Gli ultimi giorni del Grunge
di Andrea Biagioni
Il 3 Aprile 1994, Kurt sta vagando nei boschi che circondano il lago Washington. È rientrato a Seattle da poco più di un giorno, ovvero da quando ha scavalcato un muro di due metri per evadere letteralmente dall’Exodus Medical Center di Los Angeles. Ci era entrato il 30 Marzo per risolvere i suoi problemi con l’eroina, ma da quando è tornato a Seattle ne sta facendo un uso ai limiti della tollerabilità. Anche le vecchie conoscenze di eroinomani che ha incontrato in quelle ore preferiscono isolarlo. Temono che possa cadere in overdose sotto i loro occhi.
È la storia della sua vita. Circondato di persone che sono lì per ciò che rappresenta, non per ciò che è. Tra i sette e i quindici anni è stato sballottato tra una casa e l’altra dei genitori divorziati, di qualche parente, amici. Solo in zia Mary è riuscito a trovare qualcosa che si avvicini a un sentimento familiare. O in Tracy Marander con la quale ha convissuto qualche anno, prima che gli esplodesse in faccia il successo e che Courtney Love irrompesse prepotentemente nella sua vita. Per Tracy, Kurt aveva provato un sentimento sincero, in un rapporto non facile da gestire per Tracy, perché è Kurt a non essere facile da gestire anche se lei ci ha provato. Per lei, lui scriverà About A Girl ma Tracy lo scoprirà solo molti anni dopo, quando Kurt è ormai diventato una delle rockstar più celebri del pianeta e, di lì a poco un’icona, da venerare.
E questo ci riporta al 3 Aprile 1994. Kurt probabilmente è rientrato nella sua villa al 171 Lake Washington Boulevard. La moglie Courtney ha ingaggiato una ispettore privato di nome Tom Grant per ritrovarlo. Il giorno dopo la madre sporge denuncia di scomparsa. Eppure lui è lì, nella propria casa che consuma eroina e gli ultimi pezzi di un animo puro, fragile, troppo esposto perché tutti possano aver cura di non incrinarlo. Probabilmente è solo, probabilmente no. Su questo dubbio, molti si creeranno poi una carriera. Che lo sia o meno però, il 5 Aprile si relega in una dependance della sua villa, che si trova sopra il garage. Scrive una lettera di addio alla musica, alle scene, forse a tutta una vita che gli sta pesando troppo. Un’ultima dose, talmente potente che c’è da chiedersi se davvero possa essere in grado di fare quello che sta per fare. Poi uno sparo. È tutto finito, piccolo Kurt.
Tre giorni dopo Gary Smith, che di lavoro fa l’elettricista, si arrampica fino alla depandance per alcuni lavori di controllo rimandati da troppo tempo. Dalla finestra vede un corpo riverso a terra. Tempo pochi minuti e la polizia è già sulla scena. Tempo un paio d’ore e su tutto il globo si è sparsa la notizia. Kurt Cobain si è suicidato. A 27 anni. Ancora oggi molti non ci credono. Sostengono la tesi dell’omicidio, del complotto e chiedono che il caso venga riaperto, ma credo che poco importi come sia andata. Fosse pure valida quella piccola percentuale che porta all’omicidio, non cambierebbe niente. Guardando una foto di Kurt, ascoltando la sua voce si avrà sempre una sensazione, che tutto sia finito troppo presto. E non c’è niente che possa cancellarla.
L’8 Ottobre del 2002 ho capito il perché di quella sensazione. Si era mossa sotto traccia come un fiume carsico che permea la roccia intorno a lui e poi riemerge. Dopo anni di lotte legali, Courtney Love, Dave Grohl e Krist Novoselic con annesse case discografiche si erano finalmente trovati d’accordo su che farne del materiale discografico rimasto inedito, in particolare un brano, l’unico che non fosse una demo, un outtake o roba simile. L’ultimo registrato in studio dai Nirvana, il 30 Gennaio 1994. Era il primo del nuovo album che stava nascendo. Sarebbe stato il singolo principe. Non aveva un titolo, ma non c’era da starci a pensare troppo. You know you’re right era una scelta segnata.
È semplicemente la canzone più alta che i Nirvana e abbiano mai prodotto. È una disperata e lancinante critica alla moglie Courtney e al loro rapporto, ma è come se stesse pensando a sua figlia, Frances Bean, mentre lancia quella critica come una molotov contro la propria vita. Le parole di Kurt sono un trattato di poesia contemporanea. L’amalgama musicale è perfetto. Graffia e distorce continuamente. È ipnotico. Con quel verso ripetuto incessantemente per diciassette volte. You know you’re right, you know you’re right che sul finale si tramuta in You know your rights. Sai di avere ragione era la frase che Kurt e Courtney usavano per calmare le loro liti. Su Conosci i tuoi diritti lascio che siate voi a trarre le conclusioni. Era qualcosa che Kurt aveva già visto, qualcosa che l’aveva segnato profondamente. E ora stava accadendo a lui. Stava accadendo a sua figlia. Quell’ottobre del 2002, al primo ascolto, ho sentito come una fitta allo stomaco, forse più su. Era quella sensazione, che tutto fosse finito troppo presto. Quello era il punto finale di una storia scritta a metà.
Sei mesi prima si era invece spento l’ultimo debole fuoco di una speranza già morta da anni. Lo avevano trovato in una vasca il 19 Aprile, quattordici giorni dopo l’overdose fatale di speedball. Era praticamente irriconoscibile. Nessuno in quasi due settimane l’aveva cercato. Nessuno si era domandato che fine avesse fatto. Nemmeno una denuncia di scomparsa.
Avrei voluto dire molto di più di Layne Staley. Il suo problema è quello di essere morto lo stesso giorno di Kurt Cobain, l’icona del grunge e di una generazione. Il 5 Aprile si celebra l’uno e si ricorda fugacemente l’altro. E in fondo Layne è sempre stato considerato il “piccolo Cobain”. Forse non aveva la capacità di scrittura di Kurt. A differenza sua, era il frontman, ma non l’anima pulsante degli Alice in Chains. Il leader era Jerry. E poi la sua morte non aveva lasciato quella sensazione di non finito, come era successo con Kurt. Layne era già morto molti anni prima, lentamente. E lentamente lo hanno lasciato morire, perché non c’era altro da fare. Ci hanno provato, ma Layne non ha sentito ragioni, li ha piano piano allontanati tutti, perché aveva perso l’unica persona che lo tenesse legato alla vita. Lara se n’era andata e lui aveva perso semplicemente tutto. Nemmeno la sua voce poteva contenere tutto quel dolore. Voleva solo raggiungerla. Un cammino lungo sei anni. E poi, ultima dose Layne, sei arrivato. Sei di nuovo con Lara, come Lara.
Questo è Layne. Un fiammifero appena acceso, che si consuma in pochi istanti ma in un tempo che sembra infinito. Intorno a quella fiamma, un vuoto impossibile da sostenere. È l’unica immagine a cui riesco a pensare, quando lo sento cantare. È l’unica immagine possibile, perché in fondo di Layne non c’è molto da discutere. Non ha senso dibattere su quale percorso artistico abbia intrapreso e quale avrebbe dovuto o potuto percorrere. Non si parla di musica con Layne, perché su quel piano lui mette tutti d’accordo. Layne era la sua voce. La sua voce era un diamante in grado di penetrare nelle parole, ogni volta con un sentimento diverso e e con quel sentimento farle esplodere. Per questo, Layne Staley era la voce più pregiata del grunge.