all’apparenza più candidi? I nostri nonni temevano i vampiri e le streghe. I nostri genitori gli incontri ravvicinati del terzo tipo. A noi viene un infarto se qualcuno viene a bussare alla porta (o a suonare il citofono). L’orrore moderno è un vaso di Pandora senza fine, un contenitore di paranoie scintillanti, tutto attrae e tutto spaventa. In questo modo la narrazione dell’horror ha trovato canali di comunicazione che prima non esistevano. Ha scovato terreno fertile dove un tempo il seme della paura non riusciva a germogliare.

Penso a Midsommar, con i suoi prati verdi e le corone di fiori. E poi penso al pluri inflazionato Parasite, che è un ottimo esemplare ibrido che raccoglie varie sfumature di genere: dalla commedia al dramma e poi dal thriller fin quasi all’horror – con tutte le sue variazioni sul tema. Il film di Bong Joon-ho racconta molto bene la dinamica dell’invasione di campo – subita o perpetuata – e riesce in maniera elegante, ma sempre disturbante, a generare una nuova forma di tensione che si distacca da quella classica, immortalando quella che oggi come oggi sembra essere la paura più grande: l’intrusione. Parasite parla anche di frustrazione sociale, di una guerra afasica tra successo e fallimento. Racconta molto altro ancora con un quadro in scala 1:1000, perché la casa – con le nostre quattro mura – non è altro che un piccolo universo. Ma di questo ne abbiamo già ampiamente parlato.
Infatti ancora prima di Parasite, nel 2018, Time Share (Tempo Compartido) ha raccontato una vicenda familiare dai risvolti terrificanti, proponendo una storia inquieta che fa sorridere e a tratti terrorizza. Sebastián Hoffman, scrittore e regista del film, è un brillante autore messicano che aveva già calpestato i tappeti dei maggiori festival indie internazionali, primo tra tutti il Sundance Festival dove nel 2013 debutta con Halley. Dopo il primo horror dai confini ben delineati, Hoffman cambia tonalità e registro, e con Time Share sembra quasi di partecipare a un party psichedelico dove i corridoi labirintici conducono a infinite porte colorate dietro le quali si nascondono oscuri scenari e misteriosi segnali; ricorda un più loquace Gaspar Noè che strizza l’occhio a J.C. Ballard.
Eva e Pedro sono una giovane coppia in vacanza e insieme al loro figlio approdano all’Everfield, un gigantesco complesso di multiproprietà appena acquisito da quella che appare essere una spietata società americana. La tranquillità dei tre è immediatamente sconvolta dall’arrivo di un’altra famiglia che sembra aver prenotato lo stesso appartamento.
L’errore del resort viene preso alla leggera e così i responsabili dell’accoglienza propongono alle due famiglie di condividere lo spazio, una soluzione che se accettata dai clienti comporterà succosi vantaggi. Abel, il padre portavoce della seconda famiglia, sembra accogliere di buon grado la proposta. Al contrario Pedro si adopera subito per risolvere la questione e mantenere l’utilizzo esclusivo della proprietà. Le differenze tra i due nuclei familiari sono subito palesate. Da una parte Eva e Pedro dalla più giovane frangia borghese, mentre dall’altra ci sono i ‘sempliciotti’ (e più numerosi) guidati dallo scamiciato Abel.
Lo scontro di classe al centro della storia si trasforma subito in un’intricata matassa nera (o meglio: noir), anticipata anche da un prologo enigmatico che mostra un‘altra coppia chiaramente traumatizzata. Le due famiglie sono dunque costrette alla convivenza e alla condivisione di abitudini e attività vacanziere che illuminano a piena luce le profonde discrepanze tra le parti. Pedro teme una sorta di contagio da parte degli altri che potrebbero – secondo lui – abbassare il livello IQ del figlio; li disprezza e si fa disprezzare da tutti.

La diffidenza di Pedro verso quella che – secondo i suoi parametri – può essere definita clientela di serie B, va oltre la sottostima di una categoria sociale (la classe operaia? Il popolo oppiato?) e oltrepassa il pregiudizio fino a raggiungere la consistenza acida della paura, quella vera e propria. Abel infatti si insinua di prepotenza dentro i fatti di Pedro. Lo costringe a un entusiasmo fasullo mentre lo scenario intorno a loro esplode in un vortice di cocktail, cene, giochi di ruolo e piscine sovraffollate.
La nausea che sentiamo è un fastidio generato da tutti i partecipanti a questo gioco al massacro, un massacro silenzioso che utilizza come arma di distruzione di massa la spersonificazione e l’annichilimento delle umane espressioni, riducendo ogni gesto e ogni intenzione a un sistema ben calibrato di acquisizione dati. Pedro sembra essere l’unico a rendersi conto delle reali intenzioni del mostro Everfield ma una parallela microstoria smaschera finalmente i sotterfugi dell’azienda, gestita da un insolito RJ Mitte (il ragazzo dalle mille colazioni di Breaking Bad) che mira alla manipolazione mentale sia dei clienti che dello staff.
Gloria e Andres vivono e lavorano da anni nel complesso di multiproprietà. Il loro matrimonio è ora messo in crisi non soltanto dalla noia e dalla subdola prigionia ma anche dalla loro diversa ambizione. Mentre a Gloria viene offerta una posizione rilevante all’interno dell’azienda, Andres resta bloccato all’angolo con scarse possibilità di crescita. Un’altra guerra fredda che esplode, altri corpi che si lacerano sotto schegge di sogni infranti e fallimenti che si aprono come piaghe infette. La paura, di nuovo, non è un mostro dagli occhi rossi ma una soffocante sensazione, uno spirito che soffia sul collo e sussurra parole inquietanti. Le stesse parole che pronuncia il responsabile delle vendite (RJ Mitte) durante una speech motivazionale per i nuovi assunti.
Nella loro mente dipingeremo un quadro che non rappresenta chi sono, ma chi diventeranno.

La generazione dei trentenni di oggi, forse più della altre, ha convissuto con questo mostro sotto il letto per notti intere, per anni e anni, per poi rendersi conto che l’orrore dell’arrivismo è solo uno spauracchio e il fallimento è una cantilena che ronza negli orecchi di tutti. La paura non fa paura – anche in questo film – la paura da fastidio, è qualcosa d’ingombrante, come una preoccupazione o una fobia cronica. Il classico registro narrativo ed estetico dell’horror vuole che sia un’entità oppure un particolare personaggio ‘cattivo’ a sterminare corpi e menti. Eppure esistono centinaia di altre umane circostanze che possono essere definite orrorifiche.
L’impiegato, l’avvocato, il medico e il banchiere e poi il matrimonio, la vacanza, la casa al mare e il mutuo da pagare sono stati e sono ancora pugnali conficcati nelle orecchie. Sono lame sottili che lavorano sotto pelle fino a lasciare soltanto polvere di ossa e cenere di speranze. Andres e Pedro in qualche modo sono i paladini di una giustizia umana, una giustizia che vorrebbe vedere autenticità e libertà a governare la vita. Eppure sono colpevoli anche loro – lo sono tutti in questa storia – di eccessiva manipolazione delle proprie e altrui intenzioni.
Tornando a noi: casa nostra non si tocca e chi lo fa rischia grosso. Questo è l’orrore che vediamo in molte storie contemporanee. E anche in Time Share il mostro non è uno soltanto ma sono tutti e sono addirittura coloro che abitano la propria dimora.
Questo è un film vasto, che ficca il naso in ogni angolo della casa, in ogni tasca e nei più segreti anfratti della personalità. L’ansia che provoca il luogo / non-luogo delle multiproprietà, propagandato anche da una pubblicità stomachevole, si unisce infine a quello che è stato il primo trigger point del film: la condivisione. Il furto dell’intimità casalinga, la perdita della proprietà e (perché no) dell’identità, sono tutti temi cari al nostro vissuto e al nostro presente. E se una volta la chiave di lettura cinematografica di queste tematiche era perlopiù drammatica, adesso tutto può trasformarsi in una vicenda dai risvolti macabri. Come un vero e proprio horror, dove anche Il giardino dei ciliegi sarebbe un bagno di sangue.