Hellbound: una riflessione
di Chiara Francioni
– ATTENZIONE: POSSIBILI SPOILER! –
Mi sono vista Hellbound (Jiok, in lingua originale), nuova serie coreana lanciata da Netflix, in una giornata. Sì, lo so… ho dei problemi con il binge watching e neanche cerco di nasconderlo. A mia parziale discolpa però ci tengo a dire che non è stata una visione passiva (nel senso che non c’era la moschina a gironzolare intorno alla bocca aperta) anzi, ne sono uscita con la mente in subbuglio, gravida di domande e desiderosa di decifrare i messaggi che Yeon Sang-ho[1], regista della serie, voleva mandarmi. Così, eccomi qua, davanti a un computer, intenta a cercare le parole giuste per raccontarvi cosa ho visto o, più precisamente, cosa penso di aver visto. Quella che seguirà, infatti, non è una recensione canonica, bensì una riflessione, forse vaneggiante… giudicate voi.
Iniziamo dalla premessa. In giro per il mondo stanno accadendo fatti alquanto strani: individui in apparenza non collegati tra loro ricevono sentenze di morte da un essere sovrannaturale con annessa condanna alla dannazione eterna. La pena comminata viene eseguita da tre creature demoniache che, comparendo dal nulla, raggiungono il sentenziato nel giorno e nell’ora profetizzati, lo massacrano di botte e, per finire, lo bruciano vivo. Terminato il proprio incarico, i misteriosi e temibili boia scompaiono, lasciandosi dietro solo i resti carbonizzati del malcapitato. L’incipit è chiaro: il sovrannaturale irrompe con violenza nella quotidianità.
I fatti si svolgono a Seul dove una setta in ascesa, conosciuta come La Nuova Verità, offre alla popolazione, stordita dall’incapacità di comprendere l’assurdità degli avvenimenti di cui è testimone, una possibile spiegazione. Il carismatico leader Jeong Jin-soo rivela agli adepti la natura divina del fenomeno: Dio, ormai stanco di vedere i propri figli perseverare nel peccato, ha deciso di guidarli verso l’irreprensibilità mediante la forza dissuasiva della pena esemplare. A ricevere la condanna, pertanto, sono solo i peccatori, per i quali è ormai spirata ogni possibilità di redenzione tanto che ad attenderli c’è solo una morte cruenta e l’inferno. Rendendo pubbliche le esecuzioni, i membri della Nuova Verità riescono, anche grazie al potere amplificatore della rete, a moltiplicare la portata generalpreventiva delle condanne, assicurandosi così un seguito di fedeli devoti e rispettosi del volere di Dio.
Incuriosita dalla scelta narrativa, dopo aver rievocato ricordi legati alla Chiesa dell’Unificazione e al reverendo Sun Myung Moon che, da Seul, era riuscito a compiere opere di fidelizzazione anche in Italia, mi sono trasformata in una piccola nerd dell’internette e ho fatto un po’ di ricerche, scoprendo che in Corea la questione religiosa è piuttosto complessa.
Sebbene, infatti, dalle ultime indagini sia emerso che una buona parte della popolazione sia essenzialmente atea, continua a esistere un pronunciato pluralismo di fedi (buddhismo, cristianesimo – sia protestante che romano –, confucianesimo, sciamanesimo e culti minori). Inoltre, negli ultimi decenni, anche per effetto del ritorno alla democrazia dopo anni di dittatura militare più o meno esplicita, si è assistito alla nascita di numerose “chiese” fuoriuscite dall’alveo del cristianesimo protestante, molte delle quali sono di stampo millenarista e cioè fondate sulla credenza nell’imminente avvento di una nuova era, dove i giusti avranno la meglio e il male sarà sconfitto per sempre. Si tratta di culti settari, nati e cresciuti attorno alla figura carismatica del leader di turno e sostenuti da importanti campagne di proselitismo.
Ad oggi se ne contano centinaia e, come insegnano recenti fatti di cronaca, il fenomeno viene vissuto con preoccupazione. A tale proposito, appare emblematico il caso della Grace Road Church e della sua fondatrice, Shin Ok-ju, recentemente condannata per aver costretto centinaia di fedeli a tollerare pesanti abusi fisici e psichici giustificando tali pratiche come rituali necessari per liberarsi dal maligno. Senza contare che un’altra setta, il Tempio del Tabernacolo della testimonianza (Shincheonji Chiesa di Gesù) è stata più volte accusata in tutto il mondo di infiltrarsi all’interno delle altre chiese per convertirne i membri. La stessa è poi finita sotto i riflettori perché parrebbe aver avuto un ruolo cruciale nella diffusione del Coronavirus all’interno del paese.
Tornando a Hellbound, mi appare evidente come La Nuova Verità, che chiaramente si rifà alla struttura dogmatica tipica del millenarismo, venga presentata da Yeong Sang-ho con taglio critico, mettendo cioè in risalto gli aspetti controversi del fenomeno. Il culto, dapprima timido e non istituzionalizzato, si trasforma col tempo in una vera e propria potenza politicamente strutturata. Sfruttando il timore della dannazione eterna, che è ormai divenuto pervasivo a causa dei recenti fatti, la Nuova Verità si pone infatti al vertice di un sistema basato sulla repressione violenta e intransigente del male, individuando nel peccatore il nemico comune da combattere. Risulta emblematico che non si parli più di “criminali” ma solo di “peccatori”, a testimonianza del fatto che la setta – e la dimensione religiosa – hanno ormai soppiantato le istituzioni e la legge dell’uomo, che continuano a esistere solo formalmente, colpevoli di non essere riuscite a placare i trasgressori comminando punizioni inadeguate.
Si assiste, dunque, all’avvento della tanto agognata “nuova era” che coincide con l’instaurazione di una sorta di regime del terrore, giustificato dal volere di Dio e volto al perseguimento ossessivo della rettitudine. La strategia di conservazione del potere si regge sul meccanismo della gogna pubblica, in quanto coloro che ricevono la “sentenza” vengono caldamente invitati a confessare pubblicamente i propri peccati, cosicché tutti possano conoscere le ragioni della punizione subita e, infine, assistere all’inflizione della stessa. La stigmatizzazione sociale raggiunge quindi livelli apicali, tanto che l’onta del peccato non si riversa solo sull’autore, ma anche sulla famiglia e sugli amici che, implicitamente, vengono spinti alla delazione nel tentativo di salvarsi l’anima.
Mentre assisto allo scorrere delle vicende, tra un episodio e l’altro, mi trovo a pensare a quello che succede nella nostra società civile, alla drammatizzazione di ogni singolo evento e alla perversa attenzione che viene data ai fatti giudiziari: nomi e cognomi sbattuti in prima pagina, vicende familiari rese pubbliche, vanificazione del segreto istruttorio. Rifletto su come una simile tendenza, se esasperata, possa condurre all’annientamento della presunzione di innocenza, almeno a livello sociale. L’opinione pubblica viene da subito portata a identificare l’indagato con il colpevole. Poi, spesso e volentieri, ci si dimentica della vicenda, rapiti dall’incessante susseguirsi di scoop che ci vengono propinati ogni giorno, salvo apprendere, solo dopo anni, l’esito del processo.
A quel punto si scatena la folla, e fioccano giudizi sprezzanti del tipo “ah, gli hanno dato troppo poco”, se l’indagato è stato rinviato a giudizio e infine condannato, oppure ”ecco, come al solito la magistratura ha sbagliato” se, invece, è stato assolto. Giudizi inquinati, che provengono dal nostro primo contatto con la vicenda, distorto dalla spettacolarizzazione delle indagini, dalla necessità di dare un volto al male affinché se ne parli il più possibile, alzando gli indici di ascolto. Un sentire collettivo che alimenta sempre più la sfiducia nelle istituzioni preposte, favorendo l’emersione del populismo e di posizioni sempre più estreme. Sarebbe opportuna, dico a me stessa, una maggiore consapevolezza che guidi la definizione dell’agenda setting al di sopra del becero sensazionalismo.
Recuperando poi l’analisi di Hellbound, mi è piaciuto notare come sia stata scelta una donna, figura da sempre emblematica nell’immaginario pseudo-cristiano, per contrastare la follia religiosa scatenata da La Nuova Verità. Si tratta dell’avvocato Min Hyun-joo (peraltro fautrice della “legge degli uomini” per professione), che troviamo alle prese con una pericolosa missione: aiutare coloro che il culto condanna. Poiché non vi è apparente possibilità di sottrarsi al verdetto, l’unico aiuto che può essere fornito è l’anonimato. L’obiettivo è dunque quello di strappare i malcapitati dalle grinfie della setta, favorendone la scomparsa (ad esempio simulando la fuga per motivi plausibili) e consentendo loro di trovare la morte lontano dai riflettori, senza dunque esporre sé stessi e i propri familiari alla gogna pubblica che, spesso e volentieri, si traduce in atti di efferata violenza.
Ciò che spinge la donna è la certezza, fondata su fatti che non vi sto a spiegare (se avete visto la serie sapete, altrimenti guardatela), che l’assurdo fenomeno presentato dalla Nuova Verità come frutto della volontà divina, sia invece effetto del caso e che i sentenziati siano esclusivamente vittime contingenti di un sadico gioco sovrannaturale. Il fatto che, nel passato dei presunti peccatori, emergano sempre azioni qualificabili come peccaminose non è infatti argomento vincente per la tesi sostenuta dalla setta, in quanto, se si abbassa l’asticella del giudizio, qualsiasi azione potrebbe teoricamente apparire come deprecabile a prescindere dal disvalore espresso (rubare la caramella dell’amico, per esempio).
Dunque, nell’universo di Hellbound, la battaglia non si consuma, come di consueto, tra l’umanità e le creature demoniache, ma tra due fazioni della stessa specie, quella umana. Da un lato si schiera chi ha inteso demonizzarne la natura, fondando il proprio potere sull’unica medicina che potrebbe consentire di purificarla – la paura della dannazione eterna – e, dall’altra, chi invece cerca di preservare la dignità del complesso sistema che il nostro essere rappresenta, tollerandone anche le imperfezioni. Del resto è proprio questo il lato interessante della serie, ossia la capacità sfruttare il sovrannaturale come detonatore di fatti che si svolgono prevalentemente sul piano della realtà e permettono di indagare le più intime paure e pulsioni umane.
Mi ricordo infine che in Corea c’è la pena capitale e che, anche se non vengono eseguite condanne dal 1997 e si susseguono moratorie per la sua eliminazione, ci sono ancora molti detenuti nel braccio della morte. Finisco quindi per leggere, nell’opera di Yeon Sang-ho, anche una critica a tale istituto. Non occorre infatti scomodare Beccaria e le sue posizioni in proposito per argomentare un vincente attacco a un simile eccesso retributivo, il quale vanifica ogni possibilità di redenzione e recupero del condannato. Senza contare che “se si abbassa l’asticella del giudizio” qualunque azione che si discosti dal dover essere prescelto dal centro di potere di turno potrebbe, in linea di principio, condurre alla pena capitale.
[1]Regista coreano autore della saga di “Train to Busan”, nonché cocreatore (insieme a Choi Gyu-seok) del webtoon “Jiok” (in inglese “hellbound”) di cui la serie è una trasposizione.